Mi
considero una vittima “fortunata”, nel senso che questa esperienza mi ha
fatto crescere
di Jenny Barosco, sorella di un detenuto
Vi
ringrazio di avermi invitata, vi parlerò proprio della mia esperienza come
sorella, sorella più piccola. Mi considero sotto certi aspetti una vittima
“fortunata”, nel senso che questa esperienza mi ha fatto crescere, mi ha
portato a vedere la reale sofferenza nelle persone e forse ha indirizzato anche
la mia scelta di studi.
Mi
sono laureata in Storia dell’arte e poi per una certa predisposizione non
connaturata, ma determinata dalla mia esperienza di sofferenza, di confronto con
le storie dei miei due fratelli, che hanno commesso reati inerenti alla droga,
sono diventata un’educatrice.
Credo
molto nella possibilità di rieducazione dei detenuti. Mio fratello Daniele ha
partecipato proprio qui in questo carcere al progetto di Ristretti Orizzonti e
ha iniziato a parlare di sé, finalmente, perché con noi non riusciva proprio a
parlare di cosa avesse fatto. Infatti i problemi nascono soprattutto da questo
secondo me, dalla difficoltà di riuscire a parlare e ammettere, non solo
davanti alla giustizia, ma proprio davanti ai famigliari, di aver commesso
qualcosa di sbagliato.
E
quindi nel poter confrontarsi soprattutto con le scuole, scrivere, parlare ad un
pubblico secondo me c’è la possibilità di un reale perdono. Io vi voglio
parlare del perdono perché per me è la parola chiave. Io sono credente, non ho
smesso di esserlo nonostante tutto, credo nella parola perdono e penso che prima
di tutto chi commette reati debba perdonare se stesso per aver offeso gli altri,
se stesso come persona nella sua dignità di uomo. Perché credo profondamente
che nel reato ci sia in un certo senso una mancanza di autostima, e per questo
un percorso di rieducazione è essenziale.
Quando
mio fratello mi ha detto che gli hanno dato 11 anni e 6 mesi di pena, io gli ho
ribattuto: “È un bambino di 11 anni e 6 mesi che tu non hai creato, è un
bambino di cui ti sei privato”. Quindi ho paragonato la pena ad un bambino, la
lunghezza di una pena all’età di un bambino, sono gli anni che vengono a
mancare nella vita di una persona, gli anni anche di confronto con la famiglia
reso impossibile dal carcere. Io per questa mancanza di confronto ho sofferto
molto e ho accusato i miei fratelli di questo.
Dopo
tante riflessioni però, la mia cultura mi ha portata anche al perdono e a
sperare che mio fratello Daniele perdoni se stesso di aver fatto del male.
Spezzare le catene del male significa innanzitutto perdonare se stessi e
successivamente, in un graduale percorso di risocializzazione, chiedere perdono
alle proprie vittime e ai propri famigliari.
Vorrei
poi ricordare che vi sono reati che si commettono senza rendersene conto, in una
situazione di incoscienza, quando si è giovani soprattutto. Ai giornalisti
vorrei chiedere di non infierire così tanto nel sottolineare il fatto che una
persona è di nuovo tornata a commettere un reato.
Se
vogliamo veramente che le persone non reiterino i reati, ci deve essere un bel
percorso di rieducazione, e un investimento da parte dello Stato in questo
senso, quindi meno costruzione di galere e più carcere di qualità, più
carcere rivolto alla rieducazione, attraverso esperienze di riflessione come
questa che consentono il confronto fra gli autori e le vittime di reato. Credo
che le persone detenute che hanno parlato prima stiano davvero cercando di
migliorare se stesse.
Io
ringrazio di aver potuto vivere quest’esperienza dolorosa, perché mi ha dato
la possibilità di guardare alle altre persone con occhi diversi.
“Se
adesso noi lo abbandoniamo, lui non ce la farà”
di Edlira G., sorella di Gentian G., detenuto
Mi
chiamo Edlira, sono la sorella di Gentian, prima di tutto chiedo scusa per il
tremolio della voce, perché per me è la prima volta che parlo davanti a un
pubblico, in secondo luogo perché esternare le mie sofferenze non è facile.
Proprio
la difficoltà di affrontare una situazione del genere mi ha spinta a tenere
nascosto il fatto che Gentian era stato arrestato e che si trovava in carcere
per un bel po’ di tempo ai miei genitori. Premetto che sono tutti e due
laureati, tutti e due insegnanti, quindi hanno una certa posizione, specialmente
il papà che nella mia città e nel mio Paese, l’Albania, è conosciuto per
due suoi punti di forza: correttezza e onestà.
Il
fatto che Gentian sia finito in carcere ha posto mio padre di fronte alla
sconfitta di non essere stato capace di trasmettergli i valori in cui credeva
fermamente. Quando, con la mediazione di mia mamma, gli ho detto cos’era
successo a Gentian, la sua reazione è stata durissima, lì per lì l’ha quasi
rinnegato, ha detto “Lui non è mio figlio, perché io non ho cresciuto un
figlio che va in carcere”.
