|
Esperienze per ridare umanità al rapporto tra persone detenute e loro famiglie Anche per questa seconda parte
della Giornata di Studi, dedicata a idee concrete per “salvare” i legami
famigliari dal logoramento prodotto dalla galera, tocca alle persone detenute
portare al centro della discussione tutte le proposte per “ridurre i danni”
che il carcere provoca alle famiglie Un’altra
croce che i nostri famigliari debbono sopportare è quella dei colloqui di Antonio Floris, Ristretti Orizzonti La
categoria di vittime di reati di cui davvero si parla poco o niente è quella
dei nostri famigliari. I nostri famigliari, senza aver commesso nessun reato,
senza nessuna colpa, si trovano ad espiare pene quasi uguali alle nostre. In
molti posti ed in certi ambienti, devono subire l’ostilità e il disprezzo
della gente, inoltre dalle loro risorse, che in genere non sono per nulla
considerevoli, devono trovare soldi per tutte le nostre spese, spese per
avvocati, spese per comperarci i vestiti, spese per noi in carcere, visto che il
carcere, oltre al mangiare, non ci dà null’altro. Un’altra
croce che i nostri famigliari debbono sopportare è quella dei colloqui, per
tutto il tempo in cui siamo in carcere fanno il possibile e l’impossibile per
venirci a trovare, e venire a trovare una persona in carcere non è una cosa
semplicissima. Ci
sono sacrifici in termini di tempo e di spese, ci sono disagi fisici e morali e
ci sono tante altre complicazioni, il problema principale è sicuramente quello
dei viaggi, perché un detenuto sta in un carcere in una data città, ma sono
pochissimi i famigliari che abitano lì vicino. La
maggior parte abita lontano centinaia e centinaia di chilometri, e per loro
venire a fare i colloqui è un sacrificio immenso, ci sono migliaia di detenuti
siciliani, calabresi, campani che stanno in carceri del nord e le loro famiglie
stanno al sud. Così come ci sono detenuti del nord che scontano la loro
condanna in carceri del sud e le loro famiglie debbono ogni volta fare sacrifici
immensi e migliaia di chilometri per riuscire ad andare a trovarli. Porto
ad esempio il caso mio, io sono della Sardegna e ho accumulato decine di anni di
condanna, ne ho scontati più di venti, buona parte dei quali trascorsi negli
istituti della penisola, almeno 15 o più, quindi so bene cosa significhi per le
famiglie affrontare viaggi così lunghi. I
miei famigliari in particolare, solo per arrivare dal mio paese d’origine
all’aeroporto, devono fare 150 chilometri e in più, arrivati all’aeroporto
sul continente, devono prendere altri mezzi, treno, pullman, taxi per arrivare
alla città dove si trova il carcere. Arrivati
lì devono cercare un albergo dove poter pernottare, il giorno dopo devono
prendere un altro taxi per arrivare al carcere, ma arrivati all’ingresso del
carcere, non è che sia così semplice entrarci, perché in certe carceri
bisogna fare attese di tantissime ore, in certe carceri bisogna arrivare alle
cinque di mattina ed anche prima, perché a quell’ora cominciano a distribuire
i bigliettini d’entrata e naturalmente tante volte ci sono bambini piccoli, ci
sono persone anziane e non ci sono ripari, bisogna stare al sole o sotto la
pioggia. E
non è detto che, arrivando alle cinque del mattino, si riesca ad entrare in
fretta e subito, a volte c’è l’agente che deve montare di turno, si può
entrare alle 11:00 o anche alle 14:00, naturalmente poi bisogna rifarsi tutto il
viaggio di ritorno. Tutto
questo praticamente per fare due ore di colloquio, due o tre giorni in viaggio
vagando per l’Italia. La legge dice che quando una persona commette un reato,
questa persona deve essere condannata ad espiare la pena, ma la legge stessa
dice che questa pena deve essere espiata in istituti prossimi alla famiglia, e
questa regola non viene rispettata quasi per nulla. Noi
ci assumiamo le responsabilità dei nostri sbagli e non chiediamo trattamenti di
favore per noi, chiediamo però che almeno ai nostri famigliari vengano
diminuite le sofferenze e i disagi di questi lunghissimi viaggi, semplicemente
applicando ciò che sta scritto sull’Ordinamento penitenziario.
