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Quando mancano i soldi i servizi che dovrebbero garantire i più deboli sono i più penalizzati
Donatella Zoia, medico a San Vittore, racconta le difficoltà di chi è impegnato sul "fronte" della salute dei detenuti
Donatella Zoia è medico a San Vittore, e appartiene alla categoria di chi crede che i detenuti sono pazienti che hanno bisogno di una attenzione doppia, e non certo a quella di chi pensa invece che i detenuti sono tutti simulatori, e non vanno curati ma "smascherati". Lei si presenta così: "Lavoro a San Vittore dal 1985, ho iniziato appena laureata, e non ho mai voluto smettere: la seconda specialità che ho preso (tossicologia medica), è stata scelta proprio perché (purtroppo) riguarda molti dei problemi medici che ti trovi ad affrontare in carcere. Attualmente lavoro come medico incaricato, e questo significa che lavoro con funzioni analoghe a quelle che ha il medico di base all’esterno del carcere, occupandomi dei detenuti di uno dei reparti (= raggi) di San Vittore. Naturalmente è un lavoro che mi piace, sia dal punto di vista professionale che umano: in carcere capisci che le cose non sono mai bianche o nere, che non ci sono "buoni" e "cattivi", che i comportamenti di tutti gli uomini (intesi come genere umano) sono condizionati dall’ambiente in cui si trovano a vivere.... questo e molte altre cose, capisci. E proprio per questo e per il "luogo" in sé, è un lavoro molto faticoso".
Abbiamo intervistato Donatella Zoia, per sapere cosa sta succedendo, dal punto di vista della salute, nel carcere dove lavora
Dottoressa Zoia, com’è la situazione relativa alla sanità nel carcere di San Vittore? Credo che il problema della salute in carcere sia un problema complesso. Non si tratta solo di garantire dei servizi, ma ritengo che anche in carcere ciascun paziente dovrebbe essere "preso in carico" dal punto di vista sanitario, essere tutelato, informato, avere la documentazione clinica che lo riguarda. Credo però che siamo molto lontani da tutto questo, perché l’impostazione del problema "salute" in carcere è diversa che all’esterno, per il semplice motivo che il carcere è un’istituzione totale e, come tale, prima di tutto tutela se stessa.
Quanto incidono, sul buon funzionamento dei servizi sanitari, i recenti tagli ai finanziamenti? Credo che questo sia molto variabile da carcere a carcere. Ci sono carceri in cui, per tipologia dell’istituto o per l’elevato numero di presenze, il problema non è stato ancora molto sentito. Altre carceri, magari più piccole, ne hanno risentito di più.
Riuscite a garantire almeno le visite specialistiche più urgenti? Sì, devo dire che a San Vittore, grazie anche a politiche di tutela dei pazienti e di interazione con le strutture esterne impostate da molti anni dalla Direzione, sono state garantite le visite urgenti. Inizialmente, non appena saputo dei tagli alla sanità, c’è stato qualche problema organizzativo, ma le urgenze sono sempre state garantite o dagli specialisti convenzionati o perché i pazienti sono stati inviati all’esterno, presso gli ospedali.
Garantire la stessa accessibilità ai farmaci che hanno le persone non detenute
Come riuscite a far fronte alle spese, sicuramente ingenti, dei medicinali necessari alle cure oncologiche e anti-hiv? Non so come la Direzione e la Direzione Sanitaria siano riuscite a far fronte al problema. Quello che io ho avvertito, rispetto ai farmaci, è stata non tanto la carenza di antiretrovirali o di farmaci molto costosi, ma, più in generale, la mancanza di continuità, dovuta alla irregolarità dei rifornimenti (a sua volta conseguenza di ritardi nei pagamenti ecc…). Questo, spesso, crea problemi molto seri: cosa fai se manca un farmaco? Lo sostituisci con uno analogo ma non sempre ben tollerato? Aspetti che arrivi, ma nel frattempo? Credo che, sul problema farmaci, sarebbe necessario trovare una modalità, in interazione con il Servizio Sanitario Nazionale, che garantisca la stessa accessibilità ai farmaci che hanno le persone non detenute, ma garantendo chi è più debole e privo di risorse. Voglio dire, ad esempio, che è ovvio che i detenuti non possono pagare il ticket!