Io
per sdrammatizzare gli ricordavo che sbagliare è umano, e cercavo di
convincerlo dicendogli: “Se adesso noi lo abbandoniamo, come va a finire lui?
Non ce la farà, perché come ci hai insegnato anche tu papà il perdono e
l’amore sono le due cose fondamentali della vita. Quindi dobbiamo perdonarlo e
amarlo, perché solo con l’amore capirà che ha sbagliato e cercherà di
rimediare”.
Non
ce l’ho fatta subito a convincerlo, gli ho solo detto che non l’avrei
abbandonato e cosi ho fatto. Da più di cinque anni vengo in carcere ogni sabato
con la mia famiglia, ho due bambini che adesso hanno quattordici e dieci anni,
ma all’epoca avevano otto e quattro anni.
Li
ho sempre portati qui per stare con lo zio, perché volevo che a lui non
mancasse l’affetto della famiglia, e oggi mi dico che ho fatto benissimo,
perché mio fratello ce l’ha fatta, ce la sta facendo e io dico che l’amore
è la cosa che guarisce ogni male. Tutti possiamo sbagliare, perché la vita ci
pone in condizioni diverse, però il modo in cui mio fratello ha affrontato la
sua carcerazione è stato positivo: si sta laureando e dà esami a raffica con
un’ottima media, scrive per Ristretti Orizzonti, che ringrazio per avergli
dato la possibilità di esprimersi e di far vedere che lui vale, ha dei valori,
e io dico che, sembrerà un paradosso, ma mio fratello è un buon esempio anche
per mio figlio adolescente che ha oggi quattordici anni.
È
un buon esempio prima di tutto per la realtà dei fatti, quando andiamo in
Albania noi ci riuniamo tutti e Gentian manca, in ogni festa famigliare
Gentian manca e mio figlio vede questo e capisce cosa vuol dire sbagliare, cosa
si perde.
Un
altro punto di vista è quello morale, perché lui vede che suo zio, sebbene sia
qui dentro, si sta laureando, scrive, quindi è bravo, allora dice: “Devo fare
cosi”, nel senso che si rende conto che deve cercare di non fare la prima
cosa, commettere reati, ma deve fare la seconda, crescere culturalmente,
dedicare tempo allo studio.
Io
non so più cosa dire, però so che per i miei genitori questo è anche un punto
di orgoglio, cioè mio papà, che all’inizio l’ha presa nel modo più duro,
più negativo che possa esistere, adesso quando parla con Gentian, dopo che lui
ha dato gli esami e gli dice il voto che ha preso, dopo avergli detto bravo gli
dice “grazie”. Perché? Lui per il nostro rendimento a scuola ha sempre
voluto il meglio. Quindi vede che suo figlio ce la sta facendo, e allora capisce
che anche lui, da padre, a sua volta ha sbagliato, quindi sbagliare è facile
per tutti. Ha sbagliato perché voleva rinnegarlo, e invece mi abbraccia e mi
ringrazia per non averlo abbandonato.
Io
due anni fa ho dovuto ottenere, molto faticosamente, un visto perché loro
venissero a trovarlo, non solo per i miei genitori, ma anche per la fidanzata di
Gentian, una bravissima ragazza che lo sta aspettando da sei anni, anche lei
laureata, e siccome per lei il visto era previsto solo per una settimana e per i
genitori un mese, purtroppo le ore al mese di colloquio erano solo 6, se le sono
dovute spartire, ovviamente dando la precedenza a lei. Quindi due ore a loro e
quattro ore lei.
Con
il mio racconto volevo anche chiarire che tra noi stranieri, perché, sebbene io
adesso abbia la cittadinanza italiana, rimarrò sempre una straniera, non c’è
solo il cattivo. Anche noi siamo figli di famiglie normali, istruite o no, però
siamo figli di famiglie normali come le vostre, tra noi c’è il buono e il
cattivo, d’altronde come qui da voi e come in tutto il mondo. Quindi per
favore cercate di vedere anche il buono.
Ci
siamo trovati dalla sera alla mattina sbalzati sulle pagine di giornali
di Silvio Lonardi, padre di Vanni Lonardi, detenuto
Ero
venuto con l’intenzione di parlare di tante cose, però ho ascoltato molti
interventi e ho capito che questo incontro è basato sul confronto,
sull’amicizia, sulla famiglia, e tutto quello che può essere utile e
costruttivo per far sì che i nostri ragazzi e i nostri famigliari, che sono qui
dentro in questo momento difficile della loro vita, possano intraprendere un
percorso, che gli possa garantire un futuro più sereno.
La
famiglia, dove vivo e dove opero, è una famiglia di gente contadina, che è
cresciuta in un mondo contadino: veniamo dalla bassa veronese e successivamente
ci siamo trasferiti un po’ più a nord, sul lago di Garda. La mia è una
famiglia che ha sempre vissuto del proprio lavoro, è sempre stata unita, prima
e ancora di più adesso, perché la famiglia è il punto di riferimento per
tutti noi.
