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È
possibile spezzare la catena del male senza attingere alle risorse del perdono? di Marco Bouchard, Magistrato, docente di diritto penale all’Università del Piemonte orientale Pensando a questo incontro io devo
dire la verità provavo un certo disagio, un certo disorientamento perché mi
dicevo che comunque non avevo mai subito finora gravi offese, solo piccoli torti
quotidiani che capitano a tutti, e poi in fondo non ho mai fatto del male, poi
quando sono entrato in questo carcere mi sono chiesto quante persone ho
condannato, quante persone da pubblico ministero ho chiesto che venissero
condannate, e per quanto io sia stato o sono un giudice mite, credo sia
incalcolabile il male che ho inflitto. Mi sento quindi umanamente trasportato in
questo incontro, perdendo quel senso di disorientamento che potevo avere nei
giorni precedenti. Benedetta Tobagi, figlia del
giornalista assassinato il 28 maggio 1980, ha espresso così il senso di un
lungo lavoro di scavo nella memoria che la lega al padre: “io non voglio
parlare di perdono, però mi interessa tutto quello che può spezzare la catena
del male…il male che c’è dentro a tutti noi e che circola nella vita
quotidiana”. Ma è possibile, mi domando, spezzare
la catena del male senza attingere alle risorse del perdono? Noi conosciamo molto bene il
sentimento di colpa per le offese che commettiamo. Certo: a volte, forse troppo
spesso, cerchiamo di nascondere questo sentimento perché la vergogna, la
rimozione, i nostri limiti emotivi e culturali ci impediscono di vedere la
colpa. Ma bisognerebbe imparare a
riconoscere anche un altro sentimento altrettanto profondo di colpa: quello che
proviamo per le offese che abbiamo subito. Questa affermazione può sembrare
contraddittoria: se siamo offesi perché mai dovremmo sentirci in colpa? In
realtà i nostri meccanismi psichici non sono così banali. L’offesa produce
nella vittima dei sentimenti maligni – pensiamo alla vendetta per
l’ingiustizia subita ma anche alla semplice rabbia, al rancore e ad ogni sorta
di recriminazioni verso gli altri e verso noi stessi – che trasformano il
senso originario dell’ingiustizia patita. Più trascuriamo questo rischio di
confondere il senso dell’ingiustizia con le parti torbide di noi stessi, cui
ci esponiamo in quanto vittime, più siamo destinati a liberare le nostre
emozioni negative offendendo a nostra volta, cercando dei capri espiatori per il
nostro dramma personale. A volte questo sentimento di colpa irrisolto è così
forte da ritorcersi contro noi stessi. Forse non c’è gesto più imperdonabile
del suicidio quando diventa un modo per uccidere l’altro in noi stessi, un
modo di non amare noi stessi come “il prossimo”. È un gesto che è
imperdonabile semplicemente perché le sue conseguenze non sono in alcun modo
riparabili da parte di chi lo ha eseguito. Marie Balmary, una psicanalista
francese, nel suo libro “Un sacrifice interdit; Freud et la Bible”
definisce questo lavoro dei sentimenti maligni “colpa nevrotica”. Olivier Abel, in una bellissima
raccolta di saggi, “Le pardon, briser la dette et l’oubli”, parla
di “trasformazione maligna della colpa”. Succede nei piccoli torti quotidiani.
