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I morti senza volto e senza storia del carcere
La ricerca che abbiamo fatto, "Morire di carcere", ha avuto un solo scopo: non dimenticare chi ha perso la vita in galera
L’idea di dare un volto, un nome, uno straccio di ricordo a chi muore in carcere e di carcere ci è nata quando, leggendo i tanti giornali realizzati da detenuti, abbiamo cominciato a trovare articoli che raccontavano la morte in galera di un compagno di cella o un amico, e mettevano però insieme anche pezzi della sua vita, ricordandoci che dietro i numeri del Ministero della Giustizia su quelli che vengono chiamati gli "eventi critici" ci sono delle persone. Così, stanchi delle nude statistiche e delle sigle senza una faccia, abbiamo avviato una ricerca sull’informazione giornalistica riguardante questi eventi, per capirne di più ma anche per ridare un po’ di dignità e di considerazione a queste morti. La parte principale della ricerca è costituita dalle storie – alcune di poche righe, altre di una pagina – di detenuti suicidi, morti per malattia, per overdose, per "cause non accertate", in ordine cronologico dal gennaio 2002 al luglio 2003. Sono oltre cento, quelli ai quali siamo riusciti a restituire un’identità e una provenienza togliendoli dall’anonimato delle statistiche. Per altrettanti non c’è stato modo di sapere nulla, nonostante la rassegna stampa (che ha fatto da base per l’indagine) contenesse notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, almeno uno passa "inosservato". Una seconda sezione della ricerca raccoglie notizie e riflessioni tratte dai giornali carcerari: testimonianze di detenuti che conoscevano le persone morte, a volte degli stessi compagni di cella. In questa parte trovano posto anche alcuni articoli di Adriano Sofri, in carcere a Pisa, e una lettera dei detenuti di Rebibbia. In considerazione del particolare valore di questi documenti abbiamo utilizzato anche alcuni articoli scritti in anni precedenti al 2002. L’ultima parte è costituita da tabelle riassuntive: l’elenco dei detenuti morti, la loro età e il motivo della morte, le carceri nelle quali si sono verificati i decessi (la "classifica" è guidata da Cagliari e Sassari). Quella che segue è una prima analisi di ciò che i giornali scrivono delle morti in carcere, ed è anche un invito al volontariato ad essere presente e attento su questi fatti, per contribuire a non dimenticare le storie delle persone che non ce l’hanno fatta a reggere il peso della detenzione.
La Redazione L’informazione giornalistica sulle morti in carcere
"I detenuti sono uomini, non numeri". Forse questo è un pensiero poco originale, sono in tanti che lo ripetono… e qualcuno ci crede anche. Poi sfogli una rassegna stampa sul carcere e trovi molti articoli che sembrano proprio note contabili: c’è il numero totale dei detenuti, di quelli che sarebbero di troppo rispetto alla "normale capienza", degli stranieri e dei tossicodipendenti, per finire con gli autolesionisti ed i morti suicidi. I casi sono due: chi finisce in galera rimane per sempre nemico (quindi indegno di essere rappresentato come persona), oppure il ricorso alla contabilità è la maniera meno impegnativa per scrivere del carcere… basta prendere qualche dato dal sito internet del ministero… le cifre sono grosse, fanno impressione. Il problema è che i dati sono sempre gli stessi (con qualche variazione verso l’alto), l’emozione che possono dare passa in fretta e, con l’abitudine, presto si trasforma in perfetta indifferenza. La sensibilizzazione della società riguardo agli emarginati, al carcere e alla devianza, è un’impresa faticosissima, anche volendoci mettere tutta la professionalità e l’inventiva possibili. Figurarsi se l’impegno si limita all’indispensabile, se ci si accontenta di "riempire la pagina" rimasticando sempre gli stessi concetti, magari giustissimi, ma talmente logori che ormai annoiano anche noi detenuti, che pure siamo i diretti interessati. Nelle scorse settimane ho ripassato tre anni di rassegna stampa sul carcere per raccogliere notizie e commenti sui cosiddetti "eventi critici" in ambito penitenziario: i suicidi, le morti per malattia, gli autolesionismi, etc.. Molti articoli del 2003, anche di opinionisti intelligenti, anche di politici e operatori in gamba, sono pressoché identici a quelli che gli stessi hanno scritto nel 2001 e poi ancora nel 2002: è vero che i problemi non sono tanto cambiati, però è anche vero che così l’informazione perde di vivacità (necessaria per cercare di coinvolgere i lettori) e l’analisi socio-politica del fenomeno fa ben pochi progressi. Non se la cavano meglio i redattori della cronaca, anche qui con alcune – poche – eccezioni. La fonte privilegiata della notizia – spesso l’unica – è la direzione del carcere, che di solito trasmette uno scarno comunicato nel quale si preoccupa soprattutto di difendere il lavoro svolto dagli agenti, "prontamente accorsi per soccorrere il detenuto", dai medici "chiamati d’urgenza" che "si sono prodigati per salvargli la vita" e dagli altri operatori che "lo