Le persone detenute non capiscono cosa sta succedendo, non sono informate
La mancanza di cure adeguate e di medicinali ha ripercussioni anche sulla tranquillità dell’Istituto di Pena? Si creano più tensioni tra detenuti ma anche tra detenuti ed il personale della Polizia Penitenziaria e altri Operatori? Quello che io ho avvertito non è stata la mancanza di tranquillità (anche se a San Vittore "tranquillità" è una parola che non si trova sul vocabolario) ma il fatto che le persone detenute non capiscono cosa sta succedendo, non sono informate, hanno paura che la loro salute ne risenta (giustamente!) e chiedono spiegazioni a medici e infermieri (come sempre gli anelli più bassi della catena), che, a loro volta, sanno poco e, spesso, non hanno gli strumenti per risolvere le situazioni. Ecco, questo altera il rapporto di fiducia e collaborazione tra i detenuti e il personale dell’area sanitaria che è a diretto contatto con loro.
Già dal 1° gennaio 2001 le ASL devono occuparsi dei detenuti tossicodipendenti: è realmente cambiato qualcosa, ci sono stati miglioramenti? Io, personalmente, ho avvertito solo pochi cambiamenti. È vero, in molte carceri i Ser.T. ora entrano, ma la terapia metadonica continua a essere data poco e quasi solo a scalare, esattamente come prima… Quando mancano i soldi (come adesso), i servizi che dovrebbero garantire i più deboli (e che quindi non hanno nessun rientro economico) sono i più penalizzati (pochi finanziamenti, poco personale, poche risorse strumentali) e il risultato è che la qualità del servizio che offri è ridicola. Non tuteli nessuno. Inoltre, in Italia, la situazione è, come sempre, a "macchia di leopardo": ci sono cioè differenze molto grosse da carcere a carcere e da regione a regione.
Il Ministero della Giustizia cosa passerà al Ministero della Salute? E il Ministero della Salute con cosa pagherà la Sanità Penitenziaria? Per quanto riguarda invece i detenuti non tossicodipendenti, il passaggio alle ASL "doveva" avvenire al termine della sperimentazione, avviata da alcune Regioni, che "dovrebbe" essere terminata il 30 giugno 2002. Cos’è successo in Lombardia? Per ora non è successo nulla. Anche in questo caso, il mio timore è che, visto che il carcere è un "costo" per il Servizio Sanitario (come per il Ministero) si faccia il gioco di pensare che i servizi possano essere garantiti a costo zero. Faccio un esempio: la legge dice che le risorse finanziarie per la sanità penitenziaria dovrebbero passare dal Ministero della Giustizia al Ministero della Salute. Ma, come ben sappiamo, le risorse finanziarie del Ministero della Giustizia non ci sono, o sono poche, o sono già state tagliate. E allora, cosa passerà al Ministero della Salute? E il Ministero della Salute con cosa pagherà la Sanità Penitenziaria?
Evitare che il carcere diventi, sempre di più, il cestino dell’immondizia di queste nostre città
Intervenite in qualche modo per controllare il disagio che porta ai gesti di autolesionismo? Questo è un argomento che mi coinvolge molto, perché lavoro nel reparto dove vengono messi in osservazione pazienti che hanno agito atti di autolesionismo o sono a rischio di attuarli. Ci stiamo muovendo in due direzioni: da una parte, devo dire grazie alla Direzione, cercando di tenere le celle il più aperte possibili, organizzando gruppi e attività con i detenuti. È un lavoro grosso, che richiede molta responsabilizzazione del personale di custodia e la collaborazione di risorse esterne (scuola, volontari) e interne, perché, comunque, si tratta di persone che sono effettivamente a rischio di farsi del male. Dall’altra vorremmo cercare di attivare un’equipe di operatori interni che si occupa di questi pazienti, garantendo continuità trattamentali e interagendo con i servizi esterni, in modo che le persone, quando escono, non si trovino da sole a ricominciare da capo. Siamo solo agli inizi, ed è un lavoro faticoso, che richiede tempo ed energie. Anche perché, spesso, all’esterno del carcere le risorse sono ancora meno che all’interno e i servizi territoriali hanno difficoltà a prendersi carico di queste persone al momento dell’uscita. Ma, personalmente credo che sia l’unica strada per affrontare il problema, per evitare che il carcere diventi, sempre di più, il cestino dell’immondizia di queste nostre città.
