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Perché
questa giornata? Ristretti
Orizzonti ha organizzato nel 2009, all’interno della redazione nella Casa di
reclusione di Padova, in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti del
Veneto, un seminario importante sull’esecuzione della pena e sul carcere, in
cui principali relatori sono stati le persone detenute e i magistrati di
Sorveglianza. Il seminario, per giornalisti, praticanti, operatori nell’ambito
dell’informazione verrà ripetuto quest’anno. Al centro ci sarà il concetto
che un’informazione diversa è possibile, proprio a partire da una idea quasi
rivoluzionaria, che è quella che non siamo tutti solo potenziali vittime, siamo
anche potenziali autori di reato, o loro famigliari. Per questo vogliamo dare la
parola per primo a Gianluca Amadori, presidente dell’Ordine dei giornalisti
del Veneto. Noi
giornalisti dobbiamo tornare a studiare, tornare ad aggiornarci di
Gianluca Amadori, Presidente dell’Ordine
dei giornalisti del Veneto
Noi
come Ordine dei giornalisti, insieme a Ristretti Orizzonti, abbiamo avviato una
iniziativa molto importante, abbiamo cioè portato dei giornalisti a partecipare
a dei seminari di formazione all’interno del carcere, per far crescere la
sensibilità su questi temi e fare in modo che i giornalisti possano affrontare
anche da altri punti di vista, con maggiore completezza e con maggiore
preparazione possibile, i temi della giustizia, dell’esecuzione della pena e
del carcere. Io
credo che ci sia da lavorare tanto, perché noi giornalisti dobbiamo tornare a
studiare, tornare ad aggiornarci, ad essere preparati, a sapere di cosa
scriviamo, e non sempre questo accade, e se non accade è un po’ per colpa
nostra, un po’ per colpa di quegli editori che preferiscono dare due euro al
primo che passa per strada invece che formare dei giornalisti preparati. Questo
è uno dei temi che la gente deve sapere. Ci sono editori purtroppo che non
vogliono giornalisti preparati, noi giornalisti invece vogliamo essere preparati
e queste iniziative che stiamo facendo con Ristretti Orizzonti vanno esattamente
in questa direzione. Speriamo
di continuare e speriamo di far crescere una sensibilità per una informazione
più corretta, più precisa, più attendibile, che ci racconti le cose come
stanno senza avere pregiudizi, e lo faccia nella maniera più onesta e leale
possibile. Spetta
alle persone detenute aprire questa Giornata di studi andando subito al cuore
del problema, la responsabilità di fronte alle vittime dei loro reati e alle
vittime meno dirette, meno facilmente “riconoscibili”, che sono le loro
famiglie.
La
rabbia e il dolore dei nostri famigliari per quanto stanno subendo a causa
nostra di
Sandro Calderoni, Ristretti Orizzonti
Partecipare
in carcere ad un convegno in cui io detenuto devo intervenire chiedendo che
divenga più umano il trattamento riservato ai nostri famigliari, quando in
questa sala ci sono vittime e famigliari di vittime che hanno subito reati, mi
mette un po’ in imbarazzo. Come autore di reati, mi è sempre stato molto
difficile affrontare questi temi, ma grazie proprio al lungo percorso che ho
intrapreso ascoltando e confrontandomi con alcune vittime, ho cercato di farlo,
e ho capito che ho reso vittime anche i miei famigliari, perché li ho costretti
a subire critiche e pregiudizi, a causa del mio comportamento asociale ed
egoista. Certo vittime che comunque hanno “scelto” di esserlo per amore,
l’amore per una persona detenuta di un genitore, di un fratello o di una
sorella, di una moglie, di un figlio, una figlia, un amore che ha permesso loro
di superare quelle forme di cattiveria e di rabbia, che potevano essere dettate
dal rancore nei nostri confronti, e di andare oltre, anche quando sono rimaste
coinvolte in sofferenze e delusioni, e costrette a condividere la nostra
reclusione. Ed
è proprio per questo che, di fronte a persone che vittime non hanno certo
voluto scegliere di esserlo, vorrei cercare di far comprendere che è proprio il
confronto, l’ascolto, lo scambio reciproco di emozioni, lo stesso percorso che
da anni condivido con alcune vittime, che permette ad una persona che ha
sbagliato di acquisire consapevolezza e responsabilità verso i propri cari. Un
percorso che inevitabilmente deve essere fatto anche per i propri famigliari, e
che serve prima di tutto a dar loro la possibilità di capire le ragioni dei
nostri errori, e anche del nostro egoismo, e di dar sfogo al loro dolore e alla
rabbia per quanto stanno subendo a causa nostra, e questo è possibile farlo
solo ascoltandoci a vicenda. Ma
come può avvenire un simile percorso in carceri dove i colloqui si svolgono in
sale affollate e solo per un’ora alla settimana, dove i discorsi importanti si
perdono nella confusione e finiscono al momento sbagliato, solo per l’unica,
stupida ragione che l’ora di colloquio è finita?