seguivano costantemente". Sono loro i veri protagonisti dell’articolo che compare sui giornali: tante volte non c’è nemmeno il nome del detenuto morto (per suicidio o per malattia). Ritorna quindi la regola della spersonalizzazione del "nemico" e in più certi cronisti aggiungono un giudizio morale sull’accaduto, spesso senza conoscere la storia che c’è dietro: così il suicida si è "arreso", "non ha retto il peso della propria colpa", e via di questo passo… dunque non solo era cattivo, ma anche codardo! Trascritte fedelmente le notizie diffuse dall’Amministrazione penitenziaria e aggiunti i propri apprezzamenti, il terzo passaggio, nella costruzione dell’articolo sulla morte di un detenuto, è quello di rovistare nella cronaca nera e giudiziaria per ricostruire le circostanze del suo arresto e del processo (se è già stato celebrato): spesso la parte più consistente del "pezzo" è costituita proprio dal resoconto delle indagini e degli atti processuali. Sulla vita del detenuto morto non viene scritto quasi nulla (tranne i precedenti penali, spesso elencati con diligenza: se era incensurato lo deduci dall’assenza di questo riferimento), forse perché non si hanno elementi, oppure perché si pensa che non importi a nessuno. Eppure sarebbe possibile dare queste notizie in modo diverso: su circa 300 articoli esaminati nella ricerca almeno una trentina sono costruiti con maggiore attenzione, attingendo a fonti diverse, introducendo ipotesi ed interrogativi, a volte anche sollevando dei dubbi sull’attendibilità delle versioni ufficiali. Un risultato che deriva, di solito, dall’interessamento dei famigliari del detenuto morto, qualche volta da quello di un rappresentante del volontariato, o di qualche politico. Come a dire che chi non ha una rete di sostegno all’esterno può tranquillamente scomparire senza che la notizia esca dalla cerchia degli addetti ai lavori. Un marocchino si è impiccato a San Vittore… forse era tunisino… aveva tanti "alias"! E la sua famiglia, se ne aveva una, da qualche parte nel nordafrica, non saprà mai che fine ha fatto. Trenta articoli "buoni" su 300 sono pochi, però stanno a significare che nelle varie redazioni c’è anche chi capisce l’importanza di raccontare il vissuto di una persona - quali che siano le sue colpe - per far riflettere i lettori, per aiutarli a capire (semmai gli interessi) i motivi di un suicidio o di uno sciopero della fame protratto fino a morirne. Chi è interessato alla ricerca su ciò che funziona e non funziona, nel modo di dare le notizie sulle morti in carcere, può richiedercela, ma anche collaborare a renderla più completa, fornendoci a sua volta tutti i più piccoli dettagli per ricostruire la storia di chi muore di carcere.
Francesco Morelli Alle Aziende Sanitarie Locali manca totalmente la cultura del carcere
È quanto sostiene Francesco Ceraudo, Presidente dell’Associazione dei Medici penitenziari, ferocemente contrario al passaggio della Sanità Penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale. Professor Francesco Ceraudo, Presidente del Consiglio Internazionale dei Servizi Medici Penitenziari (ICPMS). Dirigente Sanitario Casa Circondariale di Pisa
L’intervento che ci ha mandato il dottor Ceraudo, dopo una analisi ampiamente condivisibile dei disastri che produce il carcere sui corpi e sulle menti degli uomini, attacca duramente la Riforma della Sanità Penitenziaria, che prevede il suo passaggio al Sistema Sanitario Nazionale, e difende a spada tratta l’autonomia della Medicina Penitenziaria. Abbiamo moltissimi motivi di disaccordo con il dottor Ceraudo, ma pubblichiamo volentieri questo suo intervento per dare un po’ di stimoli nuovi a un dibattito sul tema della salute per i detenuti, che in questo momento quasi non esiste. A Ceraudo rispondono un detenuto della nostra redazione, di cui pubblichiamo la lettera, e l’Assessore per il diritto alla salute della Regione Toscana, chiamata in causa perché è stata una delle regioni che hanno portato avanti una sperimentazione della Riforma.
Il carcere: una città murata
Il carcere è un luogo di sepolti vivi. Nella classifica degli eventi esistenziali più drammatici secondo un campione di popolazione americana, la carcerazione viene al terzo posto dopo la morte di un figlio e la morte della moglie. In un contesto drammatico dove dominano la miseria e la promiscuità, attualmente le carceri sono degli enormi serbatoi, dove la società, senza eccessive remore, continua a rinchiudere una marea di tossicodipendenti, di extracomunitari, di disturbati mentali, quasi un tentativo per neutralizzarli e renderli così inoffensivi. I numeri parlano fin troppo chiaramente e sono numeri preoccupanti, mai raggiunti nella storia del nostro Paese. Questi numeri esorbitanti rendono tutto più complicato. Sovraffollamento vuol dire inevitabilmente minor vivibilità per i detenuti. Ci troviamo di fronte uomini e donne degradati ed umiliati. Prevalgono i "poveri diavoli", i cosiddetti "cani senza collare", tutti appartenenti agli strati sociali più deboli e più poveri, allevati sui marciapiedi e nei sobborghi delle città.