Ci
siamo trovati dalla sera alla mattina in una situazione difficilissima, sbalzati
sulle pagine di giornali che dicevano uno una cosa e uno un’altra, tra amici
che ti lasciavano per strada e che cercavano di non incontrarti per non parlare
di questa situazione, aggiungo anche qualcuno della parrocchia che cercava di
non farsi vedere per evitare il confronto.
Ma
per noi quello che è stato importante sono gli amici veri, i parenti, tutti
uniti abbiamo trovato la forza di reagire a questo momento difficile e di
comprendere l’errore di nostro figlio.
Abbiamo
tentato anche un confronto con la parte offesa, questo è stato il nostro primo
pensiero, arrivare subito a un confronto per comprendere quello che era
successo, quella della vittima era una famiglia come la nostra, eravamo spesso
insieme, ci conoscevamo tutti sin da bambini, come accade nei piccoli paesi, e
quindi era molto difficile anche poter schivare questi contatti.
Questo
percorso ci ha fatto capire molte cose, prima fra tutte che la famiglia è un
punto di riferimento che serve per vivere e sopravvivere, e anche per spingere
le persone ad essere unite e ad aiutarsi le une con le altre.
Un
po’ di dignità per i detenuti e i loro famigliari
di
Katia Bergantoni, compagna
di un detenuto
Sono
la compagna di un detenuto che da undici anni si trova in carcere, mia figlia
aveva nove anni quando lui è stato arrestato. Sono orfana di genitori, e mi
sento abbandonata un po’ da tutte le istituzioni, servizi sociali,
educatrici...
Naturalmente
è molto dura crescere una figlia da sola, mi ha mandato avanti la forza di
stare ancora con il mio compagno, perché ho solo lui, l’ho conosciuto che
avevo sedici anni. Mia figlia adesso ne ha venti, viene poco a trovare il padre
perché lavora, e siamo sole, sole e dimenticate da tutti.
Il
mio compagno è nei termini per tutti i benefici, e ha sempre avuto un
comportamento corretto, ci sono i benefici ed è giusto che li diano, lui
potrebbe uscire in permesso perché gli mancano undici mesi e poi finisce la
pena. Invece dopo undici anni non ha ancora avuto un permesso, l’assistente
sociale ha fissato l’appuntamento tra due mesi per poi fare un’equipe, come
dicono loro… fra due mesi mi manda a chiamare l’assistente sociale, poi un
altro mese ancora l’educatrice, poi il direttore del carcere, infine avrà
finito la pena ed uscirà solo.
Dobbiamo
dire anche questo, non solo le nostre sofferenze come hanno detto già gli altri
famigliari, dobbiamo dire che abbiamo bisogno di aiuto, di persone che ci
sostengano, anche una parola di conforto quando entriamo dentro il carcere,
perché le carceri di Roma non sono come questo di Padova, questo bisogna
prenderlo come modello.
A
Roma è molto diversa la realtà fra detenuti e famigliari. Che dire?
perquisizioni quando andiamo a trovare i parenti, umiliazioni, è dura, è dura
per me come compagna di un detenuto, ma sarà molto più dura per lui quando
uscirà dopo undici anni, per reati di tossicodipendenza. Tutti piccoli reati
che poi si sono accumulati e gli sono costati una condanna di undici anni. Chi
ci aiuta quando esce? Chi gli darà un lavoro?
Io
non dico di dare i benefici a chi non ne ha diritto, ma i benefici sono davvero
importanti. Nostra figlia oggi ha vent’ anni, lei e suo padre si conoscono
attraverso le lettere e il colloquio, ma non è una conoscenza vera. I colloqui
sono in mezzo a tante persone, non ti puoi scambiare un gesto d’affetto, devi
gridare per parlare e fare sentire le tue cose a tutti. Serve un po’ di dignità
pure per questi detenuti e per noi famigliari.
Tutti
noi siamo attori del male, tutti noi siamo vittime del male
di Adolfo Ceretti
Vorrei
solo proporre qualche breve riflessione su alcuni temi che sono stati toccati.
Prima
di tutto desidero rivolgermi a Silvia, che ho conosciuto qui a Padova due anni
fa: sono toccato dal percorso che ha svolto in questi due anni, profondamente
toccato. Il suo linguaggio è radicalmente mutato e questo mi fa dire che è
cambiato anche il suo paesaggio interiore. Sono portato a credere che
l’incontro con Ristretti Orizzonti e con le persone che animano questa
straordinaria esperienza sia stato decisivo.
Secondo
punto. Verità e giustizia: è stato detto molto correttamente che non può
esserci giustizia se non c’è verità. Una domanda che ci possiamo fare è
perché la verità collettiva è percepita come così essenziale, per esempio,
per i sopravissuti di un regime o per le persone che sono state vittime del
terrorismo – e anche per chi ha commesso degli atti di terrorismo, che molto
spesso a sua volta non conosce tutte le vicende in cui è gettato. Molti
pensatori, per esempio Stanley Cohen, sostengono che per le vittime della
tortura e di violenze la domanda di verità possa essere molto più impellente
della domanda di giustizia. Le persone che sono state torturate o che hanno
subito violenze, non desiderano automaticamente che i loro perpetratori di una
volta siano condannati e incarcerati. Desiderano innanzitutto che venga
riconosciuta la verità. Questo meccanismo mentale è una nozione misteriosa,
potente, quasi magica perché spesso quasi tutti sanno la verità, tutti sanno
chi erano gli aguzzini e che cosa facevano, loro sapevano che tutti sapevano e
tutti sapevano che loro sapevano.