Le
nostre famiglie non devono essere messe sul nostro stesso piano di
Maurizio Bertani, Ristretti Orizzonti
Sono
in carcere per delle rapine, frequento la redazione di Ristretti Orizzonti da
ormai più di tre anni, ed è al suo interno che è nato il confronto con le
vittime, vittime che hanno subito reati. Con
il tempo però abbiamo capito che sono vittime anche le nostre famiglie, che non
hanno subito direttamente i nostri reati, ma che vengono equiparate a quello che
siamo noi e costretti a fare il nostro stesso percorso di rieducazione. Eppure
le famiglie non hanno niente a che vedere con tutto questo, perché non hanno
commesso nulla per cui dover retribuire, non devono essere messe sul nostro
stesso piano. Per
quanto riguarda invece il confronto con le vittime, credo che non si possa fare
a meno di un confronto tra le due parti, cioè la parte del reo e la parte della
vittima, perché se le teniamo divise, ciascuna per se stessa, nessuna delle due
parti potrà veramente capire fino in fondo quello che è successo, e ambedue
rimarranno invischiate in un sentimento di odio compresso. Penso
che questo sentimento possa essere superato solo attraverso il dialogo, solo
attraverso il confronto che porta gli autori dei reati ad assumersi la
responsabilità di quanto hanno fatto e le vittime a vedere in volto i detenuti
e, ascoltando le loro testimonianze, a dare un significato, almeno in parte
diverso, a quello che hanno subito. E forse, dico forse perché non ne sono
sicuro, anche ad avere delle risposte alle tante domande che una vittima si
pone. Ecco,
all’interno di questo confronto fra autori di reati e vittime, c’è la
possibilità che le vittime trovino delle risposte, e se avviene questo, molto
probabilmente avviene anche quello che possiamo definire un ridimensionamento di
ciò che è l’odio, e quindi del male tra l’una e l’altra parte.