I detenuti sono dei residui di umanità che vivono al di fuori dei cicli della natura. Il carcere li condiziona, li disumanizza, li modifica, li peggiora sia fisicamente che psicologicamente. Non indossano più il pigiama a strisce, non portano sul camiciotto o sul berretto il numero di matricola, ma resta purtroppo la realtà di rappresentare un numero, talora un fascicolo. Il carcere è una chirurgia dell’anima. Il carcere è malattia. Entrando in questo microcosmo infernale riusciamo ad afferrare un’atmosfera infelice, irreale, dove i detenuti si muovono come robot. I ritmi, le abitudini, i confini esistenziali risultano alterati. Tutto viene modificato da una realtà lontana anni luce dai normali percorsi quotidiani. Il carcere modifica tutto: il tuo essere, il tuo sorriso, i tuoi pensieri, il modo di camminare, di amare, di credere, di sperare, di sognare. Il carcere è responsabile di questa spoliazione umana, sociale dell’uomo, è un mondo sperimentale di regressione. La realtà quotidiana è piena di desolazione. È un simulacro di vita, con profonde lacerazioni psicologiche. Spesso diventa criminogeno, quasi sempre abbrutisce. La solitudine in carcere diventa una penosa radice del deterioramento dell’uomo, dell’invecchiamento delle emozioni. Rimane, del resto, facilmente intuibile lo stato d’animo di chi, improvvisamente sradicato dagli affetti, dalle proprie abitudini, dai propri interessi, dal proprio ambiente è costretto, un giorno, a varcare il portone del carcere. Vede cadere inesorabilmente tutto intorno a sé. Prendono corpo vigorosamente l’idea di rovina, l’angoscia, il vuoto esistenziale, il senso di emarginazione dalla società, l’umiliazione insita nella posizione stessa di detenuto, l’incertezza e la paura del proprio futuro e molto spesso il rimorso che preme. Al di là delle sbarre il detenuto non si sente più un uomo. Il carcere si delinea a questo punto come un luogo per il suo completo annientamento.
Il carcere è una città murata, violenta, crudele
Gli eventi che vi accadono, i sentimenti, le emozioni, le paure e le speranze, gli odi e gli amori assumono uno strano contorno di irrealtà, caricandosi di significati di allarme e di allusione. Il detenuto vive la vita a rischio di un uomo braccato. Si sente soprattutto respinto, vomitato dalla società. Il detenuto è ormai un altro. Alterato, demodulato, violentato nei suoi connotati essenziali, il detenuto è ormai un corpo invecchiato in fretta, un volto anonimo, uno sguardo spento nel vuoto. Sono pochi quei detenuti che reagiscono, che riescono a resistere e a vincere l’ambiente; molti sono, invece, quelli che lo subiscono. In carcere si subiscono gravi umiliazioni relativamente al sesso, al movimento fisico, alla vista, all’udito, al linguaggio. In ogni sistema penitenziario vi è purtroppo una contraddizione di fondo duplice: da una parte si ha la pretesa di insegnare al detenuto il modo di vivere e di comportarsi nel mondo libero, e nello stesso tempo lo si costringe a vivere nel carcere che di quel mondo è l’antitesi. Le istituzioni di recupero, sia per il complesso di transazioni negative che hanno mediato, sia per una reale difficoltà di integrazione con l’ambiente di lavoro, la scuola, la famiglia, non sono riuscite a gestire, indirizzare, incanalare positivamente la tensione esistente tra i bisogni, i valori della personalità in evoluzione, tesa alla realizzazione di sé. La carcerazione può acquisire dei risultati concreti soltanto se si comprenderà che l’Io del detenuto riceverà un sostegno e sarà messo in condizioni di potersi sviluppare con tecniche di riabilitazione che siano positive e creative. Acquisiscono pertanto la loro peculiare e significativa importanza sia il concetto di individualizzazione e di territorialità della pena, sia quello del lavoro penitenziario, inteso come fattore di rieducazione, come esperienza qualificante capace di aiutare il detenuto a ritrovare pienamente il senso della sua identità civile e della sua dignità umana. Bisogna curare la qualità della vita in carcere attraverso l’acquisizione di due importanti obiettivi: il lavoro penitenziario; gli interessi affettivi.
Finalità primaria della carcerazione è il riadattamento sociale
Riadattare alla vita significa far comprendere l’uso della libertà, risvegliare le qualità e i sentimenti buoni latenti in ogni persona, cercare di eliminare gli aspetti negativi, orientare e spronare verso un nuovo ed equilibrato indirizzo di vita sociale, morale e familiare per evitare di ricadere verso i contenuti dei sottogruppi e delle sottoculture, dove l’aggressione e la violenza rappresentano i requisiti peculiari. La posizione più rispondente a queste prerogative è quella di chi vede nell’approccio, nel colloquio, nel dialogo, nel contesto umano il mezzo più sicuro per far uscire il detenuto dal suo pauroso isolamento, per distoglierlo dalle sue idee fisse, per disporlo su norme ben precise. Va perseguito il rapporto umano, non pietistico o caritativo; solo da esso si può ottenere la possibilità di dischiudere in soggetti prevenuti e coartati il dubbio che la loro visione della vita sia distorta, che certi principi, ai quali sembrano avvinti, non reggono ad un confronto serio. L’istituzione penitenziaria deve essere in grado di compiere interventi psicoterapeutici e di formazione sociale e professionale e soprattutto di far compiere al deviante quel salto di qualità nel rapporto con la realtà sociale, che gli può consentire di abbandonare il resto, cioè l’agire antisociale, visto da lui come unica possibilità esistenziale adatta a dargli successo nella vita. In definitiva, si può dire che si sente forte la necessità di dare un senso a questo tempo fuori del tempo dei detenuti. La Legge-delega sul Riordino della Medicina Penitenziaria è naufragata miseramente il 30 giugno 2002. Nessuna delle Regioni prescelte (prima Toscana, Lazio e Puglia e poi Emilia-Romagna, Campania