Succede nei grandi tornanti della storia quando popoli perseguitati si
trasformano in stati persecutori. Nietzsche, nel saggio “Sull’utilità
e il danno della storia per la vita”, parlando della forza plastica che ci
permette di trasformare positivamente cose passate, di sanare ferite, di
sostituire parti perdute dice che “ci sono uomini che posseggono così poco
questa forza che, per un’unica esperienza, per un unico dolore, spesso
soprattutto per un unico lieve torto, si dissanguano inguaribilmente”. Cosa può spezzare questa
trasformazione maligna nelle persone offese e nelle vittime collettive? Io provo a cercare una possibile
risposta nel “perdono”, una parola che non esclude la giustizia,
l’accertamento della verità, la pena. Ma so che una sentenza o una sanzione
non costituiscono, di per sé, alcuna garanzia nella aspettativa di “spezzare
la catena del male”. La punizione può ristabilire l’ordine, ma non
restituisce la vita. Perché in questa prospettiva
l’unico strumento a disposizione è il perdono? Perchè solo il perdono, a mio
avviso, può impedire la riproduzione del male sia nella sua forma passiva, con
il ripiegamento e la depressione, sia nella sua forma attiva generatrice della
vendetta, sia essa legale o illegale. Hanna Arendt in “Vita activa”
ci dice che l’azione umana è costretta costantemente a fare i conti con due
limiti molto potenti: da un lato l’impossibilità di ritornare indietro, di
annullare ciò che ormai è stato fatto, l’irreversibilità dell’agire
umano; dall’altro la caotica incertezza del nostro futuro, la sua
indecifrabilità, la sua imprevedibilità. Secondo Hanna Arendt l’unico
rimedio alla irreversibilità delle cose passate è la facoltà di perdonare;
l’unico rimedio alla imprevedibilità è la facoltà di fare e mantenere delle
promesse. L’unico
vero perdono, se esiste, deve poter perdonare l’imperdonabile Ma cosa intendiamo per perdono?
Jacques Derrida dice che l’unico vero perdono, se esiste, deve poter perdonare
l’imperdonabile, l’inespiabile e quindi fare l’impossibile. Perché
perdonare il perdonabile, il veniale, lo scusabile, ciò che si può sempre
perdonare, non è perdonare. Personalmente mi sento molto più vicino a Edgar
Morin che, rispondendo a Jacques Derrida su “le Monde des Débats” nel 1999
con un articolo “Pardonner, c’est résister à la cruauté du monde”,
propone invece un concetto di perdono fondato sulla “comprensione”.
Comprendere un essere umano significa evitare qualsiasi riduzione della sua
persona all’atto che egli ha commesso, sia pure il più grave di cui un essere
si possa macchiare. È l’atto che deve essere condannato. La persona che lo ha
commesso deve essere dichiarata responsabile, ma la condanna è sempre riferita
ad uno specifico comportamento condannabile, non alla persona nella sua
interezza. Certo: noi possiamo perdonare solo
quello che possiamo comprendere. Non possiamo perdonare se non è stata fatta
verità. Non possiamo perdonare se non sono stati individuati i colpevoli. Se, dunque, il perdono è
comprensione, allora possiamo dire che questa parola può costruire la memoria
per liberarci dal passato, è una parola che narra quello che è successo, un
recupero faticoso di frammenti dolorosi. Non una rimozione o una cancellazione.
Il perdono, in questi termini, formula sempre il torto subito. E per farlo c’è
bisogno di tempo, a volte di tantissimo tempo. E sopratutto c’è bisogno che
il perdono venga chiesto da chi si assume essere colpevole. Ma come è possibile collegare questo
pensiero con il sistema della giustizia e con i suoi modi di trattare le
infinite offese quotidiane? Noi siamo in un carcere ed è rischioso parlare di
perdono perché chi vive qui dentro non è stato perdonato anche quando, forse,
il perdono l’ha chiesto. E se è stato perdonato da qualcuno, la società e le
istituzioni hanno preferito infliggere una pena. Non voglio dire che la pena sia
l’opposto del perdono ma è, concretamente, una sua alternativa. È
doppiamente faticoso parlare di perdono in un carcere perché il carcere, in
quanto alternativa al perdono, trasforma dei colpevoli in vittime. Voglio essere chiaro: non intendo
proporre un innesto del perdono nella giustizia penale. Nella prospettiva da cui siamo
partiti - quella di provare a spezzare il male - credo che la domanda corretta
possa essere espressa in questi termini: è possibile nella giustizia penale “partire
dalle vittime”? Io sono profondamente convinto di sì
e sono altrettanto convinto che la prospettiva delle vittime sia l’unica a
poter garantire una reale riforma della giustizia penale. Ci sono degli
strumenti normativi fecondi – penso su tutti alla decisione quadro del 15
marzo 2001 del Consiglio dell’Unione europea sul ruolo della vittima nei
procedimenti penali – che sono purtroppo da noi ancora “lettera morta”. 1 RICONOSCERE Partire dalle vittime significa
innanzitutto garantire loro il bisogno e il diritto primario di essere riconosciute.