Chi
è più infame di una persona che volutamente ha tradito la fiducia dei propri
figli? di
Oddone Semolin, Ristretti Orizzonti
Io
vorrei fare una riflessione su quelle che ritengo le vittime senza volto, di cui
si parla poco o addirittura non si parla affatto, parlo dei nostri figli, i
figli delle persone detenute. Chi
come me si trova in carcere perché ha volutamente, coscientemente violato la
legge, quindi ha messo a repentaglio la propria libertà, oltre alla
responsabilità sociale per cui sta pagando ora, ha una responsabilità
enormemente più grande, ha la responsabilità di avere minato in maniera
indelebile la formazione del carattere e della personalità dei propri figli. Io
mi ricordo quando ero libero e cercavo di colmare le mie lacune come genitore,
dando loro qualche regalo, dei jeans firmati, una maglietta, piuttosto che il
motorino. Quando
purtroppo ci si ritrova in carcere, nudi e soli di fronte alle nostre
responsabilità, ci accorgiamo del disastro che abbiamo fatto, del vuoto anche
affettivo che abbiamo lasciato. Purtroppo ora non possiamo che attaccarci a
poche cose, possiamo fare la telefonata, la lettera, il colloquio e questo
compatibilmente con gli impegni scolastici dei bambini. Una
parola che ricorre spessissimo qui in carcere è la parola infame, infame per
definire chi ha tradito il nostro sodalizio criminale, infame per chi non ha
rispettato le nostre aspettative, le nostre attese, per chi è passato
dall’altra parte. A
volte mi chiedo chi possa essere più infame di una persona che volutamente ha
tradito la fiducia dei propri figli, è partendo da questa consapevolezza che
oggi cerco di ricomporre il mio “mosaico affettivo”. Per quanto mi riguarda,
è partendo da questa consapevolezza che cerco di fare di tutto e di più, tutto
quello che non ho fatto prima. Io
mi rendo conto che è tanto paradossale quanto triste fare una affermazione del
genere ora che sono qui, però io credo che partendo dalla consapevolezza di
questa situazione si possa finalmente riacquistare un minimo di dignità, e che
questo sia fondamentale per il nostro cambiamento. Pensate
a una persona che esce dal carcere dopo anni di galera, oltre alle difficoltà
oggettive che si trova di fronte, probabilmente trova il proprio nucleo
famigliare disgregato, perché il carcere è anche questo, è un indebolimento
dei legami che molte volte causa la disgregazione totale della famiglia. Con
questa prospettiva questa persona sarà una bomba ad orologeria per la società.
Quello
che mi sento di chiedere davvero è di sostenere e di promuovere tutte quelle
iniziative che favoriscono il rapporto di noi detenuti con i figli. Non è una
forma di buonismo, credo che sia una garanzia per la parte buona della società,
per la parte sana della società. Noi
non cerchiamo compassione, non la cerchiamo e non la vogliamo, quello che
chiediamo è anche un modo per garantire la sicurezza. Oggi si parla di
costruire nuove carceri, finisce in carcere anche chi ha fatto una scritta sui
muri, ma non si parla mai di investire sull’uomo. Credo invece che questa sia
una via fondamentale da percorrere, affinché un domani noi possiamo essere
persone diverse, veramente diverse, in maniera sincera, duratura, e i nostri
figli invece di essere un potenziale pericolo per la società, perché sono
stati pesantemente segnati da noi, possano costituire, per la comunità tutta,
una risorsa.
Se
penso al dolore causato a mia moglie e a mia figlia, le scuse sarebbero sempre
poco
di Dritan
Iberisha, Ristretti Orizzonti
Sono
ormai quattro anni che frequento la redazione di Ristretti Orizzonti e mi
ricordo sempre i primi tempi. Vedevo discutere e mi affrettavo a giudicare le
cose che gli altri detenuti dicevano. Vedere tutte quelle persone sedersi
intorno ad un tavolo e discutere sui reati e sulle responsabilità era una cosa
nuova per me e non ne capivo il senso. Pensavo che ognuno di noi faceva le cose
per scelta personale e poi ogni ragionamento si doveva fare da soli, e non in
mezzo a venti o trenta persone. Loro parlavano di responsabilità verso gli
altri e tutto questo discutere mi sembrava un po’ illogico, perché ero
convinto che la responsabilità delle cose che ho fatto fosse verso me stesso,
verso il mio orgoglio e il mio onore. Poi, piano piano, a sentire i ragionamenti