Gli
affetti sotto l’occhio vigile di una fredda telecamera di Bruno Turci, Ristretti Orizzonti L’argomento
di cui intendo parlare sono i colloqui intimi, quelli che dovrebbero garantire
la possibilità di alimentare e coltivare i rapporti affettivi tra i detenuti e
i loro parenti. Quando
si parla di affettività si dovrebbe intendere un rapporto realmente privato,
che riproduca quell’intimità famigliare che consentirebbe una condivisione di
emozioni e pensieri e uno scambio profondo di sentimenti, simile a quello che può
avvenire quasi esclusivamente nell’ambito famigliare. Ebbene,
nella quasi totalità dei Paesi aderenti all’Unione Europea, circa 28 credo,
c’è una legge che consente che avvengano regolarmente i colloqui intimi,
mentre invece tra quei pochissimi nei quali ciò non è previsto c’è
l’Italia. Io
ora vorrei esemplificare, rendere più tangibile attraverso episodi che son
capitati a me, il significato reale della necessità che venga introdotta una
legge di questo tipo. Io mi sono sposato 19 anni fa in carcere. Con mia moglie
abbiamo convissuto poco tempo, io da allora non sono più uscito, voi potete
immaginare cosa possa significare avere i colloqui all’interno di una sala del
carcere. Una sala sotto l’occhio vigile di una fredda telecamera, in tavoli
freddi, con un chiasso infernale, perché di solito in 20 metri quadri si è
stipati in 10 famiglie, potete immaginare il caldo terribile, praticamente
l’impossibilità di uno scambio affettivo vero. Quindi
io in questi 19 anni ho costretto, mio malgrado, mia moglie a relazionarsi con
me attraverso questo sistema, oltre alla telefonata settimanale ed alla
corrispondenza epistolare che forse è quella che ci ha consentito uno scambio
un po’ più profondo. In
questi lunghi anni noi non abbiamo avuto figli, quindi abbiamo vissuto questa
esperienza con i bambini degli altri detenuti che ci hanno un po’ coinvolto,
vedere i figli degli altri detenuti che giocano, corrono, si avvicinano al
nostro tavolo, ci coinvolge in maniera molto forte. Un
giorno, poco tempo fa, mia moglie mi disse, dopo che avevamo iniziato a parlare
con questi bambini e si giocava, mi disse in maniera molto inaspettata e decisa:
”Sai che se io non ho potuto avere i figli che io e te avevamo desiderato, la
colpa è solo tua, ma tu lo sai che cosa mi hai fatto?” Mi
ha ammazzato con una frase così forte ed inaspettata. Io
ho raccolto le mie energie migliori per riuscire a risponderle, mi son sentito
veramente piccolo, era una situazione che credevo lei avesse “assorbito” e
che avesse metabolizzato, invece no, ci sono problematiche che nei colloqui non
si riesce a risolvere, ci sono momenti difficili che neanche facendo due o tre
ore di colloquio è possibile riuscire a risolvere. Perché
certe cose appartengono ad una sfera talmente intima, talmente profonda, che non
riusciamo a condividerla con una telecamera che ci osserva, nel chiasso di una
sala colloqui che impedisce quasi di comprendere le parole che ci scambiamo, e
quindi tocca urlare per farsi capire. A
mia moglie ho risposto “Ma senti, guarda che forse riusciamo a fare qualche
bambino, appena esco, ed io non esco vecchio, tu sei ancora più giovane di me,
ma nel caso non vi riuscissimo o non potessimo più avere dei figli, potremmo
sempre adottarne uno, no? L’amore che abbiamo da dare a quel bambino è
immenso, l’abbiamo maturato in noi in tutti questi anni”. Ebbene
mia moglie mi ha risposto una cosa che di nuovo non mi aspettavo, mi ha detto:
”Guarda che io e te un bambino l’abbiamo già adottato, il nostro bambino è
il legame d’amore che ci unisce e che in questi anni siamo riusciti a
proteggere e a difendere, altrimenti come avrei potuto io, in questa sala
colloqui, riuscire a maturare, conservare e a difendere questo legame?” In
quel momento ho capito che mia moglie mi ha detto una cosa che aveva nella
pancia da tanti, tanti anni ed è scoppiata a piangere, io avrei voluto piangere
con lei, lo desideravo tanto, ma non ci sono riuscito. Non ci sono riuscito