e Molise) è stata in grado di far decollare seppure uno straccio di sperimentazione. In termini incontrovertibili i fatti hanno evidenziato che la suddetta Legge, imposta dall’alto sull’onda della demagogia e senza alcun serio confronto con gli Operatori Sanitari Penitenziari e con gli stessi detenuti, è stata un provvedimento sbagliato e fortunatamente inattuabile, perché prevedeva una serie di atti burocratici, di adempimenti formali e di iniziative applicative eccessivamente complesse e perfino contraddittorie. L’errore di fondo grossolano e quindi insuperabile è stato poi aver previsto il costo zero della Riforma. Contro questo si è infranta ogni prospettiva di miglioramento. Tutto è diventato miseramente aleatorio, perché non si è potuto prevedere alcuna forma di investimento nelle strutture, nei servizi, nella tecnologia e nella formazione del personale sanitario. È una Riforma nata male e gestita peggio dalle Regioni. Nello stesso tempo finiva per penalizzare i medici e gli infermieri penitenziari, senza rafforzare il diritto alla salute della popolazione detenuta. E questo francamente ci sembra veramente troppo. La Medicina Penitenziaria è un servizio di prima linea con le sue urgenze notturne e festive e con il diritto a corsie preferenziali. Tutto ciò impone sburocratizzazione e snellimento delle pratiche. Le Aziende Sanitarie Locali, secondo le regole del mercato, fanno del profitto il loro concetto-guida e tutto ciò mal si concilia con gli abissi di necessità di un carcere. Alle Aziende Sanitarie Locali manca totalmente la cultura del carcere. I principi ispiratori della Legge-delega erano forse anche positivi, ma le successive elaborazioni della delega (l’Amministrazione Penitenziaria si riservava un proprio contingente medico che di fatto avrebbe controllato e diretto il personale dell’ASL) hanno creato un mostro giuridico, un coacervo di compromessi vergognoso che ha finito per rendere inutile anche ogni tentativo di sperimentazione. Si può senza dubbio affermare che la legge-delega è nata in Toscana sulla spinta cieca della Bindi e della Bolognesi, ma è anche naufragata in Toscana perché in 5 anni questa Regione non è stata in grado di operare neppure un misero tentativo di sperimentazione. Importanti assunzioni di responsabilità, discorsi autocelebrativi, ma risultati zero. Dopo 5 lunghissimi anni la Regione Toscana rincorre pateticamente l’allestimento di una Carta dei Servizi! Bisogna però dare atto alla Regione Toscana che è stata la prima a mettere a disposizione delle strutture penitenziarie i farmaci. Hanno seguito l’esempio della Toscana, la Calabria, il Piemonte, la Sardegna, la Basilicata, la Campania e il Molise. Il Decreto-legislativo 230/99 prevedeva che il Presidio delle tossicodipendenze e la Medicina Preventiva dovevano passare alle ASL l’1.1.2000. Di fatto non è stata registrata alcuna iniziativa. Tutto come prima o peggio di prima. Nel mese di giugno è pervenuta la direttiva che gli Operatori del Presidio delle tossicodipendenze (medici, infermieri e psicologi) dall’1.7.2003 sono a carico delle ASL. L’Assessore alla Sanità della Regione Toscana ha subito impartito direttive ai Direttori Generali delle ASL di non farsi carico di quanto sopra. La beffa continua. I Medici Penitenziari Italiani sono indignati. Si continua a giocare sulla pelle dei detenuti. Ecco perché abbiamo definito un eventuale passaggio della Medicina Penitenziaria alle ASL un salto nel buio che ci avrebbe messo alla porta dell’Europa. La Medicina Penitenziaria Italiana offre una grande testimonianza di civiltà e di solidarietà, sempre a fianco dei più deboli ed emarginati, e ha scritto pagine importanti, a tutela dei diritti alla salute in carcere. Siamo sempre più convinti che la Medicina Penitenziaria deve avere una sua dignità, nella consapevolezza che deve saper riconoscere i propri limiti, in quanto il malato serio deve poter acquisire un beneficio di legge per potersi curare anche in seno alla propria famiglia. La Medicina Penitenziaria deve salvaguardare la propria autonomia, come ha sentenziato con grande autorevolezza il Consiglio di stato già nel 1987. Intanto perché fa parte integrante del trattamento penitenziario, assicura continuità assistenziale, rende particolarmente incisivo il delicato rapporto medico-paziente. La Medicina Penitenziaria deve rimanere autonoma per la sua straordinaria specificità e per la singolarità e la delicatezza delle competenze. Per gli effetti nefasti della pseudo-riforma Bindi, la Medicina Penitenziaria per 5 anni è rimasta tra le nuvole e quasi fosse terreno di conquista, ha registrato ogni anno con la manovra finanziaria tagli gravissimi al budget annuale. In un contesto carcerario drammatico dove la popolazione ha raggiunto cifre preoccupanti, ridurre le risorse vuol dire togliere l’ossigeno, vuol dire ridimensionare i servizi medici ed infermieristici, ossia la prima linea della Medicina Penitenziaria. Vuol dire tagliare la Medicina Specialistica e i farmaci essenziali. A questo punto se il carcere non è nelle condizioni di poter tutelare la salute, se il carcere non può curare, diventa automaticamente incompatibile, e noi Medici Penitenziari abbiamo l’obbligo morale di certificarlo senza frapporre alcun indugio, per non rischiare di far morire in carcere qualcuno per mancanza di adeguata terapia medica. Occorre invertire la rotta. Siamo stufi di vivere alla giornata. Occorre serietà e competenza nella programmazione. Occorre saper investire. Occorre rinnovare la tecnologia. Occorre la formazione del personale. Accanto ad un paziente in carcere bisogna mettere un medico e un Infermiere professionalmente motivato. Solo in questi termini la tutela della salute in carcere può essere considerata un bene costituzionalmente protetto.
Professor Francesco Ceraudo Quante frustrazioni accumulate in 12 anni di "rapporto forzato" con la sanità penitenziaria!