degli altri per settimane e mesi, ho cominciato a riflettere anche io sulle
stesse questioni. Ma
la cosa che più mi ha fatto riflettere è stato guardare come si svolgeva il
progetto con le scuole. Dico guardare perché i primi tempi evitavo il confronto
con gli studenti. Ascoltavo gli altri detenuti che raccontavano la loro storia
ai ragazzi e non capivo tanto il senso di questo raccontare e rispondere a tutte
le domande che i ragazzi facevano. Poi ho cominciato a pensare che quei ragazzi
avevano più o meno l’età di mia figlia e fare questo confronto mi ha posto
in una posizione difficile. Mi sono convinto che prima o poi mi sarei ritrovato
di fronte a mia figlia e che mi avrebbe fatto domande così difficili. Allora mi
è sembrato giusto decidere anch’io di confrontarmi con i ragazzi delle
scuole, convinto che sarebbe stato di aiuto non solo a loro ma anche a me
stesso, perché se le domande che gli studenti facevano ai miei compagni della
redazione me le avesse fatte mia figlia, dovevo imparare ad assumermi le mie
responsabilità senza nascondermi dietro le false ideologie di una mentalità
primitiva come la mia. Ho
immaginato di essere di fronte a mia figlia, che chiedeva “papà cosa hai
fatto?”. Con un po’ di imbarazzo ho cominciato a raccontare alle classi il
motivo per cui sono finito qui dentro. Dicevo di essere stato condannato per un
reato “gravissimo”, un duplice omicidio, nei confronti di due miei
connazionali, una cosa nata in un contesto all’interno di faide famigliari in
Albania. Insomma parlavo della vendetta. Raccontavo il pericolo della mentalità
“dell’occhio per occhio, dente per dente”. Raccontavo come questo odio era
stato inutile e mi aveva fatto sentire male, finché poi dall’Albania mi è
giunta la notizia che il padre di una delle vittime aveva deciso di chiudere la
faida all’interno delle nostre famiglie. E cercavo di spiegare quanto il
perdono a volte fa riflettere più dell’odio. A
volte poi finivo per raccontare dell’affetto che provavo per mia moglie, ma
soprattutto per mia figlia, e questo portava i ragazzi a farmi delle domande su
di loro. Spesso mi sono trovato in difficoltà a rispondere perché non mi ero
mai posto il problema di dover dare delle spiegazioni a mia figlia o a ragazzi
della sua stessa età. Anzi, avevo sempre creduto di essere stato nel giusto e
che nessuno poteva giudicarmi male. Ma
di fronte alla mia difficoltà di capire le domande dei ragazzi, Ornella ha
voluto che affrontassimo questa questione in redazione. È nata una discussione
perché alcuni ragionamenti mi sembravano troppo personali, e io non volevo che
si entrasse nel merito del rapporto che ho con mia figlia, però poi con il
passare del tempo ho cominciato ad accettare il confronto. E alla fine sono
giunto alla conclusione che non posso trovare giustificazioni nei confronti di
mia figlia. Con le mie azioni non ho fatto del male solo a quelli che
consideravo miei nemici, ma ho fatto del male anche alle persone a me care. Ho
procurato e continuo a procurare dolore a mia figlia, che ho lasciato che era
piccolissima e che ha trascorso la sua vita da bambina, da adolescente e ormai
da ragazza matura, senza di me, o meglio con un padre che può vedere solo
dentro le sale colloqui del carcere, in visite che durano per un totale di poco
più di dieci ore all’anno. Ho fatto del male anche a mia madre e ai miei
fratelli, ai quali ho negato la presenza di un figlio e di un fratello, a mia
moglie che ha dovuto crescere nostra figlia da sola e senza la presenza di suo
marito accanto. Mia
moglie ha fatto da madre e da padre a mia figlia Tutti
questi ragionamenti mi hanno costretto a riflettere e riconoscere anche il male
che ho procurato ai famigliari delle persone che ho ucciso, e mi rendo conto
che, per tanto che oggi potessi o volessi fare, non riuscirei mai neanche
lontanamente a ripagarle delle sofferenze che hanno vissuto. Con
questa consapevolezza ho cominciato a raccontare ai ragazzi non solo il mio
reato, ma anche i sensi di colpa che provo nei confronti di mia figlia e di mia
moglie perché oltre ad essere sole, devono affrontare mille difficoltà per
venire a fare i colloqui con me. Infatti ogni colloquio prevede dei costi alti,
tanto tempo e tanti soldi. Alzarsi di notte, viaggiare con i treni, affrontare a
volte umiliazioni e stress all’entrata del carcere sono dei sacrifici enormi.
