Testimonianza delle vittime

 

Il dialogo possibile tra famigliari delle vittime e famigliari dei detenuti

È prima di tutto nella famiglia di chi ha commesso un reato che qualcosa inizia a infrangersi

 

di Adolfo Ceretti,

Professore Ordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca, Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano

 

È davvero una grande emozione per me ritrovarvi ancora una volta. Ho rivisto molti volti con gioia e credo che oggi avremo l’opportunità di fare decisamente un passo avanti rispetto ai temi che hanno iniziato da qualche anno a costruire le trame dei nostri incontri.

Ieri ero a Varsavia, ed ero a Varsavia con una signora che si chiama Glenda Wildschut. Per voi forse è un nome poco noto, ma se aggiungo che Glenda ha fatto parte della Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana e che l’ho invitata a Varsavia per parlare di questa sua straordinaria esperienza… allora le cose cambiano. Abbiamo già rinvenuto, infatti, un nesso forte con il nostro Convegno che si intitola, come tutti sapete, “Spezzare la catena del male”. Il titolo rinvia direttamente a una frase che Benedetta Tobagi l’anno scorso ci ha regalato, e che desidero riprendere:“Io non voglio parlare di perdono, però mi interessa tutto quello che può spezzare la catena del male, ma non un male archetipico con la emme maiuscola, bensì il male che c’è dentro a tutti noi e che circola nella vita quotidiana”.

Il male del quale ci occupiamo rimanda a ciò che può accadere nella finitudine della nostra vita quotidiana e a come quest’ultima sia attraversata e si costruisca intorno a emozioni e a esperienze interiori che accompagnano accadimenti che possono essere devastanti.

Queste emozioni, questi sentimenti sociali sono stati evocati da alcune persone che mi hanno preceduto. Ne riprendo qualche parola: divisione, odio, infame, bomba a orologeria, un padre deve fare il suo dovere per essere chiamato padre, voglio un posto più umano…

Torna allora il nome e torna la figura, la personalità di Glenda Wildschut. Una parola a lei cara, che molti di voi conosceranno, è “Ubuntu”, un termine di difficilissima traduzione che è stato messo al centro dei lavori della Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana istituita da Nelson Mandela e Desmond Tutu. È una parola che attraversa sostanzialmente lo spirito di tutto il Continente Africano e che noi potremo fare nostra nel momento in cui sapremo internalizzarla e iniziare a praticarla. “Ubuntu” significa sostanzialmente che la mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua, che noi facciamo parte dello stesso mondo vitale.

Se riflettiamo sul fatto che le relazioni interpersonali e i conflitti – compresi ovviamente quelli che riguardano i detenuti e le loro famiglie – si espandono come dei cerchi concentrici, comprenderemo che un primo livello di conflitti riguarda proprio chi ha commesso un reato e la sua famiglia. È li che dopo un gesto deviante qualcosa inizia a infrangersi. Parallelamente i conflitti si allargano a tutto il “resto del mondo”: le vittime primarie, le vittime secondarie, lo Stato e le sue leggi…

Ma una persona che “ha” “Ubuntu” è una persona aperta e disponibile verso gli altri, che riconosce agli altri il loro valore, che non si sente minacciata dal fatto che gli altri siano buoni e bravi, perché ha una giusta stima di se stesso che gli deriva dalla coscienza di appartenere a un insieme più vasto, e quindi si sente sminuita quando gli altri sono sminuiti, umiliata quando gli altri sono umiliati, quando gli altri vengono torturati e oppressi o trattati come se fossero inferiori, o addirittura uccisi. Noi diciamo – allora – che una persona è tale attraverso altre persone: non ci concepiamo nei termini “penso dunque sono”, bensì “sono umano” perché appartengo, partecipo e condivido.

Vorrei ora riportare una frase che ho ascoltato nel corso di una recente esperienza vissuta con detenuti e volontari nel carcere di Bollate, “L’incontro con l’altro permette di costruire spazi di ascolto e di narrazione della propria storia, apre all’idea di essere degni di una storia, incontrare gli altri e narrarsi”. Ecco: ciò che oggi faremo sarà soprattutto continuare ad ascoltare alcune narrazioni. Attraverso queste narrazioni io sono certo che molta della dignità che è stata calpestata da gesti che hanno offeso e umiliato la vita anche di chi li ha messi in atto potrà iniziare, almeno a livello embrionale, a essere ritrovata.

 L’incontro con l’altro permette di incontrare una regola non astrattamente, ma mediante l’esperienza sensibile di un’esistenza”. È questa l’ultima riflessione che desidero condividere con voi: In breve, traducendo il senso di quest’altra frase pronunciata dal “gruppo” di lavoro di Bollate, vi invito – e mi invito – ad andare oltre quel rumore di fondo che sollecita al rispetto delle regole. Le regole occorre incontrarle in modo concreto perché si possa costruire intorno a esse un sapere esperienziale, capire che cosa accade a rei, vittime e alle loro famiglie quando vengono violate.

Silvia Giralucci modererà il racconto di alcuni uomini, e di alcune donne, che porteranno molte e profonde testimonianze intorno a questi temi.