Perché
allora questo bisogno di rendere esplicita la conoscenza?
La
risposta, scrive Thomas Nagel, sta nella differenza tra il concetto di
conoscenza e quello di riconoscimento. Su questo passaggio vi invito a
riflettere. Si ha “riconoscimento” quando la conoscenza viene ufficialmente
sanzionata ed entra sotto forma di discorso nella sfera pubblica e nel dibattito
pubblico. Noi sappiamo che per quanto riguarda alcune stragi e molte vicende del
terrorismo questo “riconoscimento”, almeno in Italia, non è ancora stato
possibile. Questa domanda continua a essere impellente per tutti noi, e non
possiamo certo accantonarla.
Una
terza questione riguarda i bambini, i minori con padri incarcerati. Vorrei
accennare molto brevemente a un progetto – finanziato e coordinato dalla
Regione Lombardia – che ho animato con alcuni Colleghi dell’Università
Cattolica di Milano, fra i quali la Professoressa Claudia Mazzuccato.
Nella
parte che ho seguito ho lavorato, ricorrendo anche alle pratiche di mediazione,
in una classe in cui studiavano alcuni ragazzini che si erano resi protagonisti
di episodi di bullismo, e ho coinvolto i loro compagni, le loro compagne, le
famiglie d’appartenenza (i cui padri erano detenuti o ex-detenuti) e gli
insegnanti. Qui ricorrono tutti gli aspetti del circuito transgenerazionale
della violenza: padri che hanno commesso reati e che sono detenuti, con
l’impossibilità di essere vicini ai propri figli con un ruolo educativo, e i
loro figli che a scuola si rilegittimano quali attori violenti.
Non
posso ovviamente spiegarvi analiticamente come si è strutturato questo
progetto, ma vorrei richiamare la vostra attenzione sul fatto che gli strumenti
concettuali che stiamo condividendo oggi consentono di comprendere quanto
abbiamo fatto in quel contesto, mostrando a ciascuno qual é la sua collocazione
dentro ad un circuito che si perpetua, e iniziando a far sì che ognuno si
percepisse non solo come “vittima”, ma quale “altro possibile” di una
comunicazione diversa. Questa è una sfida importantissima.
Quarto
punto. È stato toccato, tra gli altri da Agnese Moro, il tema del male, e sul
tema del male vorrei leggervi alcune parole che sono tratte da un film che si
intitola “La sottile linea rossa” – uno dei più intensi film di guerra
che siano mai stati girati.
È
la voce narrante a sussurrare: “Questo grande male... da dove proviene?
come ha fatto a contaminare il mondo? Da che seme, da quale radice è cresciuto?
Chi ci sta facendo questo? Chi ci sta uccidendo, derubandoci della vita e della
luce, beffandoci con la visione di quello che avremmo potuto conoscere? La
nostra rovina è di beneficio alla terra, aiuta l’erba a crescere, il sole a
splendere? Questo buio ha preso anche te? Sei passato per questa notte?”.
Un teologo, Walter Brueggermann, ha svolto alcune riflessioni che aiutano in
qualche modo a commentare le frasi che vi ho appena letto. Brueggermann scrive
che la vita non è un intrattenimento in giardino, ma un’ardua convivenza con
fratelli guardinghi, resa ancora più ardua dal contegno enigmatico di Dio. Le
nostre vite sono piene di disarmonie, di tensioni e di ombre. Dinanzi a questo
il nostro volto è spesso abbattuto e reagiamo talvolta o con impulsi violenti o
con una profonda depressione. Mi sembra che tutto ciò sia coerente con quanto
è stato sostenuto da Agnese Moro: tutti noi siamo attori del male, tutti noi
siamo vittime del male, e una delle esperienze più dolorose è quella di
rimanere congelati nell’esperienza di aver fatto del male o di aver subito del
male, senza riuscire a elaborarla.
Ancora
una volta ricorro a quanto hanno raccontato alcuni detenuti del carcere di
Bollate, i quali sono riusciti a restituire alcune immagini forse ancora più
intense di quanto vi ho appena letto: domandandosi come si fa ad uscire da
questo congelamento la loro risposta è stata che “nasce un’angoscia del
riparare quando si pensa che le cose non possano tornare come erano prima,
quando si pensa che nulla può essere fatto per modificare l’idea che gli
altri hanno di noi”.
Il
pensiero collettivo che stiamo costruendo è volto ad allontanare il rischio di
rimanere congelati nell’etichetta di carnefice o nell’esperienza di
vittimizzazione.
Ci
sarebbero tantissime altre riflessioni da proporre, ma è venuto il momento di
incontrare Ilaria Cucchi. Ilaria Cucchi è la sorella di Stefano. La vita di
Stefano è stata spezzata. Al dì là dei risultati della Commissione
d’inchiesta – che ho letto – le dinamiche di questa morte sono ancora
avvolte nel buio.