Ricordo che una volta mia figlia, era ancora piccolissima, appena è entrata
nella sala colloqui mi ha abbracciato e invece di raccontarmi di come andavano
le cose all’asilo, mi ha detto: “Papà, perché mi hanno tolto le
scarpe?”. Io le ho risposto dicendole una bugia, le ho fatto una battuta
spiegandole che volevano regalargliene un paio di nuove, e lei mi ha creduto, ma
io mi sono sentito umiliato, perché ti arriva una bambina di cinque anni
innocente, non ha fatto niente e la controllano, la spogliano, le tolgono le
scarpe. Da quel giorno quando mi dicono che vengono a colloquio io spesso
rispondo di aspettare, di fare magari il prossimo, perché c’è sempre in me
questa paura di dover far loro affrontare sofferenze e umiliazioni. Mia
figlia mi considera e mi chiama padre, ma non credo di poter essere chiamato così
visto che io il padre non l’ho mai potuto fare. Rivivere
tutte queste scene oggi, con la consapevolezza delle mie responsabilità, mi fa
sentire ancora più male, perché oggi so davvero cosa hanno sofferto per colpa
mia i miei cari. E allora il mio riconoscimento verso mia moglie diventa ancora
più grande quando penso che ha fatto da madre e da padre a mia figlia per farle
sentire il meno possibile la mia mancanza, che ha dovuto stringere i pugni e ha
continuato a starmi vicino facendo sacrifici enormi. Fino a ieri credevo di essere stato un uomo tutto d’un pezzo, ma oggi mi rendo conto di avere rovinato tante vite, prima fra tutte proprio quella di mia figlia, che ho messo al mondo e alla quale non ho potuto stare vicino. Chiedere scusa mi sembra poco. Il dolore che le ho causato è enorme e adesso mi rendo conto che loro pretenderanno da me una presa di consapevolezza e di responsabilità. So che lo meritano ma non so quanto io sarò capace di fare. E la cosa mi preoccupa. Comunque, quando verrà il momento di ritornare a casa, spero solo di riuscire a dimostrarmi un padre e un marito responsabile per non deluderle mai più.
Ha
un effetto dirompente far dialogare chi i reati li ha commessi e chi i reati li
ha subiti di
Marino Occhipinti, Ristretti Orizzonti
È
il terzo anno che in un modo o nell’altro c’è una presenza ai nostri
convegni in questo carcere diversa da tutti gli anni precedenti, e cioè quella
delle vittime o comunque la presenza dei famigliari delle vittime. Mentre due
anni fa al primo convegno in cui sono intervenuti famigliari di vittime siamo
rimasti ad ascoltare, quasi solo ad ascoltare, almeno parlo di noi detenuti,
perché ci siamo imposti davvero di imparare prima di tutto a metterci
all’ascolto delle vittime, l’hanno scorso abbiamo in qualche modo dialogato
e quest’anno abbiamo pensato di aprire un capitolo nuovo coinvolgendo anche i
famigliari dei detenuti. Noi
abbiamo un progetto con le scuole molto importante, che coinvolge moltissime
scuole medie e superiori Questi incontri con gli studenti sono davvero difficili
e faticosi, perche ci inchiodano alle nostre responsabilità, ci mettono di
fronte alla realtà, ci obbligano a riflettere e a essere schietti anche con il
nostro passato, almeno a essere schietti il più possibile. Sono degli incontri
in cui noi raccontiamo un po’ le nostre storie, quello che abbiamo fatto,
quello che i reati hanno comportato per le nostre famiglie e per la società. Qui
però ci sono anche dei famigliari delle vittime, Lorenzo Clemente, Maria Agnese
Moro, che vanno nelle scuole a raccontare la loro esperienza, anche se partono
ovviamente da una prospettiva completamente diversa, vanno a raccontare il loro
dramma, quello che hanno vissuto, quello che hanno patito. Allora
io mi chiedevo se queste due esperienze non si potessero in qualche modo unire e
pensavo, io sono condannato all’ergastolo per omicidio, che forse questo mio
desiderio nasce anche da quello che ho fatto e dal dolore che ho creato. Mi
chiedevo se non si potesse provare a fare qualcosa assieme. Già
viene fatto per esempio con giornate come queste, ma io pensavo anche a qualcosa
assieme con dei momenti di incontro, dei laboratori nelle scuole, ognuno
portando ovviamente la propria esperienza, perché credo che la cosa più
interessante che anche voi notate oggi, e negli altri due precedenti convegni,
è che siamo riusciti davvero a mettere a confronto e a far dialogare chi i
reati li ha commessi e chi i reati li ha subiti. Questo
credo che faccia riflettere, credo che sia dirompente, perché costringe ad
aprire degli altri orizzonti, costringe a vedere le cose anche sotto un punto di
vista, sotto una sfaccettatura diversa. Quindi sono convinto che in un periodo di cattiveria sociale, o comunque dove la cattiveria sociale è alimentata facilmente anche dalla stampa, far vedere qualcosa di diverso sarebbe importante non solo per noi detenuti, ma anche per la società fuori, sarebbe un balsamo salutare per tutti.