Non c’è riconoscimento delle vittime nel silenzio, nei nascondigli che
vengono proposti dalla società, dalle istituzioni e, spesso, anche dalle
persone più care alle vittime stesse. Il riconoscimento delle vittime è il
punto di partenza e non può che essere operato dal processo. Prima di dire il
diritto e di garantire l’accusato, il processo deve riconoscere la vittima,
darle un posto, riconoscerne il ruolo e la dignità non solo quando la vittima
è un bambino maltrattato, una donna violata o un anziano circuito, ma anche
quando la vittima è un feroce criminale. La criminologia, le statistiche, la
nostra pratica quotidiana ci insegnano che soprattutto i reati violenti
colpiscono prevalentemente soggetti forti, persone che a loro volta commettono
reati violenti. Questa consapevolezza deve portarci a non riservare
l’attenzione alla vittima solo quando essa è debole o indifesa. Questo riconoscimento consiste
nell’informare l’offeso dei suoi diritti, delle sue facoltà, delle
opportunità di ricevere assistenza e sostegno. Solo attraverso il
riconoscimento la vittima perde la sua funzione puramente strumentale
all’esito del processo e si eleva a soggetto giuridico, soggetto di diritti. 2 TRANSITARE Partire dalle vittime significa in
secondo luogo riconoscere che l’offesa
criminale non è destinata solo ad un accertamento delle responsabilità ma produce
effetti sulla vittima che non possono essere rimossi o trascurati. La
denuncia getta le basi per un riconoscimento della vittima; ma al tempo stesso
deve transitare la vittima laddove – con un legale, un consulente, uno
psicologo – il danno, l’offesa, la sofferenza possono essere trattati. Il
processo e la verità dei fatti non redimono né il colpevole né la vittima se
non si affronta il rischio della “trasformazione maligna della colpa”. Per
la vittima c’è un altrove rispetto al processo e alla sentenza che è
fondamentale. Io credo che una giustizia penale
moderna, dalla parte delle vittime, debba avere questa capacità
“transitiva”, di non soffocare e ridurre i sentimenti offesi nella logica
giudiziaria e di permettere e agevolare il trasferimento della cura di queste
emozioni nei luoghi più appropriati dell’ascolto riservato, del sostegno
psichico e dell’accompagnamento. 3 RIPARARE
Partire dalle vittime significa
riparare piuttosto che (oltre che) punire. La riparazione di un illecito è
un’esigenza riconosciuta da tutti gli ordinamenti giuridici. Ma per cercare di assecondare
l’esigenza mercantilistica di ricondurre i sentimenti e le emozioni a delle
quantità economiche, violando il detto secondo cui “le lacrime non si
monetizzano”, ogni società ha finito con il confondere la riparazione con
l’indennizzo e il risarcimento. In effetti la riparazione ha qualcosa
di illusorio. Come osservava Hanna Arendt uno dei limiti dell’agire umano è
l’impossibilità di rifare quello che ormai è stato disfatto, di ritrovare
l’integrità di ciò che è stato irrimediabilmente rotto, di riparare
l’irreparabile. È vero che, moralmente, la
condanna, l’accertamento della verità, la confessione contribuiscono alla
riparazione. È vero che, materialmente, il risarcimento è utile a
restituire l’integrità dei beni materiali riparabili o sostituibili. Ma siamo riusciti a spezzare le
catene del male? Io credo che, per non fermarci ad una
visione commerciale della riparazione, possa essere di qualche utilità la
nozione psicanalitica di “riparazione” perché – a ben vedere – non si
tratta tanto di “riparare qualche cosa” ma di “fare riparazione a
qualcuno”. Ma possiamo pensare di fare
riparazione a qualcuno che abbiamo offeso senza riconoscere la nostra propria
“mancanza”, cioè il fatto che non solo abbiamo “mancato” ma che