Ma
come è potuto accadere qualcosa di simile? E come si sarebbe potuto evitarlo?
La
prima risposta è che in dinamiche come quelle che riguardano la vicenda di
Stefano è sufficiente iniziare a rompere le catene di un’obbedienza cieca, di
un’obbedienza stupida, per restituire a ciascuno la consapevolezza che è
possibile interrompere l’orrore nel quale una persona sta precipitando, ahimè
con l’aiuto di tutti.
Io
non so se Ilaria condivide questo modo di guardare alla vicenda tragica di suo
fratello. Noi vorremmo sentire da lei, più che una versione dei fatti, come ha
vissuto questa esperienza, e che poi iniziasse a dialogare con Lucia Castellano,
che è la Direttrice del Carcere di Bollate e che tutti conoscono prima di tutto
perché è una donna straordinariamente sensibile ed intelligente, poi perché
ricopre il suo ruolo nel modo migliore.
A
Ilaria allora la parola per capire come da dentro queste pieghe si possa uscire,
e affinché non accada mai più!
Per
riuscire in qualche modo ad andare avanti è indispensabile avere delle risposte
di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, detenuto deceduto in ospedale per cause ancora da chiarire
Si
parla spesso di quanto la vita può essere cambiata, quando in una famiglia
qualcuno viene arrestato, la nostra vita è cambiata drasticamente, la vita mia
dei miei genitori in particolare, ma anche dei miei figli ai quali io adesso mi
trovo a dover dare delle risposte, e allora alla difficoltà del lutto, alla
“normale” difficoltà in questo caso si aggiunge la difficoltà a
comprendere il non senso di quello che è accaduto a Stefano, perché io ritengo
che sia una cosa assolutamente priva di senso.
Io
però sono intimamente convinta che tutto ciò che ci accade ce l’ha, un
senso, un senso che a volte in alcune circostanze non siamo in grado di
comprendere, ma che per comprendere è necessario capire che cosa è davvero
successo, e questo è il problema fondamentale in questo momento per quanto
riguarda la nostra famiglia.
Perché
al di la della giustizia che ci auguriamo possa arrivare, ma se e come arriverà
comunque è una cosa che non ci compete, il nostro problema principale in questo
momento è capire quello che è successo, arrivare alla verità, avere delle
risposte, perché ad oggi è tutto ancora molto confuso. Quindi per elaborare il
dolore e riuscire in qualche modo ad andare avanti è indispensabile avere
queste risposte.
Sicuramente
quello che abbiamo vissuto in prima persona, quello che ritengo abbia vissuto
Stefano in quegli ultimi sei giorni di vita, un lasso di tempo che è brevissimo
e con degli spostamenti molto chiari e netti, è sicuramente un grande senso di
abbandono, di solitudine, del non rispetto più totale di quelli che sono i
diritti fondamentali dell’essere umano.
In
quelle condizioni Stefano ha concluso la sua vita e con quelle stesse modalità
all’inizio hanno cercato di approcciare noi come famigliari, quindi non
dandoci delle risposte, dicendoci “Stefano si è spento”, ma le cose non
stanno cosi e noi abbiamo deciso di andare avanti, perché volevamo restituire
dignità alla sua morte e perché, lo ripeto, è fondamentale per noi avere
delle risposte.
Nel
fare questo però ci rendiamo perfettamente conto, e lo abbiamo sottolineato in
ogni occasione, che se c’è qualcuno che in questa situazione ha sbagliato,
quel qualcuno è una persona, sono delle persone, dei singoli, e non è
sicuramente l’intera istituzione.
Io
ritengo che sia fondamentale che le istituzioni intervengano, proprio per una
questione anche di rispetto nei confronti di tutti coloro che invece svolgono un
lavoro cosi complicato, come la Polizia penitenziaria, come gli stessi medici,
in maniera dignitosa, rispettando la vita umana, che è un concetto fondamentale
che non deve mai venir meno. Intervengano magari individuando quelle
responsabilità e non coprendole, perché coprire vuol dire che in qualche modo
domani qualcun altro si sentirà legittimato ad agire nella stessa maniera. E
allora se tutto quello che stiamo facendo, questa battaglia, sicuramente non
potrà restituirci Stefano, mi auguro potrà evitare che capiti in futuro, potrà
forse essere l’occasione per una presa di coscienza da parte di tutti.
Credo
che qualcosa stia già avvenendo, qualcosa è cambiato, e proprio per
sottolineare che se c’è una responsabilità è una responsabilità di
singoli, e che noi da parte delle istituzioni abbiamo ricevuto testimonianze di
solidarietà, di vicinanza, ricordo la stessa indagine del Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria, che ha portato a dei risultati, ha portato
ad aggiungere maggiori informazioni a quella che è l’indagine della Procura.