 

 

 

Le politiche repressive si fanno spesso scudo del dolore delle vittime

 

di Silvia Giralucci, a tre anni ha perso il padre, ucciso dalla Brigate Rosse, oggi fa volontariato nella redazione di Ristretti Orizzonti

Quando avevo tre anni il mio papà è stato ucciso dalle Brigate Rosse, due anni fa con l’intervento al convegno “Sto imparando a non odiare” ho iniziato un percorso che mi ha portato a far parte della redazione di Ristretti Orizzonti e che ha cambiato molto la mia vita, nel senso che in quella occasione avevo raccontato come ho passato una metà della mia vita a sentirmi vittima e a pensare che la soluzione per i problemi di delinquenza fosse costruire delle grandi e capienti carceri e tenerci dentro le persone che minacciavano la nostra sicurezza, che è poi quello che pensa gran parte dei nostri politici.

E che la mia vita era cambiata quando, seguendo da giornalista un’esperienza di teatro carcere, ero andata alle prove generali della serata di spettacolo con i detenuti e nel cortile di fronte al teatro ho visto un detenuto che anziché provare giocava con dei bambini.

Allora mi sono chiesta e ho chiesto: “Ma perché quello ha il permesso per fare le prove e invece sta fuori a giocare?” e mi hanno risposto: “Guarda, quelli sono i suoi figli, è la prima volta che li vede fuori dal carcere dopo molti anni”.

Io sono rimasta sconvolta da questa immagine, perché in quei bambini ho rivisto me stessa, la bambina che era cresciuta senza papà, e ho pensato che anche loro erano come me, delle vittime incolpevoli a cui in questo caso noi, la società, quelli che pensano di avere tutte le ragioni dalla loro, stavamo infliggendo una pena terribile, quella di crescere senza il loro padre.

Da quella volta ho cominciato a pensare che forse i problemi andavano considerati con una visione più ampia di quella che avevo.

Ecco io penso che le politiche repressive si facciano spesso scudo del dolore delle vittime, per rendere accettabile il fatto che infliggiamo pene disumane. Penso anche che questo incontro in cui alcuni di noi, che sono stati vittime, incontrano dei famigliari di detenuti, dovrebbe proprio togliere questo velo di ipocrisia: non possiamo farci schermo del dolore delle vittime per accettare delle politiche penali disumane. Di questo parleranno oggi alcuni famigliari di vittime di reati, a partire da un’altra persona che come me è rimasta orfana a causa delle Brigate Rosse, è Sabina Rossa, suo padre Guido Rossa è stato ucciso nel ‘79 da un commando della colonna genovese, suo padre era iscritto al PCI, era un operaio e sindacalista FIOM CGIL, che ebbe la forza e il coraggio di denunciare un collega che distribuiva un volantino delle Brigate Rosse in fabbrica.

Pagò questo atto con la vita e fu nella storia italiana qualche cosa che cambiò la coscienza di molti rispetto al terrorismo, perché in molti si dissero: se è capitato a un operaio, può capitare a chiunque di noi.

Sabina ha scelto di continuare l’impegno del padre e dal 2006 è deputato, e colpisce molto il fatto che lei abbia presentato una proposta di legge per rivedere l’articolo che riguarda la concessione della liberazione condizionale. La ragione di fondo è che lei è convinta che i parenti della vittima non debbano in alcun modo decidere della sorte di chi è ritenuto colpevole.

 

 

 

La responsabilità civile delle vittime nei confronti delle nuove generazioni

 

di Sabina Rossa, figlia di Guido Rossa,operaio dell’Italsider ucciso dalle Brigate Rosse

 

Gli anni del terrorismo sono ricordati oggi come uno dei periodi più bui della nostra repubblica. Il ’79 appunto è stato l’anno dell’assassinio di mio padre. Nel nostro Paese si sono registrati qualcosa come 2.200 attentati, 22 morti e 149 feriti, erano quelli gli anni in cui la vita delle persone finiva in gioco per niente, che lo decidessero loro o che la sorte le mettesse nel posto sbagliato.

Questo Paese, a distanza di tanti anni, non ha ancora saputo elaborare quei lutti, non ha fatto i conti fino in fondo con la propria storia. Alle vittime sono mancati anche spazi di racconto, spazi di ascolto e di riconoscimento, e nelle nostre memorie abita ancora un profondo bisogno di verità, direi più impellente ancora di quello di giustizia.

Ognuno di noi ha fatto un proprio percorso individuale, credo anche in solitudine, per andare avanti, per uscire dall’oblio, dalla rimozione e per passare da una memoria rivolta indietro ad una che sa guardare avanti, che guarda al futuro, perché credo che anche noi vittime abbiamo una responsabilità, una responsabilità civile nei confronti delle nuove generazioni. Abbiamo dei figli ai quali dobbiamo spiegare perché a loro volta sono stati privati, come nel mio caso, di un nonno, e il mio è stato un percorso fatto di volti e voci dei protagonisti di quel passato che è iniziato molti anni dopo. Avevo innanzitutto bisogno di recuperare un confronto, quello che a mio padre era stato negato, un confronto che fa parte di quelle leggi non dette e non scritte, per le quali esiste sempre la necessità di un rapporto diretto, tra i protagonisti di un conflitto.

Avevo bisogno di restituire a mio padre una identità più umana, fatta di speranze, di idea­li, di fragilità, che si sostituisse al simbolo da cancellare, da abbattere, che si sostituisse anche all’eroe, se vogliamo, consegnato oggi alla storia, per restituire a mia figlia quel nonno che non ha mai conosciuto, e perché un domani lei non potesse odiare.