“manca” qualcosa in noi stessi? Fare riparazione a qualcuno non
significa riempire, purchessia, un vuoto altrui o, al contrario, annullare
quanto è stato fatto. Solo il riconoscimento della mancanza
può permettere la messa in discussione personale che fonda il lavoro
riparatorio, la possibilità di creare, per noi stessi e per gli altri, delle
nuove opportunità anziché farsi sopraffare dalla coazione a ripetere. Possiamo chiedere alla pena, oggi, di
rispondere a questa esigenza di “fare riparazione a qualcuno”? Possiamo, cioè,
chiedere alla pena che contribuisca in questo senso a “spezzare le catene del
male”? O riteniamo, invece, che la pena, sotto le spoglie della sua
propensione rieducativa, debba soddisfare solo il compito di legalizzare la
vendetta sociale, la vendetta sacra come la definirebbe Paul Ricoeur? L’unica strada che io riesco a
concepire in questa direzione è quella che porta il condannato - non dico ad
accettare ma - almeno a “comprendere” (nello stesso senso in cui Edgar Morin
collega questo termine al perdono) la pena inflitta, vale a dire a riconoscere
la vittima in quanto tale e se stesso come colpevole, come attore responsabile
dei suoi atti. Così come il delitto rompe la “giusta distanza” con la vittima così la pena, il carcere creano un “eccesso di distanza” non solo dalla vittima ma da tutta la comunità. Questo eccesso non si riduce per il solo fatto che si riduce il tempo della pena. Ecco: il tempo della pena dovrebbe essere riempito proprio per mettere a frutto quest’opera riparativa che, sia pure sinteticamente, ho cercato di indicare. Costruire
legami per nuove forme di sicurezza sociale di Laura Vaira, criminologa, mediatrice della cooperativa DIKE Dopo
gli interventi di oggi ho un po’ la sensazione che siano state accostate delle
tessere di un mosaico al lavoro che abbiamo svolto finora nel carcere di
Bollate. Ho
preso moltissimi appunti che adesso rendono molto confusi i miei appunti
originali, cercherò quindi di fare un doppio sforzo di chiarezza. Parto
dal sottotitolo che il progetto Officina Bollate ha, che è “Costruire legami
per nuove forme di sicurezza sociale”, è un progetto che, come diceva Adolfo
Ceretti, è in corso d’opera e si concluderà alla fine dell’anno prossimo
ed è un progetto molto ampio, articolato su diverse azioni progettuali. La
cooperativa che l’ha ideato si chiama Articolo 3 ed è una cooperativa molto
attiva nel carcere di Bollate fin da quando è stato aperto, tutte le azioni di
questo progetto sono accumunate dal fatto che si è tentato di concretizzare le
linee guida che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha emanato
nel 2008 proprio in materia di inclusione sociale a favore di persone sottoposte
a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Ovviamente
non entro nello specifico di questo documento d’indirizzo e non entro neanche
nelle caratteristiche del contesto di Bollate, però ci tengo a nominare questi
due principi che poi noi abbiamo cercato di tradurre nell’articolazione del
progetto. Il
primo principio è quello della programmazione delle politiche e della gestione
dell’esecuzione delle pene attraverso una azione multilivello, che investa
tutte le componenti sociali. Il
secondo principio è quello della compartecipazione e la corresponsabilità
nella lotta all’esclusione sociale delle Regioni, degli enti locali e della
società civile organizzata. Questi
due principi mi pare che corrispondano in pieno all’espressione che ha usato
Marco Bouchard, che ho trovato estremamente illuminante, cioè colmare un
eccesso di distanza. Colmare
un eccesso di distanza è quello che abbiamo cercato di fare noi nel momento in
cui abbiamo strutturato, e quando dico noi intendo la cooperativa Dike che ha