Francesco Morelli
Lettera di un detenuto al dottor Ceraudo, Presidente dell’Associazione Medici Penitenziari
Gentile dottor Ceraudo, l’articolo "Il carcere, una città murata" mi spinge a delle riflessioni, prima come utente del servizio sanitario, poi come detenuto. Premetto che sulla questione del passaggio di competenze alle Asl ho anch’io parecchie perplessità, però non abbastanza forti da bilanciare le frustrazioni accumulate in 12 anni di "rapporto forzato" con la sanità penitenziaria. Nei primi tempi della detenzione ebbi qualche serio problema di salute, superato (anche se non risolto del tutto) soprattutto grazie alla consapevolezza delle regole igieniche e alimentari necessarie per sopravvivere alle malattie, al carcere… e ad un sistema sanitario che fa paura. Sottolineo il termine "paura", perché questo è il sentimento più diffuso tra noi detenuti, quando dobbiamo rivolgerci ai medici del carcere: una paura fondata su ciò che vediamo ogni giorno attorno a noi, a volte anche su esperienze vissute in prima persona. In carcere entro, nel 1991, con una cardiopatia congenita (che da libero trascuravo). Poi, a seguito di un tentativo di suicidio, mi ricoverano nel reparto psichiatrico di un ospedale "civile" dove rimango per tre mesi, prendendo a forza vagonate di psicofarmaci (se rifiutavo pillole e gocce, arrivavano tre o quattro infermieri, mi immobilizzavano e mi facevano un’iniezione). Questi farmaci mi provocano un’epatite devastante, dimagrisco a vista d’occhio, fino a pesare 50 chili e, naturalmente, i problemi al cuore si aggravano. Dimesso dalla psichiatria torno in carcere: nella terapia prescritta in ospedale ci sono pure due pastiglie di "Roipnol" e tanto "Valium", per tre volte al giorno. Io non voglio queste medicine ma i medici del carcere non si fidano a lasciarmi senza sedativi e mi dicono che, se le rifiuto, non mi danno nient’altro, né per il fegato, né per il cuore. M’impunto e smetto qualsiasi cura, finché mi mandano al Centro Clinico di Pisa. Sono messo davvero male, anche se non me ne rendo pienamente conto. Vado avanti con due flebo di glucosio al giorno, per due mesi: nelle prime settimane mi bucano da tutte le parti, poi mi mettono un catetere nel braccio, così posso attaccarmi da solo al "distributore" e "fare il pieno". Così dicono gli infermieri, dopo aver preso l’abitudine di passarmi il flacone e il deflussore attraverso lo spioncino, senza nemmeno aprire la porta della cella. Io appendo l’apparecchiatura ad un’anta dell’armadietto… "faccio il pieno" e poi la restituisco. Al terzo mese mi dimettono e comincio a viaggiare da un carcere all’altro, in ogni posto la prima fatica consiste nel convincere i medici che non sono un simulatore, che ho bisogno di un vitto in bianco e possibilmente di stare in una cella dove non ci sono fumatori (la prima richiesta è più semplice da soddisfare, la seconda un po’ meno…), oltre che delle medicine segnate nella cartella clinica. La percezione, nell’incontrare i dottori, è quasi sempre quella: io sono un seccatore, forse fingo d’essere malato per farmi scarcerare e, in ogni caso, sono poco degno di essere curato da essere umano. Spesso la visita inizia con una domanda sul reato a causa del quale sono detenuto: forse è un elemento importante, per capire che malattie ho… Terminati i processi, gli spostamenti, le peripezie varie, otto anni fa arrivo al "Penale" di Padova, assieme ad una decina di nuovi giunti. Le procedure di immatricolazione finiscono alle otto di sera e, prima di salire alle sezioni, dobbiamo passare la visita medica. Il dottore non ci guarda neanche in faccia, gli sfiliamo davanti, lui apre e chiude i nostri diari clinici e ci valuta tutti idonei ad alloggiare nelle celle comuni. Il giorno dopo mi segno di nuovo a visita medica, per chiedere il vitto in bianco. C’è il dottore della sera precedente e si dimostra seccato perché l’ho fatto chiamare per un problema che avrei potuto sottoporgli nella visita di primo ingresso. Ma se non ho avuto nemmeno il tempo di fiatare… e poi eravamo dieci detenuti in fila… magari non avevo voglia di raccontare i miei problemi in pubblico. Comunque sto zitto, mi scuso per averlo disturbato per una sciocchezza così, lui fa una smorfia e segna il vitto in bianco. In questi ultimi otto anni di carcere una vera visita medica non l’ho mai avuta, cioè non mi è mai successo che un dottore mi abbia fatto spogliare, stendere sul lettino, auscultato, tastato, etc., etc. Alcune volte ho incontrato i medici del carcere, mi hanno chiesto che problemi avevo e poi hanno scritto qualcosa sul diario clinico. Spesso quel "qualcosa" è stato fine a se stesso, nel senso che se si trattava di una visita specialistica sono passati mesi e anni senza che fossi chiamato, che il vitto in bianco in questo Istituto è stato abolito nel 2000, che i farmaci di cui ho bisogno non vengono forniti (li acquisto "tramite impresa", ormai