|
Vittime
e famigliari di detenuti possono togliere spazio alla “cattiveria sociale” di Ornella Favero Questo
percorso di confronto tra autori e vittime di reato l’abbiamo iniziato qualche
anno fa, però a noi sembra particolarmente importante essere riusciti ad andare
oltre, a superare barriere e ostacoli e a cominciare a lavorare per aprire un
dialogo tra le vittime “dirette” di reati e i famigliari delle persone
detenute. Perché
riteniamo questa tappa così importante? Perché siamo faticosamente arrivati
alla consapevolezza di quanto sia fondamentale questo dialogo, e ci siamo
arrivati grazie soprattutto al nostro progetto con le scuole, incontrando tanti
studenti che esprimevano meraviglia a vedere che in carcere non è che ci siano
delinquenti nati in famiglie di delinquenti, ci sono molto più spesso persone
cresciute in famiglie assolutamente come le nostre, famiglie normali in cui la
carcerazione di un figlio, un fratello, un padre arriva a sconvolgere la vita di
tutti. Allora
è importante che inizi questo dialogo per rompere un clima, che io definisco di
“cattiveria sociale”, e perché le famiglie “regolari” comincino a
capire che chiedere più galera per tutti i reati significa, per esempio,
mettere a rischio i loro stessi figli, visto che oggi finiscono in carcere
ragazzi sempre più giovani soprattutto per reati legati all’uso di sostanze e
all’abuso di alcol. Riconoscere
che i famigliari delle persone detenute sono a loro volta vittime non è né
facile né scontato: oggi è presente qui la famiglia di Stefano Cucchi, una
famiglia che ha subito sulla sua pelle un trattamento particolare, quello che
tocca a tante famiglie quando varcano la soglia di un carcere per andare a
colloquio e, in quel momento, diventano a loro volta persone di serie B, persone
trattate come se fossero loro stesse colpevoli dei reati commessi da un loro
caro. Io credo che a questa famiglia che è entrata in carcere oggi, noi
dobbiamo dare l’idea che un altro carcere è possibile, un carcere dove si
rispettano realmente le persone. Il carcere non è solo quello che ha fatto
morire Stefano Cucchi, anzi il carcere non dovrebbe mai essere quello e io spero
che non lo sia mai più. Credo
che in questi mesi Ilaria Cucchi abbia avuto davvero un grande coraggio, perché
non è facile uscire allo scoperto e raccontare di essere la sorella di un
detenuto. Lei è riuscita proprio a far capire che storie come queste, un
fratello con problemi di droga che finisce in carcere, succedono nelle famiglie
come le nostre e che bisogna smetterla di pensare che il carcere sia una cosa
che non ci riguarda. Quindi l’invito che noi abbiamo fatto alla sua famiglia e
ad altri famigliari di detenuti a prendere parte a questa Giornata di studi e a
dialogare con le famiglie delle vittime è un modo per far capire che conviene a
tutti un carcere dove si tutela la dignità delle persone, e dove questo non
succede significa che la società è malata, e ha bisogno di cure per imparare a
“spezzare la catena del male”. Ma per spezzare questa catena abbiamo bisogno anche di una informazione che non soffi sul fuoco del rancore sociale, e preferisca piuttosto lavorare su concetti come la mediazione al posto della contrapposizione e della rabbia, la sobrietà delle notizie, la complessità che c’è dietro ogni storia di autori di reati, di famiglie di detenuti e famiglie di vittime.
|