lavorato assieme alla cooperativa Articolo 3 e che io oggi rappresento, abbiamo
strutturato una delle azioni progettuali del Progetto officina, cioè quella sui
percorsi di giustizia riparativa. Abbiamo cercato di colmare l’eccesso di
distanza tra le componenti sociali che appunto le linee guida ci dicono che
devono essere investite tutte, e le nomino perché sono quelle alle quali noi
abbiamo rivolto le attività del progetto. Innanzitutto
i detenuti del carcere di Bollate che sono stati coinvolti nell’attività che
abbiamo svolto all’incirca nel numero di 25. Poi
come seconda componente quella degli operatori, dei volontari e della polizia
penitenziaria del carcere di Bollate, e qui abbiamo avuto una partecipazione di
circa 30 persone, a riguardo come nota dolente abbiamo avuto pochi poliziotti
penitenziari. La
terza componente è stata quella dei cittadini del territorio del distretto di
Garbagnate, che è il territorio su cui il carcere di Bollate insiste, qui
abbiamo avuto un coinvolgimento di circa 15 cittadini sia singoli e anche qui
diciamo che c’è stata una minore rappresentanza numerica rispetto invece ai
cittadini che o fanno parte delle amministrazioni locali o lavorano nei servizi
alla persona, abbiamo avuto degli agenti della polizia locale e dei cittadini
che fanno parte di associazioni. Abbiamo
immaginato che fosse importante creare un percorso di sensibilizzazione dal
punto di vista culturale come premessa per la fase successiva del progetto, che
è quella di attivare dei veri e propri e concreti percorsi di riparazione
rivolti a vittime ed autori di reati. Quindi
siamo partiti dal proporre a queste tre componenti, che hanno costituito tre
sottogruppi, degli incontri a carattere seminariale in cui abbiamo proposto
quelle che sono le prospettive del paradigma della giustizia riparativa. Quindi
abbiamo fatto riferimento alle definizioni, che appunto i documenti
internazionali, il Consiglio d’Europa piuttosto che l’ONU ci offrono in
queste materie, abbiamo menzionato i diversi strumenti della giustizia
riparativa, che vanno al di là di quello che poi ci è più noto, che è quello
della mediazione reo-vittima. Abbiamo
cercato di inquadrare tutti gli strumenti all’interno di un modello di
giustizia che si differenzia rispetto ai modelli di giustizia tradizionali e che
ci sono più famigliari, che sono quello retributivo e quello riabilitativo. Abbiamo
poi toccato la questione di quali sono concretamente gli spazi normativi che
l’Ordinamento ci offre in questo momento per poter parlare di giustizia
riparativa, abbiamo offerto poi degli elementi di conoscenza sul lavoro che è
stato svolto dalla Commissione di studio sulla mediazione penale e la giustizia
riparativa, che ha prodotto delle linee di indirizzo e ha evidenziato tutti i
nodi tematici che questa materia apre. Fatta
questa parte abbiamo proposto ai nostri tre gruppi di partecipare a dei
laboratori di riflessione, che ci consentivano una sorta di costruzione dal
basso dei significati della giustizia riparativa, costruzione dal basso nel
senso di costruzione di significati a partire da quelli che ciascuno attribuisce
in prima persona al termine riparare. Il
male si ferma quando si ricuce un tessuto di umanità ferito Questi
laboratori li abbiamo anche immaginati come una preparazione rispetto
all’incontro con gli altri sottogruppi e in questo abbiamo fatto una
operazione simile a quella che si fa in mediazione, quando si incontrano in
colloqui individuali, preliminari all’incontro faccia a faccia tra le due
parti, perché ci sembrava importante poter porre delle domande a ciascun gruppo
su quelle che erano le anticipazioni e le aspettative che avevano rispetto a