I
miei genitori mai avrebbero pensato che io un giorno sarei finito in carcere di
Gentian Germani, Ristretti Orizzonti
Io
da due anni partecipo agli incontri nell’ambito del progetto scuole, sia in
carcere che andando fuori nelle classi, grazie ai permessi premio. Durante
questi incontri, che non sono mai facili da affrontare per noi detenuti, molto
spesso mi capita di raccontare che, anche se sono un immigrato, anch’io come
tanti altri detenuti provengo da una famiglia normalissima, in cui mia sorella
è laureata, i miei genitori sono entrambi degli insegnanti, che mai avrebbero
pensato che io un giorno sarei finito in carcere per un reato di droga. Quindi
raccontando la mia storia cerco proprio di far capire che non bisogna mai
sottovalutare certi comportamenti a rischio. Durante questo percorso io ho visto tanti ragazzi cambiare molte delle loro idee, insieme a loro ho visto cambiare molti di noi. Insomma raccontando piccoli pezzi delle nostre esperienze non cerchiamo né di trovare compassione o giustificazioni e neppure di sminuire i nostri errori, ma semplicemente tentiamo di far capire ai ragazzi che molti di noi detenuti provengono da famiglie simili alle loro. Quindi le nostre storie hanno proprio come obiettivo quello di far capire che non esistono dei “predestinati al carcere”, e che a tutti può accadere di finire qui dentro.
Il
dolore che il carcere produce si estende anche alle nostre famiglie fuori
dall’Italia di
Elton Kalica, Ristretti Orizzonti
Io
vorrei raccontare come il carcere sia una macchina che produce sofferenza non
solo a noi, ma anche ai nostri cari che, mentre noi abbiamo comunque delle colpe
per essere qui dentro, invece di colpe non ne hanno. E vorrei anche raccontare
come questo dolore che il carcere produce si estenda anche fuori dall’Italia a
volte, attraverso le ambasciate, dove i nostri famigliari si presentano per
chiedere un visto per entrare in Italia a incontrare i propri cari. L’ultimo
ricordo che ho dei miei prima di andarmene dall’Albania risale a quando avevo
appena finito il liceo e loro erano in cucina a discutere in quale facoltà
dovevo iscrivermi. Mio padre voleva che mi iscrivessi a Ingegneria perché lui
è architetto e voleva che seguissi la stessa strada, mentre mia madre voleva
che mi iscrivessi a Medicina. Io invece ero contagiato da quel desiderio degli
albanesi di immigrare, e così, trasportato da questo istinto collettivo, sono
scappato via. Avevo
una zia a Mantova e sono andato a vivere da lei, ma nel giro di poco tempo ho
ritrovato dei ragazzi del mio quartiere, che erano venuti prima di me. Quindi
sono uscito un paio di sere con loro e ho visto che si guadagnavano da vivere
con furti e ricettazioni. Evidentemente la loro vita libera e avventurosa mi
affascinava, visto che sono scappato anche da mia zia per andare a vivere con i
miei amici. A
stare con loro mi sembrava, come dire, di essere tutto d’un tratto diventato
grande, o forse non proprio grande – quando telefonavo a casa, continuavo a
mentire dicendo che mi ero iscritto all’università e che lavoravo abbastanza
per mantenermi – ma credo che mi sentissi un duro, ignorando invece di essere
entrato in un giro più grande di me e di aver assunto un atteggiamento