In questi anni ho incontrato uomini e donne che erano in realtà molto diversi da come me li ero immaginati, perché il tempo li aveva inesorabilmente cambiati non solo nel fisico, e ho respirato in modo evidente, devo dire, il peso delle scelte che avevano compiuto, e che avevano anche distrutto le loro vite.

Hanna Arendt, nel suo libro “Sulla banalità del male” affermava: “Le persone compromesse con il male non presentano particolarità esteriori, ma sono simili agli altri”. E questo è qualcosa che davvero apre la via al riconoscimento della reciproca fragilità umana e alla possibilità di cambiamento.

In uno di questi incontri che ho poi anche trascritto nel libro che ho scritto insieme a Giovanni Fasanella, “Guido Rossa, mio padre”, si legge. “Dietro la sua corazza vedo affiorare la sofferenza, gliela leggo negli occhi quando parla della sua famiglia, della sua compagna, dei figli in tenera età, ho pensato che la sofferenza altrui anche se frutto di un vissuto autonomamente scelto, fatto anche di violenza e di episodi di sangue, non può e non deve costituire un motivo di soddisfazione, di risarcimento nei confronti anche di chi è stato vittima di quei comportamenti, e che a causa di essi egli ha enormemente sofferto”.

Questo ho pensato: che fosse giusto condividere la sofferenza attraverso il dialogo e il confronto, e cosi facendo in quel momento non mi sono sentita dalla parte sbagliata e non mi sono sentita solidale con le scelte del brigatista di un tempo.

Vorrei citare anche Benjamin, che dice. “L’unico linguaggio per dare corpo al torto subito è formulare il perdono, è la narrazione”.

In “Angelus Novus” Walter Benjamin scrive: “Se consideriamo il dolore come una barriera che resiste al flusso della narrazione, potrà essere infranto solo là dove la corrente è cosi forte da poter spazzare tutto quello che incontrerà sul suo cammino, narrare i fatti come sono avvenuti ovvero la verità come noi l’abbiamo sentita”. “Se io perdono l’altro”, continua Benjamin, “non lo abbraccio in un atto indistinto, ma lo metto al suo posto, lo chiamo alla sua imputabilità e solo in questo modo il perdono non sarà dimenticanza o rimozione”.

Perché fare giustizia, come sostiene Desmond Tutu, significa ”risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare tanto le vittime quanto i criminali, ai quali va data l’opportunità di reinserirsi nella comunità”.

Credo che anche la nostra Costituzione ci indichi il percorso, anche nei regolamenti penitenziari trova forma il principio costituzionale del fine rieducativo della pena. L’articolo 27 della Costituzione, poco meno di tre righe, credo che debba essere considerato davvero un esempio della grandezza della nostra Costituzione, e purtroppo constatiamo oggi qui in questo convegno la sua distanza dalla realtà attuale delle nostre carceri.

Alcuni anni fa ho incontrato anche Vincenzo Guagliardo, colui che il 24 gennaio del ‘79 era sotto casa ad aspettare mio padre, giudicato colpevole dalla colonna genovese delle Brigate Rose per aver denunciato il postino che distribuiva materiale di propaganda brigatista all’interno della fabbrica dove anch’egli lavorava.

È stato un incontro che mi ha cambiata nel profondo, e successivamente ho anche parlato con il Magistrato del Tribunale di Sorveglianza che doveva decidere sulla scarcerazione, dicendogli che il brigatista che nel ‘79 sparò al sindacalista Guido Rossa, oggi è un altro uomo e merita di lasciare il carcere dopo trent’anni di reclusione.

Non so se questo sia un gesto di perdono, ma so che è un atto giusto. Io per questo ho presentato anche una proposta di legge per sostituire le parole “sicuro ravvedimento”, che sono quelle richieste dal codice penale all’articolo 176, con una formula diversa. “Può uscire dal carcere, nel caso degli ergastolani dopo 26 anni, chi ha tenuto un comportamento tale da far ritenere concluso positivamente il percorso rieducativo di cui all’articolo 27 comma 3 della Costituzione”.

La condizione del sicuro ravvedimento per concedere la liberazione condizionale ai condannati all’ergastolo secondo i giudici si misura attraverso l’avvenuto scambio epistolare tra condannati e vittime, secondo me riducendolo alla fine ad un fatto privato tra vittime e colpevoli.

Io credo che l’esigenza di ottenere giustizia non sia un fatto privato, ma è un bene collettivo, perché giustizia significa ricostruire quell’ideale di comunità, quel sistema di regole che vengono infrante ogni qualvolta viene commesso un atto criminoso.

Per i condannati è ovvio il possibile uso strumentale finalizzato unicamente all’ottenimento di un beneficio, per le vittime diventa una pesante incombenza della quale non hanno bisogno, perché spesso va anche a riaprire ferite mai rimarginate e resta in ultimo il fatto, devo dirlo, che io sono convinta che questo percorso rimane anche un percorso ad uso discrezionale dei tribunali di Sorveglianza. A volte viene posto come condizione irrinunciabile e in altri casi non viene affatto valutato. Insomma la mia è una proposta che va anche nella direzione dell’abolizione dell’ergastolo, che nega invece ogni speranza di cambiamento, è una proposta che va nella direzione indicata dalla Costituzione, secondo cui la pena deve operare in stretta similitudine tra il concetto di rieducazione e quello di recupero del condannato.