soggetti che potenzialmente sono portatori di un punto di vista diverso e di un
ruolo diverso rispetto alla pena e alle conseguenze della pena. In
un primo incontro la convergenza tra i gruppi è stata tra il gruppo dei
detenuti e il gruppo degli operatori e dei volontari e della polizia
penitenziaria. In un secondo momento nell’arco di altri due incontri è stata
tra il gruppo unico interno al carcere e il gruppo esterno di cittadini. Mi
soffermerò in particolare su alcuni elementi del materiale che questi gruppi
hanno prodotto, sia durante la fase dei laboratori, che durante questi incontri
di plenaria, le metodologie che noi abbiamo utilizzato in questa fase del
percorso sono state i giochi di ruolo le simulazioni, l’esercitazione, i
sottogruppi e anche l’utilizzo di spezzoni di film. Abbiamo
utilizzato tra gli altri lo strumento del brainstorming e lo abbiamo chiamato
brainstorming sull’immaginario della riparazione, ovvero abbiamo proposto ai
gruppi uno spazio per pensare alla riparazione a partire da immagini molto
semplici, quali quelle di un oggetto rotto. Questa
partenza ci sembrava importante per poi riuscire a evolvere verso immagini più
complesse, come possono essere quelle di una rottura relazionale e di una
rottura anche di un patto di cittadinanza, che il reato comporta. La
prima categoria che questo brainstorming ci ha consentito di mettere a fuoco con
i gruppi è stata quella che abbiamo chiamato della ricostruzione concreta e mi
sono molto ritrovata nelle parole di Agnese Moro, quando ci ha detto: il male si
ferma quando si ricuce un tessuto di umanità ferito. Questo
è esattamente un eco di alcuni degli elementi che noi abbiamo raccolto, cioè
quando parliamo di ricostruzione concreta di qualcosa che si è rotto pensiamo,
quanto meno le persone che hanno partecipato al nostro percorso hanno pensato,
innanzi tutto a una manualità come può essere quella del ricucire, del
rammendare, a degli strumenti per riparare. Nel
nostro caso è venuta fuori l’immagine del cucire della sarta, piuttosto che
delle mani del meccanico, e poi a quella che abbiamo chiamato una cultura
conservativa, cioè una cultura che qualcuno nel gruppo ha detto “è un po’
roba da vecchi riparare”, come se non fosse più tanto di moda. Insieme
a questo l’idea opposta in un certo senso è di poter recuperare una domanda
da bambini, cioè quando i bambini chiedono “me lo aggiusti?”. Questi tipi
di elementi, nella ricostruzione concreta, hanno veicolato una serie di
considerazioni che anche qui trovano delle sponde nelle cose che sono state
dette questa mattina. Marco
Bouchard parlava dell’irreversibilità e anche noi abbiamo incontrato la
considerazione che la cosa rotta non si aggiusta da sola e non si può usare
rotta, la cosa riparata porta il segno della rottura e non torna come prima, e
in questo ho trovato nuovamente un eco nelle parole di Agnese Moro che ci ha
detto: “il male una volta fatto non si ferma da solo”. Altra
considerazione, la cosa riparata può essere più significativa di prima in
quanto è il risultato di una attivazione in prima persona, ad esempio reperisco
gli strumenti per riparare, o reperisco l’aiuto di qualcuno per trovare gli
strumenti per riparare. Tutti
questi elementi ci hanno consentito di sottolineare la dimensione del fare che
è connessa a riparare, come dimensione antitetica rispetto alla dimensione
passiva e deresponsabilizzante di uno di quegli adagi carcerari che dice “sto
pagando il prezzo alla società e quindi sono a posto”. Su questa questione,
centrale nel corso degli incontri in particolare con i detenuti, abbiamo
iniziato a vedere progressivamente delle aperture, una problematizzazione su
questo tema. Una
seconda categoria, una seconda dimensione della riparazione, l’abbiamo