Intervista di Marino Occhipinti Una piccola storia di "ordinaria" sanità penitenziaria Hassan al pronto soccorso
Questa mattina, l’aria si presenta subito soffocante. Il desiderio generalizzato dei detenuti del primo braccio è quello di stare a letto e continuare a dormire ancora per un paio d’ore. Il caldo impedisce di prendere sonno durante la notte, cosicché la televisione diventa la migliore delle terapie. Solo verso le due o le tre, quando la temperatura cala un po’, si comincia a dormire, per poi far prolungare il sonno il più possibile, spesso fino a mezzogiorno. Ma questa stessa mattina, secondo il programma interno, è l’unico giorno della settimana durante il quale si potrebbe andare in palestra a giocare a calcetto. Spesso però il programma non viene rispettato per mancanza di personale, e si rimandano i detenuti alla loro solita routine. Ma questa statistica negativa non demoralizza tutti, anzi sono in tanti che si svegliano con l’idea che oggi c’è la palestra. Così, alcuni più fiduciosi si sono alzati dal letto, hanno fatto il caffè e si sono messi i pantaloncini per essere pronti nel caso si vada in palestra. Altri, quelli scettici per natura, sono rimasti nel letto per evitare altre delusioni. Ecco che in questa mattina di lunedì, mentre il sole con violenza riscalda la piccola cella aggiungendo alla sofferenza del caldo il ricordo del mare e della spiaggia, l’agente, per la gioia di tutti, grida "palestra!". Tutti giù dal letto e via a giocare. Se qualcuno dovesse fare la cronaca della partita in diretta, avrebbe molte difficoltà. La varietà dei colori delle magliette non dà la minima possibilità di distinguere le squadre. Il gioco entra subito in una accesa competizione. Tutti rincorrono con tenacia il pallone oppure seguono con entusiasmo lo schema che non c’è. Ci sono un paio capaci di palleggiare e poi, piazzati nelle rispettive difese, ci sono quelli più robusti, a volte pure grassi, che a fatica tirano su le gambe, ma che quando intervengono su qualcuno lo scaraventano come uno straccio contro il muro. Saltarli è facile, ma se non ci riesci, sei spacciato. Oltre al miscuglio di magliette, di stature e d’agilità c’è anche un miscuglio di caratteri. Alcuni ridono e si divertono calciando il pallone ogni volta che se lo trovano tra i piedi, altri si coinvolgono emotivamente e gridando con nervosismo impartiscono suggerimenti oppure ordinano a chi passare la palla. Ecco Hassan, un arabo alto, che vedendo una palla che gli vola vicino, cerca di fare una rovesciata, tipo Crespo. Riesce nel tentativo, anche se cade schiaffeggiando il pavimento, però manca il gol. Dopo tutto è stata una bella azione. Tutti hanno gradito il gol mancato. Ma c’è qualcosa che non va, Hassan è rimasto fermo per terra. Si è fatto male. Nessuno capisce cos’ha. Tutti i giocatori sono corsi ad assisterlo, due di loro si staccano dal gruppo per andare a chiamare l’agente, che si mette subito a parlare per radio. La sua conversazione con l’apparecchio è breve. Hassan ora è in un angolo del campo e la partita riprende. Hassan è marocchino. I suoi capelli neri, ricci e corti, assieme al viso lungo e scuro, mostrano chiaramente la sua origine. L’espressione della faccia, già di per sé stampata di tristezza, ora è esageratamente sofferente, mentre lui sta lì abbandonato in quell’angolo del campetto. È magro e alto, Hassan, e la sua schiena ha una naturale piega in avanti che di profilo lo fa assomigliare a un punto interrogativo che si è perso e non segue più la domanda. Ora però il suo corpo ha preso una forma molto strana. Nella caduta, il suo braccio destro è uscito fuori posto e pende senza controllo. Hassan si appoggia contro il muro e segue la partita con occhi bastonati. Nessuno sa quanto pesa un braccio, ma vedendo lui con la spalla inclinata si può dire che pesi una tonnellata. La partita continua come prima tra grida, litigi e risate. Passano una decina di minuti e Hassan viene accompagnato da un agente fuori dalla palestra. Sparito dalla nostra vista, bastano due minuti per dimenticarci di lui. La mattina è appena cominciata e bisogna pensare a correre e giocare. A mezzogiorno, appena finito di pranzare, l’agente del mio braccio mi informa che posso andare dal dentista. Perfetto. Sono più di otto mesi che ho fatto richiesta e finalmente posso andarci. Il dentista mi ha otturato un dente quasi un anno fa, ma nel giro di qualche settimana l’otturazione ha cominciato a disfarsi. Ho perso quasi la