da anni, senza nemmeno bisogno di vedere il medico… basta la domandina e la ricetta viene rinnovata automaticamente). Certo, la sanità penitenziaria ha subito tagli pesantissimi, quindi i ritardi nelle prestazioni specialistiche e la mancanza dei farmaci hanno una giustificazione, ciò che non mi sembra essere giustificabile è l’atteggiamento di alcuni medici penitenziari che, troppo spesso, si comportano come i peggiori carcerieri e non ci vedono più come persone (e persone malate, per di più). Poi, dottor Ceraudo, nel suo articolo leggo: "La medicina penitenziaria italiana offre una grande testimonianza di civiltà e di solidarietà sempre a fianco dei più deboli ed emarginati e ha scritto pagine importanti nella tutela dei diritti alla salute in carcere". La mia esperienza è un po’ diversa, tanto che ho rinunciato a domandare ai medici del carcere esami e cure. Probabilmente sbaglio a trascurare così la salute, ma lo faccio per evitare di dover chiedere un servizio dovuto e di sentirmi rispondere come se si trattasse di una benevola elargizione… oppure che l’elargizione non potrà nemmeno esserci. Il confronto con la riprovazione della società, anche se spiacevole, potrebbe essere una cosa normale e non pretendo nemmeno che i medici siano estranei ai sentimenti della gente che vive fuori del carcere. Però poi mi accorgo che, quando chiedi una prestazione a pagamento (ad esempio agli specialisti, che lavorano sia in convenzione con l’amministrazione penitenziaria sia come liberi professionisti), l’atteggiamento di certi medici spesso cambia di colpo, non ti trattano più come un rifiuto umano, ma come un prezioso cliente. Non importa se li paghi con i soldi che hai rapinato, o ti sei procurato vendendo l’eroina ai ragazzini: lo stesso medico che prima ti guardava con distacco misto a pietà diventa improvvisamente premuroso, attento, quasi affettuoso. Cioè come dovrebbe sempre essere… più o meno. Insomma, penso che la medicina penitenziaria per prima cosa vada deistituzionalizzata, "decarcerizzata", anche se, oltre a un passaggio alle Aziende Sanitarie Locali, realizzato però in modo ben diverso da quello che è successo finora, credo che forse sarebbe utile favorire anche l’ingresso del privato sociale, delle Comunità e delle Associazioni, delle strutture che possono prendere in carico i detenuti malati ed eventualmente proseguire l’iter delle cure all’esterno del carcere. Ci sono già esempi positivi in questa direzione, come la sezione "Arcobaleno" nel carcere delle Vallette di Torino, gestita con il supporto di una comunità per il recupero dei tossicodipendenti; come l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, nel quale da anni la gestione della medicina è affidata ad una comunità psichiatrica (ed è l’unico O.P.G. in Italia a presentare condizioni accettabili di vivibilità). Ma ci sarebbe anche il Coordinamento delle Case di Accoglienza per i malati di AIDS, che potrebbe occuparsi dei sieropositivi detenuti, oggi praticamente abbandonati a loro stessi. Insomma, non ho certo una mia "ricetta" per migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria per i detenuti, ma per lo meno mi piacerebbe che, in un momento di così grave incertezza su questi temi, le ragioni dei detenuti fossero un po’ più ascoltate. Una assistenza sanitaria non più sostenibile
"Se le Regioni non vengono messe in condizione di prendere in carico urgentemente la tutela della salute in carcere, l’assistenza sanitaria ai detenuti potrebbe diventare un fattore di rischio e di pena aggiuntiva", di Sandro Libianchi, Responsabile medico Unità Operativa Dipendenze "Istituti penitenziari di Rebibbia" - Roma (sandrolibianchi@hotmail.com)
Ormai nelle carceri italiane l’assistenza sanitaria ai detenuti rischia di diventare un fattore di rischio e di pena aggiuntiva. Le attuali leggi in vigore prevedono già che il Ministero della Giustizia non debba più avere competenze di diagnosi e cura delle persone recluse e le Regioni devono essere messe in condizione di prendere in carico urgentemente e completamente la tutela della salute in carcere, come loro demandato dalla Costituzione e dalle recenti norme di modifica del Titolo V. La garanzia di tutela dello stato di salute in carcere oggi, parlando sia di operatori che, soprattutto, di detenuti, è un discreto numero di norme, che pur se chiarissime e definitive, spesso possono andare in contraddizione l’una con l’altra a livello regionale, tra una regione e l’altra, tra regioni a statuto speciale ed a statuto ordinario, tra una provincia autonoma e l’altra, tra un carcere e l’altro, tra un Provveditorato e l’altro, tra un Dipartimento del Ministero della Giustizia (adulti) e l’altro (minori). In queste condizioni, un Ente pubblico (le ASL), dovrebbe poter essere messo in grado di creare un sistema assistenziale equo e con livelli di prestazioni pari rispetto agli altri cittadini liberi.