definita ripararsi e anche qui ho trovato una connessione con, e la cito a piene
mani ma mi è proprio di aiuto, sempre con Agnese Moro, quello che si fa a se
stessi nella commissione del reato, quindi ripararsi come riparazione nella
dimensione del confronto con se stessi e con il confronto della prospettiva del
cambiamento e di una scelta possibile. Questa
mattina Marino Occhipinti ha parlato della possibilità di essere schietti con
il proprio passato il più possibile, e anche per noi il tema della schiettezza
è stato centrale, perché nei giochi di ruolo che abbiamo fatto, abbiamo
raccolto dei leit motiv sempre tipicamente carcerari, che vanno in una direzione
diversa da quella di essere schietti. Vi
faccio degli esempi. Avevamo un detenuto che aveva accettato di rivestire i
panni del rapinatore e di incontrare la vittima specifica del suo reato, che nel
caso della nostra simulazione era un cittadino, e ci siamo imbattuti in discorsi
assolutamente comuni, che vengono fatti in carcere, del tipo: sono stato
costretto a fare i reati, ho fatto i reati, li rifarei, li rifarò, il reato era
la mia unica opportunità e via di uscita, il reato mi etichetta per sempre,
sono nella condizione di subire il mondo. Anche
qui abbiamo raccolto un senso iniziale di smarrimento nei detenuti, nel momento
in cui si intravvedevano delle possibilità di guardare al futuro in modo
diverso da questo tipo di occhiali, e l’altro collegamento che la mattinata mi
ha suggerito è che cambiare gli occhiali può poi avere come esito quello delle
parole di Edlira, la sorella di un detenuto, che ci ha detto: “Mio fratello è
un buon esempio per mio figlio ed è un punto di orgoglio per mio padre”,
credo che il cambio di occhiali abbia proprio a che fare con questo tipo di
transizione, questo tipo di passaggio. Questo
tipo di passaggio per noi ha significato sollecitare i condannati a
rappresentarsi come degli attori di una realtà non subita, ma costruita, e al
tempo stesso sollecitare gli operatori penitenziari a collocare i condannati in
una prospettiva di scelta e di consensualità espressa a intraprendere un
percorso riparativo, che in quanto tale non può essere oggetto di alcuna
prescrizione e di alcun comando. Terza
categoria, la riparazione verso l’altro, quindi la categoria di cui ci parlava
Marco Bouchard, fare riparazione a qualcuno. Abbiamo raccolto come elementi che
l’incontro con l’altro è un’occasione di uno spazio di narrazione e di
ascolto di una storia, Agnese Moro ci ha detto: “Dire con le parole quel pezzo
di me che è bloccato”. È un’occasione di conoscenza e un’occasione di
sfida, e anche questa parola è stata usata questa mattina da Lorenzo Clemente. Per
noi l’elemento della sfida è stato raccolto, sempre grazie ad un gioco di
ruolo, in cui inizialmente il cittadino vittima della rapina ha chiesto al reo
di togliersi il cappellino perché voleva vedere che faccia avesse, ed è stato
molto interessante anche poi raccogliere le osservazioni dei detenuti che erano
presenti come osservatori a questa simulazione, e appunto sentire da loro come
avessero vissuto questa frase. La
possibilità di scoprire che l’autore del reato non coincide con il reato
stesso Riparare
verso l’altro dà la possibilità di scoprire che dietro il reato c’è un
volto, c’è una persona e ci sono degli occhi, incrociare gli occhi e
rispondere a dei perché, incrociare degli occhi significa superare la frase che
è stata detta dal nostro rapinatore, “non ricordo le facce di tutti i reati
che ho commesso”, questa è una frase secondo me emblematica, perché si parla
addirittura di facce dei reati, neanche dì facce delle vittime, quindi davvero
è molto chiara la distanza che sarebbe utile colmare. Altro