Abbiamo ascoltato oggi il tema, che è quello di questo Convegno, per cui oltre alle vittime e ai colpevoli ci sono le mogli, le compagne, ci sono i figli, i genitori di chi i reati li ha commessi, e anche le loro vite sono state distrutte, soprattutto i bambini di genitori detenuti sono quelli doppiamente colpiti, perché non soffrono solo per la separazione dal proprio genitore, ma soffrono quotidianamente anche a causa del marchio del reato e della vergogna, del rifiuto sociale e del conseguente isolamento che ne deriva.

Io vorrei concludere citando ancora una persona, Anna Negri, che nel suo libro dal titolo “Con un piede impigliato nella storia”, scrive: “E poi ti accorgi quando si tratta di figli, non ci sono vittime o carnefici, ma siamo stati tutti bambini traumatizzati da una storia che non ci apparteneva e che non abbiamo scelto.

Io ho scoperto una cosa crudele, cioè che i figli portano sulle spalle le colpe dei genitori e, prima o poi, con queste colpe devono confrontarsi, anch’io sono crollata perché non ne potevo più di nascondermi e fare finta di essere una persona diversa, perché mi vergognavo di chi ero, di chi era la mia famiglia e ancora adesso ogni tanto ho paura delle occhiate della gente.

Allo stesso tempo penso che la vita non la scegli, ho visto tanta sofferenza e nonostante tutta la fatica che ho fatto, penso che quello che è successo mi ha aperto gli occhi e mi ha affinato lo sguardo, rendendomi oggi la persona che sono”. Grazie

 

 

La rabbia e il rancore non servono a niente se non a rovinarsi la vita

 

di Maria Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, leader della Democrazia Cristiana ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio del 1978

Vi ringrazio molto per questo invito a essere insieme, a ragionare insieme su quello che per me è un tema di grandissima importanza. È un tema per me molto vitale, non è una cosa che sento lontana, ma è esattamente il problema che mi pongo in questa fase della mia vita.

Io sono passata attraverso tanti stadi rispetto a quello che è capitato a mio padre, soprattutto rabbia e rancore per tantissimi anni. Una rabbia e un rancore che poi alla fine non servono a niente se non a rovinarti la vita, a non farti respirare, a non renderti possibile di guardare avanti e di vivere.

La signora Calabresi, Gemma Calabresi, dice sempre che finché tu provi rancore per qualcuno quel qualcuno sta dominando la tua vita. Ed è vero. Non è facile superare questo stadio. Una volta ripresa la possibilità di respirare, superato questo momento, per me è diventato un grandissimo problema proprio questo della “catena del male”. Perché il male è una cosa veramente strana, nel senso che, una volta che è stato fatto, il male non si ferma da solo. Questo secondo me è il grande dramma con cui ci dobbiamo confrontare.

Gesù sulla croce dice una frase che secondo me è bellissima non solo per la sua grande umanità, ma per la sua grande verità: “Perdonali perché non sanno quello che fanno”, e questo mi sembra vero in tanti sensi. Credo che le persone che hanno ucciso mio padre, che hanno ucciso gli uomini della sua scorta, queste cinque persone meravigliose che non stavano lì per caso ma perché credevano in qualcosa - avrebbero potuto cambiare lavoro, cambiare servizio, andarsene, ma dissero a mio padre: noi non ti faremo morire da solo -, hanno pensato di fare una cosa precisa, “ammazzare Aldo Moro”. In rea­ltà loro non hanno fatto solo questa cosa, hanno creato una catena di male, di problemi, di sofferenze che non si ferma né nell’ampiezza, né nel tempo. Le persone che hanno commesso quel male, poi, non sanno nemmeno quello che faranno a se stesse, che è un’altra cosa terribile. Lo abbiamo sentito oggi nelle bellissime testimonianze, nelle bellissime riflessioni delle persone detenute che sono intervenute.

Credo che quello di fermare la catena del male sia veramente un problema che ci dovrebbe coinvolgere tutti. Per me è diventato un po’ una idea fissa, perché dipende anche da me fermare questa catena del male, fare sì che non seguiti ad andare avanti.

Io ho dei figli, nessuno di loro era nato quando è stato ucciso mio padre e non l’hanno conosciuto, però dei danni gli sono rimasti, nonostante tutti i nostri sforzi per alleggerire la situazione. Io sono stata quasi evasiva, nei confronti dei miei figli, per non caricarli di un peso che veramente poteva essere eccessivo. Gli è rimasto un danno in una mia ridotta umanità, perché capisco che dentro di me c’è qualche cosa che è fermo, che è spezzato e nonostante tutti i miei sforzi io non potrò mai riattivarlo; c’è una parte di me che è solo mia, che non riesco a condividere con nessuno, che è ferma a quel giorno, a quel momento e da lì non si può muovere.

Da qui forse nasce anche il senso di fratellanza, di profonda amicizia e qualcosa di più, che provo nei confronti di tutti coloro che hanno passato una vicenda come la mia. Perché so che loro mi possono capire, anche se io non sono capace di dire con le parole quel pezzo di me che è bloccato. Certamente il male ha tante forme, c’è stato chi ha ucciso mio padre, ma ci sono tante altre cose cattive che gli sono state fatte e che non saranno mai punite, che sono state fatte a lui quando era prigioniero; il fatto che sia stato deriso, che gli sia stato detto che era matto, che non era lui, che non bisognava prenderlo in considerazione .