Le terapie farmacologiche
Chi "sa di carcere" vede come un siffatto sistema sia impossibile da realizzare fino a che vengono mantenute in essere le vecchie competenze del Ministero della Giustizia, nonostante le attuali norme già prevedano l’esatto contrario e cioè il loro passaggio al Sistema Sanitario Nazionale. Si registrano diversi esempi di questo palese malessere: Direzioni che ancora oggi ostacolano con documenti od ordini di servizio l’avvio di specifiche terapie farmacologiche, in virtù di pretese illegittimità, Ser.T. che prescrivono terapie che poi nessuno mette in atto in quanto o viene detto che mancano i soldi per i farmaci (basta vedere i farmaci che stanno né c.d. "armadi farmaceutici" che brillano per il deserto in essi contenuto) o soltanto perché non c’è condivisione prescrittiva da parte del medico incaricato, che si sente in dovere di poter fare altre scelte. Un discorso a parte, molto difficile da analizzare brevemente, è quello delle terapie farmacologiche per l’AIDS, che rappresentano un problema nel problema, sia per gli alti costi che ne conseguono, sia per il particolare regime prescrittivo che vede impegnate - almeno in teoria -soltanto le Unità Operative Ospedaliere di III livello (U.O.III L.) per la prescrizione e per l’approvvigionamento farmaceutico. Innanzitutto c’è da notare come i pazienti sieropositivi per HIVAb siano in una percentuale pressoché totale appartenenti all’area della dipendenza, sia che facciano uso attuale di sostanze stupefacenti o meno. Per questo motivo dovrebbero essere presi in carico dal Ser.T., che attraverso apposite convenzioni stipulare dalla ASL di appartenenza del carcere con le suddette U.O.III L. possano provvedere ai bisogni dei "loro" pazienti e coordinare un equilibrato indirizzo terapeutico pluridisciplinare, che cosa facile non è davvero. Ma anche in questo caso così non è e le competenze per la cura dell’AIDS vengono "trattenute" dal Ministero della Giustizia che per anni (più di un decennio) ha comprato in proprio tutti i farmaci per questa malattia (!!) sul libero mercato, quando gli Ospedali, se avessero avuto quel prezioso strumento della convenzione con le ASL/Ser.T., sarebbero stati "costretti" a fornirli gratuitamente. Viene spontaneo chiedersi "cui prodest", a chi ha giovato e giova ancora questo stato di cose? Sono pensabili interessi occulti? Ci si rifiuta di pensarlo soltanto, e senza andare troppo lontani con la fantasia, è molto più facile pensare che le maglie di una amministrazione non competente in materia abbiano potuto avere qualche piccola falla amministrativa. Poche decine di miliardi di vecchie lirette l’anno su un impegno economico globale che non ha mai superato i 220 miliardi. Ma questa situazione appare essere più figlia di una mancata applicazione di norme derivate dal non farsi sfilare il portafoglio della sanità penitenziaria con la sua cifra ragguardevole all’interno, che non da leggi inadeguate, che invece inadeguate non sono, ma - guarda un po’- non vengono applicate.
Ma quanti sono in carcere i sanitari che curano e che cosa
Ma torniamo al problema principale di chi cura e cosa. Se noi analizziamo i soggetti titolari, in un modo o nell’altro, di azioni diagnostiche e/o terapeutiche sul detenuto, verrebbe da sorridere per la tragicommedia a cui si assiste: Medici: 1. medico del Ser.T.; 2. medico incaricato; 3. coordinatore sanitario o dirigente sanitario; 4. medico del Presidio tossicodipendenze ed HIV (confluito nel Ser.T. da due mesi); 5. medico del Servizio Integrativo di Assistenza Sanitaria (SIAS) o Guardia medica; 6. specialisti di tutte le branche (fino a 25); 7. medico CTU del Tribunale; 8. medico di fiducia del paziente; 9. medico consulente di parte; 10. medico del lavoro; 11. commissione medica per l’invalidità civile.
Psicologi: 1. psicologi del Ser.T.; 2. psicologi dei "nuovi giunti"; 3. psicologi del trattamento; 4. psicologi del Presidio tossicodipendenze ed HIV (esperti ex art. 80); 5. psicologi consulenti del Tribunale; 6. psicologi consulenti di parte.
Infermieri: 1. del Ser.T.; 2. del PTD; 3. del SIAS; e poi …Educatori, Direttori, Agenti, Magistrati, Volontari, Ministri di culto, Ufficiali Giudiziari, Cooperative, ecc...
Vista così la situazione parrebbe essere caratterizzata da un enorme apporto socio-sanitario, e sotto certi aspetti ciò corrisponde a realtà. Ma il problema è proprio questo: un sistema cioè che è cresciuto senza quelle regole che nel mondo civile e libero rappresentano conquiste epocali degli ultimi 20-30 anni. Ma queste conquiste non sono state estese alle prestazioni sanitarie in carcere, la cui normazione risale alla L. 740 del 1970 e soltanto nel 1998 (L. 419) ha cominciato faticosissimamente a rinnovarsi, tentando di adeguarsi ai canoni del SSN.
Cura dei Tossicodipendenti o della tossicodipendenza?
Oggi nell’attuale comune accezione, lo riportavamo anche sopra, circa il trenta per cento dei detenuti è tossicodipendente ed in quanto tale dovrebbe essere preso in carico e gestito nella sua interezza multiproblematica dal Ser.T. Ma ciò non avviene per due ordini di motivi: esiste il notevole problema della definizione di "caso" di tossicodipendente epidemiologicamente rilevabile, per cui non è assolutamente facile stimare quante persone tossicodipendenti, non dichiarando assunzione di sostanze stupefacenti, non vengono segnalate al Ser.T.; non c’è accordo sulla definizione di ex tossicodipendente, tossicodipendente che non usa droga, droghe che non danno dipendenza, distinzione di uso/abuso/dipendenza, etc. E allora viene preso in carico un numero inferiore alla realtà di pazienti con problemi di dipendenza e pressoché soltanto coloro che hanno problemi acuti in atto (astinenza), di cui la stragrande maggioranza oppiaceo-dipendenti iniettivi. E le patologie correlate alla dipendenza, i problemi correnti, le visite specialistiche? No, quelle sono rimaste ancora competenza del penitenziario, per cui il Ser.T. si limita a curare la tossicodipendenza e non il tossicodipendente, spezzettando l’unicità del paziente in un assieme di competenze di singole patologie, e ciò non è affatto bene. Ancora, non si riesce bene a comprendere come mai tutte le "Custodie Attenuate" italiane, dove si cura esclusivamente la tossicodipendenza, non compaiano nel decreto di trasferimento del relativo personale e non vengano neanche citate altrove. Così che le strutture più importanti del settore non rientrano nelle strutture che il Ser.T. può e deve prendere in carico.