autodistruttivo. Infatti,
dopo pochissimo tempo abbiamo avuto una lite con un nostro connazionale per
questioni di soldi. Così, stupidamente abbiamo deciso di trattenere nel nostro
appartamento la sua ragazza, e gli abbiamo detto di andare a prendere i soldi e
che finché non tornava con i soldi lei sarebbe stata lì con noi. Invece lui è
andato dai carabinieri, ci ha denunciati, e ci hanno arrestati per sequestro di
persona a scopo di estorsione. In Italia questo reato prevede una pena dai 25
anni in su, quindi ci hanno condannati a 25 anni, ma tenuto conto della giovane
età, avevo 20 anni allora, e del fatto che non abbiamo usato armi, forza,
violenza, ci hanno tolto un terzo della pena, quindi ci hanno condannati alla
pena di 16 anni e 8 mesi. Inizialmente
è stato difficile ricostruire i rapporti con la mia famiglia. Mio padre era così
arrabbiato con me che non voleva nemmeno rispondere al telefono. Ma mia madre ha
fatto da mediatrice e con il passare degli anni, e sempre tramite il telefono,
siamo riusciti a fare pace. Però, quando i miei genitori hanno deciso di venire
a trovarmi e si sono recati al Consolato italiano per richiedere un visto
d’ingresso, hanno dovuto affrontare un interrogatorio del tipo “Ma vostro
figlio dov’è?, ma vostro figlio che cosa ha fatto? ma perché andate a
trovare un sequestratore in carcere?”, oltre a molte altre domande umilianti
sulla loro condizione giuridica, economica, lavorativa e sanitaria. E nonostante
i miei genitori non abbiano mai avuto problemi con la giustizia e non abbiano
problemi di natura economica od altro, alla fine, si sono visti respingere la
richiesta per diversi anni. Da
qualche anno ho chiesto di intervenire e interessarsi al parroco di Montà e ad
alcuni professori che insegnano qui, i quali si sono mobilitati mandando lettere
e fax per convincere i funzionari del Consolato a dare un visto ai miei
genitori. Alla fine ci sono riusciti e così ho potuto fare alcuni colloqui.
Peccato che può avere il visto solo uno dei miei genitori, perché secondo il
Consolato, se l’avessero entrambi, c’è il rischio che poi rimangano in
Italia da clandestini: mio padre ha sessantotto anni e sicuramente non ha mai
avuto l’intenzione di trasferirsi in Italia da clandestino. Tuttavia
mia madre è così contenta di venire a trovarmi che è disposta a subire questi
interrogatori ogni volta che va al Consolato, però poi, quando viene qui a
trovarmi, appena mi vede, il suo primo racconto è l’intervista che le hanno
fatto al Consolato, che è sempre un ricordo umiliante. Ho voluto raccontare questo, perché è curioso vedere come, anche se una persona riesce a ricostruire i rapporti con i genitori, la galera riesce sempre a mettersi di traverso, ostacolando le nostre famiglie anche fuori dall’Italia. Ovviamente, un altro problema serio sono le modalità dei colloqui. Perché sono convinto che per mia madre diventerebbero più sopportabili tutte le umiliazioni se poi, venendo in Italia, avesse la possibilità di incontrarmi in un posto più umano, in spazi diversi. Invece lei è costretta a vedermi qui dentro e a parlarmi in una stessa sala affollata, guardando quell’ora che passa veloce e il tempo che non basta mai.
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