Anche oggi è vittima di un’altra offesa, una offesa gravissima secondo me, che è la mancanza di verità; il fatto che ancora tante cose della sua storia, come avviene purtroppo per tantissime altre storie del terrorismo e dello stragismo, noi non sappiamo come sono andate; questa è una violenza terribile e fa parte del male che è ancora attivo.

Io penso appunto di averlo conosciuto il male nella mia vita per averlo visto nei confronti di mio padre; ma conosco il male perché anche io so fare il male, l’ho fatto in certe occasioni e conosco il rimorso e il dispiacere di non poter riparare, di non poter cancellare quel gesto.

 

Il male si ferma quando si ricuce un tessuto di umanità che è stato ferito

 

Quindi quando io dico “spezzare la catena del male”, non parlo dall’alto di un’innocenza, io non mi sento innocente, anche io avrei potuto fare di più per salvare mio padre, anche se non so cosa, avrei dovuto tentare altro. Mio padre dice in una delle sue lettere, “non c’è niente da fare quando non si vuole aprire la porta”, anche io mi sento colpevole di non essere riuscita a farla aprire, per cui non mi sento fuori da questo giro. Anche per me, quindi, è vitale capire che cosa possiamo fare, che cosa si può fare per fermare questa catena. Qui però viene fuori questo tema famoso, sempre richiamato, del perdono. E qui c’è un pasticcio, che Sabina Rossa, sempre brava, nella sua attività cerca di chiarire. Perché nei nostri casi il perdono significa appunto che ti arriva un magistrato, un ufficiale di polizia, e ti chiede: “Ma tu lo hai perdonato? perché noi dobbiamo dargli dei benefici”.

Ma io che ne so, io non l’ho seguita la vita di questa persona, non so com’è adesso, come posso dare un giudizio? Tra l’altro ti arrivano quelle lettere che tu non sai mai se sono state scritte dall’avvocato o sono state scritte dalla persona responsabile del male che ti è stato fatto, se rispecchiano davvero i sentimenti di quella persona o se sono solo parole che servono ad avere benefici e non sono sentite. Io non lo saprò mai. Avrò paura sempre che sia solo una cosa strumentale, perché così gli danno un beneficio. Quella persona giustamente fa benissimo a richiedere un beneficio, ci mancherebbe altro. Però è un’offesa alla sua umanità e alla sua capacità di provare davvero quei sentimenti il fatto che questi diventino uno degli elementi con i quali si dà o meno un beneficio.

Penso che il perdono non sia un sentimento dell’anima, un vogliamoci bene, il mettere un velo pietoso su quello che è stato. No, quello che è stato è una cosa sbagliata e rimane una cosa sbagliata.

Penso che sia difficile avere cosi semplicemente un sentimento legato al perdono, ma penso invece che il perdono sia una decisione, io credo che ci si sveglia una mattina dopo un percorso, che in realtà è durato anni, e si dice: basta. Questo è un elemento necessario perché si fermi la catena del male, senza questo non si può fermare, a mio avviso.

Però non credo che sia sufficiente, penso che sia una condizione necessaria ma non sufficiente, perché credo che se questo è il primo passo, bisogna che poi si sia in due, che ci sia una rispondenza, ma una rispondenza di spiriti, non saprei adesso come si possa chiamare, perché credo che il male si ferma quando si ricuce un tessuto di umanità che è stato ferito, che è stato ferito nel mio caso in maniera estremamente grave.

E non si può, credo, ricostruire niente, se non si mette in ballo una cosa - scusate vi sembrerò retorica, ma vi dico solo le cose che penso e che fanno parte della mia vita, sulle quali mi sforzo di camminare -, credo che si debba rimettere in ballo quello che si chiama amore, però non credo che si possa amare senza conoscere.

Quindi qui c’è un delicatissimo tema della ripresa di un dialogo, di una vicinanza, di una conoscenza, estremamente difficile, estremamente dolorosa, ma che mi auguro sia possibile. Vi ringrazio veramente per questa occasione e spero che non ci lasciate soli e che si possa continuare insieme. Grazie.

 

 

 

Ricucire il tessuto sociale attraverso il riconoscimento dell’umanità dell’altro

 

di Silvia Giralucci

 

Grazie, grazie mille Agnese, hai toccato un punto nodale del nostro discorso, ricucire, quella possibilità di ricucire il tessuto sociale, attraverso il riconoscimento dell’umanità dell’altro, anche quando l’altro è il carnefice.

In questo senso c’è un’altra storia che vogliamo raccontare oggi, Giorgio è il figlio di Sergio Bazzega, un maresciallo di polizia che è stato ucciso da Walter Alasia, a Milano il 15 dicembre del 1976.

Giorgio come me era un bambino, un bambino molto piccolo. Io ho conosciuto Giorgio via internet leggendo le sue parole nel blog di Giovanni Fasanella, “La storia nascosta” che era un blog nato con l’idea di fare incontrare i parenti delle vittime e di discutere sugli anni di piombo coinvolgendo in questo discorso sia i parenti, sia chi aveva partecipato attivamente alla lotta armata.