metà del materiale in poco più di un mese. A quel punto ho richiesto un’altra visita odontoiatrica. Ci sono voluti appunto otto mesi per essere chiamato e ora mi preparo veloce come se temessi che loro possano cambiare idea e rinviare la visita di altri otto mesi. Percorro scale e corridoi correndo. Giunto nel reparto infermeria mi indicano la cella d’attesa, poiché il dentista è occupato. Entro nella celletta e lì trovo seduto Hassan con quella stessa posizione deforme. L’espressione della faccia è sempre quella di un morente, ma d’altronde non riuscirei ad immaginarlo diversamente. "Ma cosa fai ancora qui?", gli domando. "Non ti hanno medicato?". Mi guarda dal basso in alto e mi risponde di no. Dopo qualche minuto di silenzio mi racconta che gli hanno comunicato che lo porteranno all’ospedale civile di Padova e che deve attendere la scorta. Guardo l’orologio. Sono le 12.45 e cerco di ricordare quante ore ha passato lì nell’attesa. Sono almeno tre ore di dolori. Ma a un certo punto gli hanno fatto delle iniezioni di antidolorifici e ora non sente più nulla. È seduto sulla panchina e, con il petto che riposa sopra le ginocchia, ha lasciato il braccio cadere fino al pavimento. Lo lascio in questa posizione scimmiesca, quando mi chiama il dentista, e lo trovo nella stessa posizione quando esco. Ho passato una mezz’ora dal dentista, un uomo basso e tarchiato, con la testa grossa e pelata che fa da cornice ad una faccia rotonda che sorride sempre. Lui mi ha dato un’occhiata al dente e mi ha assicurato che c’è ancora materiale dell’otturazione. Rispondo che, nonostante tutto, il buco nel dente è diventato comunque una caverna, ma il dentista preferisce convincermi che non c’è la necessità di rifare l’otturazione, piuttosto che rifarla. Gli chiedo con insistenza di riempire questo dente ormai per metà vuoto, ma la sua scarsa convinzione di farlo lo spinge in un lungo discorso in cui mi spiega gli ideali rilievi dei denti, il modo migliore per masticare e lavarli. Poi mi promette che, se dovesse fuoriuscire ancora del materiale oppure cominciare a farmi male, allora potrò ritornare, e lui mi rifarà l’otturazione. Ma come, dovrei aspettare che esca tutta l’otturazione, oppure faccia male un dente devitalizzato? Scappo via, perché più che un dentista, mi sembra un venditore ambulante che cerca di rifilarmi un pacco. Saluto Hassan augurandogli buona fortuna e mi incammino lentamente per i lunghi corridoi in direzione della mia cella. Ecco che in questa mattina di lunedì, mentre il sole con violenza continua a riscaldare la piccola cella, l’agente chiude il cancello dietro le mie spalle. Stranamente non penso più ad Hassan che aspetta con eroica pazienza la scorta per andare al pronto soccorso. Non penso neanche al dentista che non ha voglia di lavorare, cerco solo di capire se c’è qualcosa che si può cambiare in questo posto dimenticato anche da Dio.
Elton Kalica Dal T.S.O. all’O.P.G., come una semplice visita dallo psichiatra può costare quasi due mesi di "manicomio criminale"
Camminando lungo l’interminabile corridoio, ho incontrato un compagno di detenzione che chiamerò Mauro. So che è stato via per un bel po’, ma della sua assenza mi accorgo solo adesso che lo vedo, e mi incuriosisco, perché è una di quelle tante assenze silenziose che nessuno commenta mai, visto che qui c’è sempre gente che viene e che va. E allora gli chiedo di raccontarmi dove è stato. Capisco subito che lui gradisce l’idea di parlare e di sfogarsi con qualcuno, cosicché non posso fare altro che ascoltare in silenzio. La sua storia si rivela curiosa. Mauro, dopo più di tre anni di carcere, ha fatto una visita specialistica dallo psichiatra. Il dottore lo ha ricevuto con un sorriso e, dopo aver ascoltato con pazienza i suoi lamenti, ha fatto la diagnosi e prescritto la cura. In realtà la cura era il ricovero obbligatorio. "Sognavo sempre delle cose strane" confessa Mauro. "Mi svegliavo alla mattina con un senso di stanchezza e pensavo a quello che avevo appena sognato. A volte erano immagini tetre e buie. Soffrivo, mi angosciavo e mi svegliavo tutto sudato. Allora la mattinata era rovinata. Quella era per me già in partenza una brutta giornata: mi chiudevo in me e non parlavo con nessuno. Mi prendeva una tristezza che mi pareva irreversibile, e che di solito durava delle ore. Poi, spesso, riuscivo a dimenticare questo mio malumore scrivendo una lettera oppure ascoltando della musica. Ma non era sempre così. Altre volte i miei