Ma
per noi è importante anche semplicemente un gesto per dire “Non siamo tutti
cosi”, questo io veramente ci tengo a sottolinearlo, dopo di che voglio dire
che quello che è capitato a noi, a Stefano, può veramente succedere a
chiunque, perché mai nella vita avrei potuto immaginare che potesse capitare a
noi, si tende un po’ tutti forse, anche per una sorta di autodifesa, a dire
“Tanto se era in carcere, qualcosa aveva fatto, in qualche modo se l’era
meritato”.
Indubbiamente
mio fratello aveva sbagliato, come tante persone sbagliano, chiunque di noi può
sbagliare, mio fratello però doveva pagare in maniera diversa, e io mi auguro e
ho piena fiducia che, a questo punto, qualcuno se ne sia reso conto, e che alla
fine ci arriverà una qualche giustizia.
Capire
dove e quando la comunicazione con le Istituzioni ha iniziato ad
“accartocciarsi”
di Adolfo Ceretti
Ilaria,
naturalmente il mio non vuole essere un intervento da… Pubblico Ministero per
cercare dì saperne di più, né ovviamente voglio costringerti a dire qualche
cosa in particolare, però l’invito a dialogare con Lucia Castellano va nella
direzione di aiutarci a capire dove e quando la comunicazione con le
Istituzioni, che sono fatte di persone, ha iniziato ad “accartocciarsi”,
dove e quando tu e i tuoi genitori avete cominciato a sentirvi soli, incapaci di
raggiungere Stefano. A me ha colpito tantissimo la lettura di come è avvenuta
la perquisizione, quando Stefano torna a casa accompagnato da chi la doveva
svolgere. Ho letto anche che Stefano era piccolo di statura – era alto un
metro e sessantatre –, non era anoressico come è stato scritto, e ho cercato
di immaginarmi questo ragazzo che torna a casa accompagnato dalle forze
dell’ordine, e che poi deve prendere ciò che gli servirà in carcere, e se ne
va. Voi lo vedete andare via. Poi cominciate a chiedere qualche cosa di lui… e
non vi viene restituita alcuna risposta.
Allora,
quando è iniziata a mancare una risposta alle vostre domande, che cosa “non
ha funzionato”? Questo è ciò che vorremmo, se te la senti, che tu ci
raccontassi.
Bisognerebbe
vedere il detenuto principalmente come un essere umano
di Ilaria Cucchi
Sicuramente
in varie fasi è mancata una risposta chiara, infatti questo è stato l’enorme
problema di tutta questa situazione, ed è la cosa che ci ha creato più
incertezza fin dal principio, per cui già dalla sera dell’arresto c’è
stata questa poca chiarezza. Mia mamma e mio papà hanno anche chiesto:
“Dobbiamo chiamare l’avvocato?”, e gli hanno risposto “Non vi
preoccupate, è tutto a posto”. Dopo di che inizia la via crucis di mio
fratello e anche dei miei genitori.
Per
cui ci viene detto a distanza di 24 ore dall’arresto di Stefano che Stefano
era stato portato al Pronto Soccorso, noi lo conoscevamo Stefano stava bene non
aveva nessun tipo di problema, si era parlato di anoressia, Stefano era magro,
ma come sono magra io. Cosi non capivamo, non riuscivamo a spiegarci, per cui
molto ingenuamente la sera stessa i miei genitori si sono presentati
all’ospedale Sandro Pertini, chiedendo informazioni, ma ovviamente gli è
stato detto: questo è un carcere, non possiamo dare nessun tipo di
informazione.
Erano
due genitori preoccupati per il fatto che il proprio figlio era stato
improvvisamente ricoverato senza saperne il motivo e lì, diciamo si è alzato
questo muro, e poi è iniziato il pellegrinare continuo, giorno dopo giorno,
andando lì a chiedere di poter incontrare i medici. E venivano accampate ogni
giorno delle scuse diverse per non fargli incontrare i medici.
Non
solo non gli venivano date notizie su Stefano, ma addirittura gli veniva detto
che Stefano era tranquillo, quando sappiamo bene che non poteva essere
tranquillo, dopo tre giorni è morto.
Noi
ci rendiamo conto, è ovvio, che in una struttura penitenziaria ci sia una certa
burocrazia, ci siano dei protocolli, però io direi che in alcuni casi il lato
umano deve prevalere, soprattutto se si parla di una persona che sta morendo,
non si può consentire che questa persona, che comunque ha dei genitori che sono
lì a chiedere notizie, possa morire improvvisamente da sola, senza un sostegno
morale, un conforto religioso, come se fosse un animale.
Questo
non si può permettere. Allora forse quello che manca di più, a mio avviso,
anche se la mia sola esperienza di carcere è quella circoscritta a questi
ultimi sei giorni di mio fratello, a mio avviso quello che manca è il lato
umano, vedere il detenuto principalmente come un essere umano.
Perché
è un essere umano come tutti gli altri ed ha diritto a tutto ciò che si
garantisce agli altri.
Capire dove le persone cominciano a perdere la loro umanità
di Adolfo Ceretti
Ora
desidero chiedere a Lucia Castellano, della quale conosciamo la straordinaria
sensibilità, dove, a suo modo di vedere, le persone cominciano a perdere la
loro umanità, e quali meccanismi si mettono in moto in un ambito come quello
penitenziario.