In quel blog interveniva spesso un ex esponente di Prima Linea, Mario Ferrandi. Mario difendeva in un certo senso la sua storia e Giorgio rispondeva raccontando la sua, raccontando le sue sofferenze.

Io ero rimasta molto colpita da questa sua volontà di mettersi in gioco e di dialogare. Quando ci siamo incontrati la prima volta, a una mostra dedicata alle vittime del terrorismo a Milano, gli ho chiesto “Ma perché perdi tempo a discutere con lui, ma che senso ha?”.

Lui mi ha risposto “Guarda, da quando l’ho incontrato in realtà mi sono svelenito”, e da questo incontro c’è stato anche un seguito, e oggi ce lo racconta Giorgio.

 

 

 

Sostituire i mostri che avevo nella testa con delle persone

 

di Giorgio Bazzega, figlio di Sergio Bazzega, ispettore di polizia ucciso a Milano dal brigatista Walter Alasia. Giorgio gestisce un gruppo su facebook “Per chi non ha paura del dialogo” con Mario Ferrandi, ex esponente di Prima Linea

 

Io vorrei partire da una piccola introduzione anche per far capire il mio percorso. Ho perso mio papà che avevo due anni e mezzo, ma i problemi sono arrivati con l’adolescenza, quando, in aggiunta ai classici problemi adolescenziali, cominciavo a vedere scarcerati i vari ex capi brigatisti e oltre al senso di abbandono profondo da parte dello Stato che vivevamo io e la mia famiglia, mi sono vissuto un’ingiustizia tremenda, che mi ha portato ad odiare, ma ad odiare tanto, io mi volevo proprio vendicare.

Mia mamma mi ha trovato che cercavo gli indirizzi, soprattutto di Curcio, perché io volevo andare a stenderlo, in quel periodo avevo 18-19 anni, e ho dovuto anestetizzare tutta questa rabbia, e l’ho fatto nel modo più sbagliato possibile, mi sono ammazzato di cocaina e schifezze varie per una decina di anni circa, fino a 6-7 anni fa più o meno.

Sono un figlio di poliziotto che è cresciuto in un quartiere di periferia a Milano che è la Barona, quelli chiamati i balordi della zona erano anche i miei amici, io sono cresciuto in mezzo a questi tipi di dinamiche, fino a quando verso quasi i 28 anni mi sono trovato in un momento di lucidità, e ho capito quanto non fosse quella la mia vita, quanto il carattere che avevo io, grazie anche all’esempio e all’educazione che avevo ricevuto, fosse un altro, non adatto a vivere quel tipo di vita.

Ho trovato la forza di dire basta e sono stato molto fortunato, ho avuto mia moglie vicino che mi ha aiutato tanto, l’ho conosciuta dopo che ho deciso di smettere, e ho incontrato delle persone straordinarie, cito Giovanni Fasanella, cito Manlio Milani soprattutto, che è un parente di una vittima della strage di Piazza della Loggia a Brescia, quest’uomo che si è visto esplodere la moglie e quando l’ho incontrato mi parlava in un modo, che io definisco “serenamente determinato”, perché non c’è ombra di aggressività in lui, non c’è ombra di rancore, c’è una determinazione però a fare luce su quello che è successo.

Dopo questa piccola breve parentesi però arriviamo al punto, io ho avuto modo di incontrare Mario Ferrandi prima in internet, sul blog appunto di Giovanni Fasanella, e all’inizio sono state delle belle litigate, ma anche forti, feroci, poi piano, piano, tra le righe delle litigate, nello scambio di opinioni venivano fuori quelle che erano le persone: io a dire che effettivamente le mie erano delle posizioni un po’ cosi, e lui a rendersi conto di dire delle boiate terribili, che scriveva nei miei confronti e nei confronti di alcune vittime.

Ho avuto l’opportunità di incontrarlo, come ho avuto l’opportunità di incontrare tanti altri ex terroristi, quello che mi ha aiutato tantissimo nel superare il mio rancore, la mia rabbia, la mia voglia di vendetta è stato sostituire dei mostri che avevo nella testa con delle persone.

Mi sono trovato di fronte a queste persone e mi sono reso conto quanto spesso mi sono trovato neanche a un passo, forse a meno di un passo dal provare una esperienza simile a quella delle persone che sono qui dentro a un carcere, e sono stato fortunato, sono stato fortunato per l’educazione ricevuta, sono stato fortunato perché nei momenti in cui ero in pericolo ho sempre avuto qualcuno che mi ha tirato fuori e me li ha evitati, quei pericoli.

Di fronte a questa consapevolezza non potevo non guardare con occhi diversi anche queste altre persone, i terroristi. Io faccio una distinzione tra queste persone, l’assassino di mio padre aveva 20 anni, la maggior parte di coloro che hanno sparato, che hanno ammazzato in quegli anni erano più o meno in quella fascia di età lì.

 

La voglia di capire fa vivere meglio

 

Un lavoro che ho fatto è cercare di capire come un ragazzo, preso magari in situazioni disperate, e comunque indottrinato con grande capacità da parte di qualcuno possa essere finito a fare quella scelta. Oggi anche verso chi ha ucciso mio papà, che è morto anche lui quello stesso giorno, io non provo più odio, sono piuttosto spiazzato.