perché quel pianto apparteneva a me ed a mia moglie, era nostro, non sono
riuscito a condividerlo all’interno di quella sala colloqui con una telecamera
che ci fissava, era una questione talmente intima, profonda, e per lo stesso
motivo io da anni, per esempio, non bacio mia moglie al colloquio. Questa
è una cosa mia, che però in questo contesto voglio dire, perché è importante
riempire di significato questa richiesta dei colloqui intimi affinché venga
riconosciuto veramente il diritto alla affettività in carcere. Io non bacio mia
moglie per lo stesso motivo per cui non ho pianto, perché il far trasparire
certe emozioni con una telecamera fredda che ci osserva, io non riuscirei a
sopportarlo. E
comunque io voglio dire questo innanzitutto: prima di pensare ad una riforma di
quel tipo è necessario riuscire a superare quegli equivoci, quei luoghi comuni,
quell’ipocrisia con cui si accolgono sempre queste riforme. Non
è un caso che a proposito del diritto all’affettività si parli di celle a
luci rosse… Ecco io l’ho letto decine di volte sui titoli dei giornali, ma
allora le nostre case e i nostri salotti sono tutti a luci rosse, cioè i luoghi
dove si condivide un’intimità sono tutti a luci rosse! Noi
dobbiamo superare questa ipocrisia, perché altrimenti non andiamo da nessuna
parte, ma oltretutto dobbiamo far capire che questa legge servirebbe a garantire
quei legami, a garantire quella solidarietà, a difendere quel bisogno che noi
abbiamo di abbracciare un figlio, di abbracciare una moglie, una madre. Sarebbe
importante riuscire a realizzare questo per fare un investimento che produca il
recupero, un reinserimento del condannato, per riuscire a impedire che una
persona, una volta che esce dal carcere, torni a delinquere. Voglio
aggiungere un’ultima cosa: a un convegno di Ristretti Orizzonti qualche anno
fa, è intervenuto Alain Bouregba, psicoterapeuta, direttore della federazione
dei Relais Enfants Parents, che opera nelle carceri francesi, che ha
testimoniato come in Francia sia riconosciuto da tutte le autorità che i
detenuti, che hanno mantenuto legami affettivi forti, sono più facilmente
reinseribili. Gli
operatori degli istituti di pena, in Francia ma anche in Italia, riconoscono
che chi ha mantenuto legami con la propria famiglia, poi una volta scarcerato
riduce di tre volte il rischio di recidiva rispetto a chi quei legami li ha
spezzati. Quindi
mi domando: ma una persona reclusa deve essere punita anche nell’amore? E fino
a che punto? Perciò
stiamo attenti a non trasformare il castigo per una persona che ha commesso un
delitto, in un delitto contro quella persona.
Le
famiglie dei detenuti si trovano a scontare per anni una sorta di pena
accessoria di Filippo Filippi, Ristretti Orizzonti
Io
mi chiamo Filippo e sono una persona detenuta con lunghi trascorsi di
tossicodipendenza, partecipo da alcuni mesi alle attività di Ristretti
Orizzonti ed al Progetto “Scuola-Carcere”, nel quale io, così come credo i
miei compagni, anche se faccio fatica non voglio, negli incontri con gli
studenti, “barare”, nel senso che tutti noi raccontiamo quello che è il
nostro vissuto, la nostra esperienza, confrontandoci con i ragazzi che entrano
in carcere per incontrarci, e non possiamo in alcun modo tradire le loro
aspettative. È
una gran fatica, credo che sia molto più faticoso confrontarsi con degli
studenti che rimanere in cella chiusi o andare all’aria a parlare delle solite
cose. Durante
gli incontri con le scuole abbiamo parlato di molti problemi, e in particolare
di quelli che riguardano le famiglie delle persone tossicodipendenti, ma non
solo, le famiglie dei detenuti in generale. Le famiglie subiscono una sorta di
pena accessoria che si trovano a scontare per anni, nel senso che il giudizio e
il pregiudizio nei confronti di questi famigliari continua, continua nel tempo.
Loro sono semplicemente nostri parenti, però si ritrovano ad essere
“scartati”, ad essere additati come il padre, la madre o la sorella o il
figlio della persona che è finita in carcere. E questo rende le loro vite
difficili da vivere.
|