La
morte di Stefano non ha a che fare, difatti, con violenze collettive, con
contesti che rimandano a delle ideologie forti, ma è un gesto che nasce in
dinamiche minuscole che però non si è stati capaci di spezzare, arrivando così
a questa “tragedia”.
Le
istituzioni devono farsi contaminare dall’umanità della persona che hanno di
fronte
di Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate
Per
me è molto difficile essere vicina a Ilaria Cucchi e praticamente parlare con
lei, senza provare per l’Amministrazione che rappresento quanto meno un senso
di inadeguatezza, non so come dire, sono veramente in seria difficoltà in
questo momento, non tanto come Lucia Castellano, ma come dirigente
dell’Amministrazione Penitenziaria.
In
questo caso, nel caso Cucchi, personalmente mi sono tenuta distante, nel senso
che io non ho letto i giornali, perché ognuno di noi ha poi la sua psicologia,
ed io mi sono tenuta distante da questo proprio perché è stato un episodio
troppo terribile per poter essere approfondito e commentato. Infatti quando mi
è stato chiesto di dialogare con Ilaria Cucchi ho pensato che per me era
veramente un grosso sforzo.
Io
credo che le situazioni siano sempre molto complesse, da un lato c’è quella
che si dice la responsabilità penale, che è personale, e lì pagherà chi ha
sbagliato e come si dice con formula di rito “abbiamo piena fiducia nella
magistratura”, e questo è un punto. Ma un altro punto è la responsabilità
delle istituzioni, che è qualcosa di diverso, che va un po’ oltre la
responsabilità penale del singolo, non soltanto nel caso di Stefano Cucchi, ma
in altri casi in cui le Amministrazioni dello Stato avrebbero dovuto essere
trasparenti e non lo sono state, si sono trincerate di fronte a una catena che
comunque in qualche modo portava ad una deresponsabilizzazione collettiva, e
secondo me questo è l’errore più grande, al di là, ripeto, della
responsabilità personale.
Alessandro
Margara, che è il grande padre dell’esecuzione penale che tutti conosciamo,
disse che quando capitano queste situazioni, l’Amministrazione deve avere il
coraggio di andare a fondo al suo volto violento, perché noi siamo fatti come
persone di bene e di male, e anche come Amministrazione di bene e di male, e
soprattutto nel carcere il volto violento c’è e non è colpa del singolo
poliziotto o del singolo direttore. È colpa di un modo di concepire questo
lavoro o questa istituzione.
Ma
questo volto violento noi ce l’abbiamo insieme ad un altro volto, che è
invece il volto delle centinaia, delle migliaia di poliziotti che fanno il loro
lavoro, e ringrazio veramente Ilaria Cucchi per averlo sottolineato, delle
centinaia di direttori e di educatori di psicologi che fanno il loro lavoro. Ma
se noi quando capitano questi episodi non abbiamo il coraggio di andare a fondo
a quello che è successo, la parte buona dell’Amministrazione la soffochiamo,
in qualche modo la infanghiamo e non facciamo il suo bene.
Allora
secondo me bisogna fermarsi e capire perché, e qui ritorno a quello che diceva
Adolfo Ceretti, perché mi ha colpito molto quel termine “Ubuntu”, cioè
vedere l’umanità dell’altra persona, in qualunque situazione, e vedere
questa contaminazione tra la mia umanità in divisa e l’umanità di Stefano
Cucchi senza divisa o l’umanità del detenuto, l’umanità del parente del
detenuto.
Ma
questa contaminazione per noi, per noi carcerieri.., uso questa parola
soprattutto riguardo a me stessa, è sempre molto difficile, noi riusciamo
sempre a stare o sopra o sotto; allora quando abbiamo dei detenuti noi siamo
sopra e loro sono sotto e immaginate il rapporto umano, immaginate un rapporto
di relazione umana che non ci faccia non essere dei carcerieri, perché
purtroppo la realtà è quella, noi delle volte la viviamo come una
“diminutio”, come qualcosa che ci sminuisce, o come qualcosa che forse ci
espone a responsabilità.
Perché
noi abbiamo sempre la paura della responsabilità, la paura di quello che può
succederci se diciamo a una madre: “Signora guardi che suo figlio sta così…”,
se rispondiamo al telefono a un parente di un detenuto, se rispondiamo alle mail
che i parenti di un detenuto ci mandano.
Allora
dobbiamo spiegare che tutto questo non solo fa parte del nostro lavoro, ma è un
nostro preciso dovere, e invece siamo ancora un po’ indietro, riteniamo
appunto che sia una diminutio, che stiamo facendo uscire una cosa che non deve
uscire, un’informazione che non deve uscire, allora quali sono le
responsabilità? In realtà siamo ancora in una piramide troppo verticistica e
la contaminazione umana ci fa paura, e io credo che sia questo il grande
problema al di là del fatto che naturalmente chi ha sbagliato o chi sbaglia
pagherà.