Io con chi sono veramente, ma veramente incazzato, sono quelle persone che questi ragazzi li hanno indottrinati, armati e mandati al macello, e nella maggior parte dei casi lo stanno rifacendo tuttora, è per quello che anche l’incontro con Mario Ferrandi per me è stato qualcosa di importante, è stato uno di quegli eventi di questi ultimi quattro anni che mi ha cambiato assolutamente la vita.

Io con Mario adesso ho un rapporto di amicizia. Lui ha problemi con suo figlio, anche perché è un ragazzo che crede in certe cose, insomma vede la politica a modo suo, sbaglia anche, però mi rendo conto che il nome che porta gli dà molti, molti più problemi di quelli che dovrebbe avere, e mi sono anche esposto per difenderlo varie volte.

La cosa più importante di tutta la mia esperienza è, a livello egoistico, lo smettere di odiare, di provare rancore, e sforzarsi di confrontarsi. Anche se io non posso dire di aver perdonato chi ha ucciso mio padre, in tutta coscienza, chi ha ucciso mio padre non c’è più, non posso averlo di fronte e magari anche per questo non posso dire di aver perdonato. Certamente è un’altra cosa cercare di capire, e cercare di capire per un motivo semplice, perché anche noi veniamo coinvolti spesso a parlare di memoria, ma la memoria se non ha una proiezione futura non ha senso. Quindi il nostro “dover capire” ci dovrebbe servire in futuro a cercare di evitare certe dinamiche e certi errori del passato.

Quello che però considero la cosa più importante è che questa voglia di capire, questo cambiamento mi hanno permesso di vivere un po’ meglio. Non mi sveglio più con il mal di stomaco tutti i giorni, non ho più problemi di questo tipo e anzi, grazie a Dio, adesso mi impegno proprio per cercare di capire e la mia vita è veramente cambiata. Io prima ho sentito parole del tipo “odio compresso”, poi anche “confronto”, queste parole fanno proprio parte della mia storia. Prima avevo questo odio compresso, ma dal momento in cui ho cominciato a confrontarmi mi sono liberato. Prima io non andavo neanche più a Sesto San Giovanni dove è stato ucciso mio papà, se dovevo passarci facevo il giro largo, ma non ci entravo. Un altro tabù vinto è stato quello di andare li, e sapere che c’era il padre malato di Alasia in casa, e non tanto perché era ammalato, ma perché io mi sono immedesimato in quest’uomo, in quest’uomo che vede il figlio morire ammazzato anche lui per delle scelte sbagliate, pensare a questo padre che per la tragedia di un figlio perso in questo modo mi ha messo di fronte ad una consapevolezza. Ovvero, io sono in ogni modo un fortunato, sono riuscito a superare tante cose e comunque in vita mia ho sempre avuto un padre di cui poter essere orgoglioso e tante persone che me lo dicevano. Io poi ho pensato ai figli di chi stava dalla parte opposta, ho pensato a quei ragazzi… scusatemi, mi spezzava il cuore pensare di doverli incontrare, ed ho provato anche ad incontrarli, ma ci sono delle problematiche grosse perché molti non sanno neanche chi era mio padre, nel senso di che cosa facesse, molti altri si vergognano…

È un percorso difficile, ed io mi propongo di volerlo continuare e di farlo a tutti i costi, ho avuto due contatti con il figlio di Mario Ferrandi e anche luì è molto sfuggente, però penso che il prossimo passo da fare sia proprio questo, il trovarci tutti come vittime dello stesso delirio.

 

 

Levare un figlio alla camorra

Questo può essere l’unico modo di dare un senso all’esperienza dei famigliari di vittime innocenti della criminalità

 

di Lorenzo Clemente, marito di Silvia Ruotolo, vittima innocente uccisa per strada in un conflitto a fuoco tra camorristi

 

A Lorenzo Clemente hanno ucciso la moglie, madre di due bambini, a Napoli nel 1997. Silvia era andata a prendere all’asilo il figlio più piccolo e tornando a casa è stata colpita a morte nel corso di una sparatoria.

Ma Lorenzo ha trovato il suo modo di dare un senso a questa tragedia, e porta il suo contributo per spezzare la catena dell’illegalità facendo volontariato con i minori nel carcere di Nisida, che è il posto dove praticamente sono cresciuti gli assassini di sua moglie.

gni volta che ho la possibilità di raccontare la mia esperienza dico che purtroppo questa fa parte della quotidianità, della cronaca della nostra cara città di Napoli. Come tutti sanno benissimo, nella realtà napoletana, e più in generale in Campania ci si ammazza per niente. Abbiamo la più alta percentuale di vittime innocenti legata alla criminalità, ci si ammazza perché bisogna conquistarsi la piazza per il mercato del traffico della droga e dell’estorsione, ma ci si ammazza anche perché si incrociano gli occhi di una ragazza o si vuole appropriarsi di un telefonino.

Io spesso devo faticosamente ripercorrere la mia storia, perché quella storia la vado a raccontare nelle scuole. Il giorno in cui mia moglie è stata ammazzata, l’11 giugno 1997, quando mi chiamarono capii subito quello che era successo, lo ricordo e lo dico con grande emozione. Quel giorno la mia più grossa difficoltà è stata quella di sentirmi impedito fisicamente nel salire le scale di casa ed incrociare gli occhi dei miei due figli per rispondere ai loro perché.