sogni erano belli, avventurosi o rilassanti. Allora mi svegliavo con la voglia di parlare a tutti, di scherzare, di divertirmi e andavo a fare qualche partita a carte coi miei compagni." Mauro racconta questi risvegli e mi guarda con degli occhi indagatori, come se cercasse di capire dalla mia espressione se c’è qualcosa di strano in lui. Rimango immobile per non influenzare e interrompere il suo racconto. "Dallo psichiatra ero andato a chiedere se era normale avere questi sbalzi d’umore. Gli spiegai tutto in maniera dettagliata, in modo da dargli più elementi possibile sulla mia condizione. Mi prescrisse subito dei farmaci. Seguii questa cura per circa una settimana, ma mi accorsi che le mattine erano sempre uguali: aprivo gli occhi ed ero triste e melanconico". Parla e mi rivolge uno sguardo dolce, come se volesse scusarsi con me della cattiva riuscita della cura e con gli stessi occhi volesse creare un sottofondo al suo racconto, come a dire che mica è colpa sua se la testa continua a fargli degli scherzi. "Chiesi un altro colloquio con lo psichiatra", continua Mauro. "Lui mi chiamò relativamente presto, dopo due giorni. Non mi diede il tempo di finire che si mise a scrivere qualcosa. Mi disse che era tutto apposto e che non mi dovevo preoccupare. Dopo nemmeno tre ore, mi chiamano in accettazione e mi comunicano che lo psichiatra ha raccomandato il Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O.) in una struttura specializzata. La struttura specializzata naturalmente non può essere altro che l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.) di Reggio Emilia. In pochi minuti mi trovo in un furgone blindato in viaggio verso il luogo di cura". Ferma il suo racconto, Mauro, come se tentasse di raccogliere per un attimo i ricordi sparsi nel suo cervello. Mauro è sui venticinque anni ma ne dimostra meno. Forse per la sua magrezza o forse per i capelli tagliati corti con il ciuffo che ricorda i bambini dell’asilo. Cerca di nascondere la sua altezza tenendo le spalle strette e curve come se stesse trasportando due pesanti e invisibili borse. Dopo un istante di pausa, sembra aver riordinato i suoi ricordi. Io aspetto che continui con il viaggio, invece la sua mente è già arrivata all’ospedale. "Appena arrivato al manicomio, l’ambiente mi si è presentato come una realtà molto crudele: pazienti legati sul letto, canti stonati di gente con le menti che sembravano del tutto assenti, grida strazianti provenienti da un altro tempo. Un vero incubo. Me la stavo facendo addosso. Tremavo dall’ansia. Sono riuscito a trovare un po’ di raccoglimento solo dopo essere entrato in cella. Per mia fortuna mi hanno messo in una cella dove ho trovato un ragazzo che, come me, era stato portato là per dei disturbi di poco conto. Veniva dal carcere di Torino, e si era visto trasferire per cura dopo una breve visita dallo psichiatra. Invece l’altro inquilino della nostra cella era proprio malato: disteso sulla branda c’era solamente un corpo abbandonato da ogni normale attività del cervello. Non c’era nessun tipo di controllo o di guida dentro quell’essere. Mi sono subito sentito molto dispiaciuto per quel ragazzo. Lo specialista, dopo avermi visitato, arrivò alla conclusione che io non soffrivo di nessuna patologia grave e quindi disse che, dopo i circa venti giorni d’osservazione che la procedura prevede, sarei tornato in carcere. Poi continuò con le prescrizioni: "Ti faccio uno scalo del Talofen e del Seroquen, poiché questa cura è inutile. Devi prendere poi solo l’Anafranin che è un antidepressivo, e il Tegratel che è uno stabilizzatore dell’umore. Con questo vedrai che sarai più sereno e tranquillo". Invece dei venti giorni d’osservazione, rimasi per cinquantadue, di giorni. Un vero incubo. Scene tremende che si ripetevano in continuazione. Facce sofferenti, corpi appesantiti dai farmaci, anonime vite che si trascinavano lentamente, appoggiate sui muri. Questo era lo spettacolo che mi somministravano ogni giorno per curarmi dalla mia grave malattia". E con questa breve descrizione di quel grosso contenitore di dolore che è l’O.P.G, con occhi da pianto, come per sottolineare che non sarebbe mai in grado di descrivere realmente quello che ha visto in quei cinquantadue giorni, ma soprattutto promettendomi che non andrà più a farsi visitare da nessuno psichiatra di nessun carcere, Mauro conclude il racconto della sua avventura. Ci salutiamo e ci diamo un abbraccio forte, da uomini sani.
Elton Kalica |