Vedete
per me è stata molto formativa, lo raccontavo ad Ilaria prima, l’esperienza
del pestaggio di Sassari che ci fu nel 2000. Io ero direttore del carcere di
Alghero e furono arrestati dei poliziotti, fu arrestata la direttrice, insomma
è stato un episodio molto triste dell’Amministrazione Penitenziaria, ebbene
io vidi quei poliziotti, che fino a ieri avevano lavorato con me, diventare
detenuti nel mio istituto. Ebbi proprio questa sensazione del rapporto di forza
che si era completamente ribaltato, perché loro erano totalmente inermi nelle
mie mani, erano persone che conoscevano completamente il funzionamento del
carcere, eppure da detenuti erano totalmente straniti, in balia di questo potere
assoluto che noi esercitiamo.
Allora
mi sono chiesta: “Ma è possibile che non si possa realizzare invece il senso
profondo della parola che citava prima Adolfo Ceretti, cioè questa
contaminazione umana, che è semplicemente una contaminazione umana, non è
niente di pericoloso per la sicurezza, anzi la sicurezza se ne beneficia, perché,
nel momento in cui il detenuto ha fiducia nell’Istituzione, aiuta
l’Istituzione a funzionare e non l’aiuta alla maniera carceraria raccontando
quello che succede, ma aiuta perché crede che quel tempo che ha trascorso lì
è stato un tempo sensato.
Allora
io credo che noi dobbiamo come Amministrazione delle scuse alla famiglia Cucchi
e dobbiamo delle scuse a quelle famiglie con cui non ci siamo rapportati, non
l’abbiamo fatto così come tante volte, purtroppo, non lo fanno neanche negli
ospedali, per esempio. Io per motivi famigliari ho molta consuetudine con gli
ospedali e riesco a distinguere quando un ospedale ha un volto umano e quando
invece ha il volto del potere sul malato.
Allora
credo che le Istituzioni debbano scusarsi con i loro utenti tutte le volte che
non riescono a farsi contaminare, cosa che è anche molto difficile, ma
fondamentale, dall’umanità della persona che hanno di fronte, e a rispondere
con altrettanta umanità.
I
linguaggi di una giustizia mite
di
Adolfo Ceretti
Lucia,
ovviamente non hai tradito le aspettative, nel senso che era esattamente quello
che io e forse tutti i presenti aspettavamo che tu potessi dire. Aggiungo che lo
hai detto con le parole più appropriate.
Anch’io
non voglio puntare il dito contro nessuno, ma allo stesso tempo non voglio
retrocedere rispetto al fatto che qualcosa di terribile è accaduto. Ritengo che
il punto sul quale occorra riflettere ancora sia proprio quello “della catena
della deresponsabilizzazione collettiva”.
C’è
un momento in cui gli uomini iniziano a guardare altri uomini con occhi diversi,
con uno sguardo carico d’odio, per esempio, e lo fanno con consapevolezza. In
quel momento accade qualche cosa, rispetto alla quale fare un passo indietro e
fare in modo che le Istituzioni si organizzino per fare un passo indietro può
essere una grande conquista della civiltà democratica di un Paese.
In
quei contesti tutti cominciano ad avere paura di essere conniventi con una
catena di responsabilità. Nessuno osa iniziare a parlare e a dire che qualcosa
di terribile sta accadendo. Preferisce un’obbedienza cieca a una obbedienza
intelligente, ed è in quegli interstizi che accadono delle tragedie terribili,
davvero terribili.
La
grazia con cui Ilaria Cucchi ha raccontato di suo fratello testimonia che è
sintonizzata con queste tematiche e con i linguaggi di una giustizia mite. La
risposta di Lucia Castellano ci ha aiutato a fare un altro passo verso
quest’ultimo obiettivo. Chi ha commesso il delitto non può, ovviamente,
essere sottratto alle sue responsabilità penali, ma l’invito di Lucia è di
essere pronti, tutti noi, a non affidarci esclusivamente a risposte che, a loro
volta, emarginano e rispondono con il male al male.
Grazie
a entrambe, grazie davvero.
So
che sono presenti anche i genitori di Ilaria, che salutiamo con un calorosissimo
applauso.
La
seconda parte della giornata è dedicata a un tema molto vicino a quelli
affrontati nel corso della mattinata. Sarà un momento meno esperienziale ma gli
argomenti che saranno toccati sono di alto, di altissimo profilo. “Offesa e
riparazione: per una nuova giustizia attraverso la mediazione” è il
titolo che gli organizzatori hanno dato a questa prima parte degli interventi
pomeridiani, affidati a Marco Bouchard e Laura Vaira.
Marco
Bouchard è magistrato e insegna Diritto Penale nell’Università del Piemonte
orientale. Ha scritto due libri molto importanti e apprezzati da chi parla: “Offesa
e riparazione”, in collaborazione con Giovanni Mierolo, e “Sul
perdono. Storia della clemenza umana e frammenti teologici”, in
collaborazione con Fulvio Ferrario. Entrambi entreranno sicuramente nella sua
conversazione.
Ho
conosciuto Marco a metà degli anni 90 a Torino. Marco è stato il primo
pioniere della giustizia riparativa in Italia, il primo a parlare di mediazione,
sempre con una particolare attenzione alla questione delle vittime dei
reati.