La scommessa che in un certo qual modo ho cercato di portare avanti, perché forse è l’unica che mi permette di scaricare la mia rabbia, la mia voglia di fare in modo che quello che è successo ai miei due figli, non si ripeta ad altri, e quindi la mia sfida, è stata quella di fare qualcosa di utile.

Ho avuto modo di incontrare i ragazzi di Nisida, pensate ho avuto modo di incrociare gli occhi di chi in quel giorno ha sparato, e purtroppo i mandanti li ho visti solo di spalle, perché si volevano far riprendere solo così i mandanti, e vi confesso che ho toccato con mano una realtà terrificante. A chi ha sparato è stato detto semplicemente: “Vieni con me, questa è la pistola, vieni con me e andiamo”, come se io chiedessi a qualcuno di voi se gentilmente mi prende un bicchiere d’acqua. Questa è la normalità della nostra realtà, e raccontare la mia esperienza a voi e ai ragazzi di Nisida vi confesso che mi provoca e mi ha provocato delle emozioni forti, ma ritengo che valga la pena farlo perché forse può aiutare altri ragazzi a scegliere i propri comportamenti più criticamente.

In questo momento avverto che siamo in un contesto di carcere per adulti, e mi viene in mente allora quando un ragazzo di Nisida si è accostato a me e mi ha detto: “Ma perché non vai dai grandi?”

Questa frase è qualcosa che mi porto dentro, perché mentre sto ascoltando esperienze di vittime e carnefici che si sono incontrati, penso anche che per spezzare una catena bisogna essere in due. Nella realtà criminale camorristica purtroppo invece non si è in grado di capire, perché è la realtà di chi ha scelto questa strada, è una realtà nella quale loro si trovano e ci credono, e anche stando in carcere a scontare un “fine pena mai” loro sono convinti di stare nel posto sbagliato, di non doverci stare in carcere. Non ritengono minimamente che si possa in qualche modo affrontare il loro problema, e non sono poi neanche coscienti della realtà in cui si muovono, mentre qui in questo carcere ho sentito parlare delle loro esperienze i detenuti e i loro famigliari, e farlo con la consapevolezza delle proprie responsabilità.

Vedete noi a Napoli, ed è un’esperienza che in qualche modo si sta cercando di portare avanti in altre realtà, circa quattro anni fa abbiamo costituito un Coordinamento di famigliari di vittime innocenti della criminalità. Ebbene, parlando tra di noi ormai abbiamo fatto un patto di sangue, la forte rabbia che abbiamo dentro è proprio quella di essere incapaci, pur volendolo, di perdonare.

Perché la realtà che noi abbiamo dovuto affrontare (chi ha perso la moglie, chi ha perso un figlio, chi ha perso il padre), veramente è una realtà nella quale chi ha subito si sente fortemente e continuamente provocato, e quindi confesso mi fa quasi rabbia, o invidia sentire queste esperienze di confronto tra vittime e autori di reato che in qualche modo portano anche a dare delle ragioni, delle spiegazioni alla propria vita, tra chi è stato vittima e chi è stato carnefice. Purtroppo nella realtà che io personalmente sto vivendo questa possibilità non c’è .

Ecco il motivo per cui non vi rubo altro tempo: perché, nel contesto in cui noi ci troviamo, ritengo che forse l’unica scelta è quella di lavorare con i ragazzi, perché forse con loro, io me lo auguro, si può fare in modo almeno dì levare un figlio alla camorra.

 

di Silvia Giralucci

 

Oggi abbiamo sentito raccontare alcune testimonianze di persone che sono state colpite da un reato, ma loro non sono le uniche vittime, lo hanno spiegato prima i detenuti, ci sono anche i famigliari di chi commette un reato, che si ritrovano ad avere una vita molto diversa da quella che avevano prima, e diventano loro stessi in qualche modo vittime.

Ci sono alcuni di loro che hanno accettato di raccontarci la loro storia, io di questo vorrei ringraziarli moltissimo, perché ci vuole molto coraggio per farlo. La prima è Jenny, è la sorella di un detenuto, di lavoro fa l’educatrice nel campo dei minori seguiti dai servizi sociali ed è la più piccola di quattro fratelli. Jenny è italiana, e la sua situazione in qualche modo assomiglia a quella di gran parte di noi che siamo qui oggi: una famiglia normale, solo che in quella famiglia all’improvviso qualcuno finisce in carcere, e tutto cambia.

La seconda è Edlira, è sorella di un detenuto che avete sentito parlare prima, Gentian, lei è albanese, è arrivata in Italia 16 anni fa con una borsa di studio per frequentare un master post laurea all’Università di Perugia, e dopo che è arrivata lei è arrivato il resto della famiglia.

Molte persone nel nostro Paese tendono a considerare lo straniero, l’extracomunitario, come un delinquente, e invece, anche tra gli stranieri che compiono reati, ce ne sono molti che provengono da famiglie assolutamente regolari, che mai si sarebbero aspettate di avere a che fare con il carcere.

Poi ci sarà la testimonianza di un padre, un padre di tre figli, responsabile commerciale di una azienda, attivo per tutta la vita nel mondo del volontariato, per 15 anni assessore nel paese in cui vive, da trent’anni responsabile del settore giovanile dell’associazione sportiva calcio del paese, che da un giorno all’altro si è trovato ad essere il padre di un detenuto. E ancora, la storia di Katia, la compagna di un detenuto, che alla figlia per anni ha dovuto fare da padre e da madre.

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