|
Ho pensato di suicidarmi, ma ho così tanti problemi che non sarebbe una soluzione
"Ho pensato di suicidarmi, ma ho così tanti problemi che non sarebbe una soluzione": la battuta è di Woody Allen, o meglio del disastrato protagonista del suo ultimo film, Anything else. Non sappiamo neppure dire se sia possibile trasferire l’ironia sui suicidi da una finzione cinematografica alla realtà, ma osiamo farlo, perché l’ironia a volte sa essere più efficace e graffiante di altre forme di espressione. Ebbene, in carcere è esattamente così: la situazione è in molti casi a tal punto tragica, che nulla pare rappresentare una soluzione. Ma purtroppo nella realtà i detenuti non solo pensano di suicidarsi, ma lo fanno, e paradossalmente anche suicidarsi in carcere è faticoso: perché l’istituzione si tutela in tutti i modi, togliendo alle persone i lacci delle scarpe, le cinture, mettendole, se sono considerate a rischio, nelle celle "lisce", cioè nude e prive di ogni possibile oggetto utile ad ammazzarsi. Però ci si ammazza lo stesso, usando tutta l’ingegnosità che la galera ti costringe a tirar fuori in ogni circostanza, anche quella della morte. Il Dossier "Morire di carcere" di cui parliamo in questo numero di Ristretti mette insieme, una dietro l’altra, le storie di suicidi, di sanità disastrata, di morti sospette che dalle carceri sono passate nelle cronache dei giornali del nostro paese: lette così, con la crudezza dei particolari delle lenzuola annodate, delle teste ficcate nei sacchetti pieni di gas, mettono finalmente angoscia. "Finalmente", diciamo, perché il nostro scopo era anche questo: cercare qualche cosa che almeno scuotesse, emozionasse le persone che hanno un minimo di sensibilità un po’ più dei numeri che l’Amministrazione Penitenziaria dà rispetto a questi eventi (ultimamente c’è da dire però che mancano anche questi dati). Ma c’è un secondo scopo, che ci siamo prefissati: continuare a monitorare, giorno per giorno, se possibile carcere per carcere, queste morti, coinvolgendo in questo paziente lavoro detenuti, volontari, operatori. Impedire che restino dei numeri, delle sigle, delle formule tipo "marocchino si impicca a San Vittore", ricostruire delle piccole storie, cercare le testimonianze dei compagni di chi si è ucciso. Perché l’idea di questo dossier ci è nata esattamente così: leggendo la testimonianza del compagno di cella di un detenuto albanese che si è suicidato a Piacenza, abbiamo pensato che era importante che chi muore di carcere fosse almeno ricordato dagli amici, dai compagni, dagli altri detenuti, dai "sopravvissuti" alla galera, con la pietà e l’affetto che non trovano spazio nelle statistiche.
La Redazione
|