elemento dell’incontro con l’altro, la possibilità di scoprire che
l’autore del reato non coincide con il reato stesso, questo è stato detto
molto bene poco fa, aggiungo “con un fantasma”, con una creatura mitizzata e
onnipotente, noi questo fantasma lo abbiamo incontrato nelle parole di una
cittadina, che pochi giorni prima dell’incontro aveva subito un furto in
appartamento a casa dei suoi nonni e lei parlava di Rom che non sono ladri, ma
sono gatti neri che cadono senza mai farsi male e senza mai essere presi. Altre
considerazioni: riparare verso l’altro, la riparazione verso l’altro
richiede un tempo e uno spazio dedicati a contenuti diversi per ciascuno,
abbiamo sentito stamattina come per qualcuno ricevere una lettera di scuse può
essere umiliante, abbiamo sentito come per qualcuno il perdono sia un passaggio
ineludibile rispetto a un percorso di riparazione, come questo però non vada
dato per scontato. L’incontro
con l’altro può esporre a dei sentimenti difficili da fronteggiare e da
trasformare, anche perché, come diceva Giorgio Bazzega questa mattina,
significa passare da sentimenti che sono compressi a sentimenti che vengono
esplicitati in faccia, alla persona che ha avuto a che fare con la nostra storia
di vittimizzazione. Un
altro aspetto, dal mio punto di vista interessante, è che nell’incontro con
l’altro noi andiamo a trasformare un incontro imprevedibile, che è stato
quello che ha visto incontrarsi il reo e la vittima al momento della commissione
del fatto, in un incontro al contrario previsto, preparato e scelto da entrambi. Ultima
categoria: riparare verso la comunità e riparare verso la norma. Il gioco di
ruolo che abbiamo fatto, cito sempre quello della rapina, ha fatto emergere che
dopo l’incontro di mediazione se il reo avesse incontrato la sua vittima
specifica, la vittima sarebbe stata al riparo da un nuovo reato, perché ormai
era riconoscibile ed era riconosciuta dal reo come una persona. È
stato molto importante che ci fosse una comunità di cittadini, che osservava
questo gioco di ruolo, perché è stata espressa una aspettativa fondamentale,
cioè quella di capire se l’incontro con la vittima specifica può essere un
incontro potenzialmente con un rappresentante “dell’altro”, inteso come
universale. Quindi dell’altro inteso come rappresentante di una comunità, che
è stata vulnerata dal reato, e anche qui il passaggio mi sembra lo stesso che
è stato fatto questa mattina da Sabina Rossa, cioè quello da un fatto privato
a un bene collettivo. Questo
passaggio penso che sia quello che consente, in parallelo, che il reo a sua
volta venga riconosciuto dalla comunità come un appartenente alla comunità
stessa alla quale farà rientro. Chiudo
sottolineando che il riflettere sulla dimensione della comunità e della norma,
ha fatto porre una domanda senz’altro interessante e utile: cioè che cosa
facciamo se per il tipo di reato non c’è una vittima specifica, oppure anche
se ci fosse, questa non fosse d’accordo nel partecipare a un percorso di
riparazione? Questa
domanda ci è stata utile perché abbiamo potuto riprendere quelli che sono i
diversi strumenti della giustizia riparativa, che sono più numerosi del
semplice rapporto “reo/vittima”. Li
rinomino: incontri tra vittime e autori di reati analoghi a quelli subiti dalle
vittime, incontri di mediazione allargati ai gruppi parentali e a tutti i
soggetti coinvolti dalla commissione di un reato, la prestazione di attività
lavorative a favore della collettività. Questo
è in po’ lo stato del lavoro che abbiamo appena concluso e che vediamo
davvero come una premessa all’attivazione di quelli che saranno, poi, veri e
propri percorsi di riparazione. Grazie.
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