E la sperimentazione?
Per quanto riguarda la sperimentazione, al termine della quale si sarebbe dovuto procedere al contestuale trasferimento delle residue competenze in materia a carico del SSN, provate a chiedere al Ministero della Giustizia che esiti ha avuto… ottimi, ma… sgraditi, dico io (che ho fatto parte del Comitato di valutazione, che doveva fare esattamente questo, valutare i risultati della sperimentazione della riforma in alcune regioni. Comitato, che era costituito da tre membri del Ministero della Salute, tre membri del Ministero della Giustizia e tre membri, che poi sono diventati cinque, delle Regioni. Ad una prossima volta!
Dottor Sandro Libianchi Garantire ai detenuti le stesse opportunità e prestazioni sanitarie garantite ai cittadini liberi
Enrico Rossi, Assessore per il diritto alla salute della Regione Toscana, risponde a Francesco Ceraudo, ma soprattutto spiega che cosa sta facendo una delle poche regioni che sta concretamente occupandosi della salute dei detenuti
Nelle carceri italiane la situazione sanitaria è drammatica, il diritto dei detenuti alla salute è sceso a livelli inimmaginabili, è pesantemente condizionato o di fatto negato. L’organizzazione dell’assistenza sanitaria in carcere è anacronistica e irrazionale. Lo sappiamo. Con il passaggio della competenza della gestione della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia alle Regioni, queste hanno ereditato una sanità penitenziaria disastrosa, da riorganizzare e risanare dalle radici. Le Regioni sono davanti al fallimento di un intero sistema, e da qui devono ripartire. Il decreto legislativo 230/99 di fatto non è stato mai applicato, per la sostanziale inerzia del governo che, palesemente ostile a ogni cambiamento, l’ha progressivamente svuotato di contenuti e ha tagliato le risorse per le carceri. Concordiamo quindi con Ceraudo sulla complessità del problema e sulla difficoltà di affrontarlo con soluzioni che contribuiscano concretamente al miglioramento della situazione. Malgrado questo, va detto però che la Toscana, in attesa dei necessari supporti giuridici ed economici, non è stata a guardare: ha messo in atto – e sta continuando a farlo – iniziative concrete, cercando di fornire risposte a singoli aspetti specifici della questione "salute in carcere". La Toscana è una delle poche Regioni che stanno cercando di fare concretamente qualcosa. Intanto, è l’unica a essersi impegnata per la definizione di una legge (sta seguendo l’iter, entrerà in vigore entro l’anno) che regola la tutela della salute dei detenuti e garantisce loro le stesse prestazioni sanitarie assicurate ai cittadini liberi: entro tre mesi dall’approvazione della legge, sarà formulato un protocollo d’intesa tra Regione e Prap (Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria), per individuare i reciproci impegni e le procedure di collaborazione. Abbiamo costituito gruppi tecnici integrati composti da personale delle Asl e dell’Amministrazione Penitenziaria, con la funzione di redigere relazioni ricognitive e propositive (ci affacciavamo a una realtà che non conoscevamo affatto), e sono stati messi a punto interventi mirati, programmati e specifici. Siamo stati i primi (altre Regioni hanno poi seguito il nostro esempio) a mettere a disposizione delle strutture penitenziarie i farmaci del servizio sanitario pubblico: il protocollo tra Regione e Prap è stato firmato nel maggio scorso, uno analogo, per estendere l’assistenza farmaceutica anche agli istituti penitenziari per i minori, sarà siglato il prossimo 3 ottobre. Facciamo interventi di medicina preventiva e specialistica nei servizi penitenziari minorili, con un finanziamento annuo pari a 100 milioni di vecchie lire. Stiamo lavorando per la realizzazione di "repartini" nelle nostre strutture ospedaliere, destinati esclusivamente ai detenuti, per evitare quella commistione che finora ha determinato gravi disagi e dispendio di energie. Stiamo lavorando anche sul fronte dell’informatizzazione delle strutture penitenziarie, in modo da avere una cartella clinica informatizzata per ciascun detenuto (anche questo è in corso di realizzazione: abbiamo già visitato cinque strutture, per valutare il cablaggio). Quanto all’assistenza per i tossicodipendenti, questa è ovviamente subordinata al trasferimento del personale e delle risorse. Prima di assumere medici, infermieri e psicologi, vanno risolti i problemi relativi al loro inquadramento giuridico e al trattamento economico: tutto questo doveva essere definito da un decreto della Funzione Pubblica, che in realtà non c’è stato. A questo proposito, tutte le Regioni hanno fatto muro, inviando una comunicazione al ministro La Loggia, perché sollecitasse il decreto. La Loggia non ha risposto. Per aggirare questo scoglio, su istanza della Toscana, il Veneto (che coordina tutte le Regioni) ha avviato un tavolo tecnico: il primo incontro è fissato per il 2 ottobre. Nell’attesa, la Regione Toscana ha deciso di farsi comunque carico di queste convenzioni: li assumeremo temporaneamente fino a dicembre, in attesa delle risoluzioni a livello nazionale. Detto questo, siamo ben consapevoli che la strada è ancora lunga, ancora tanto c’è da fare. Ma siamo anche, senza presunzione, consapevoli che stiamo facendo tutto quanto è in nostro potere perché ai detenuti siano garantite le stesse opportunità e prestazioni sanitarie garantite ai cittadini liberi.
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