|
Giornata di Studi su Casa di Reclusione di Padova - 16 febbraio 2001 Ornella Favero (Redazione di Ristretti Orizzonti)
Io vorrei spiegare subito un problema di questo gruppo: mentre il gruppo sulle questioni giuridiche ha un ambito più delimitato, magari più complesso ma più preciso e tecnico, questo è un gruppo che ha tanti temi all’ordine del giorno, che ruotano intorno al problema del reinserimento, della risocializzazione del detenuto straniero, a partire dalla questione di base che è quella della Mediazione Culturale.
Voi avete sentito questa mattina l’intervento di Omar Ben Ali, redattore della nostra rivista, che rappresenta in un certo senso un caso emblematico: in sei mesi di carcere, 180 rapporti disciplinari, un forte disorientamento e la difficoltà a capire “come funziona” il carcere stesso; ora invece, soprattutto grazie alla scuola, come ha detto lui, ha un comportamento esemplare, e proprio poco fa è venuto a farmi vedere i giorni di liberazione anticipata che ha appena ottenuto. Ma proprio il primo impatto con il carcere è il tema centrale da affrontare, e di conseguenza come renderlo meno drammatico per un cittadino straniero, che non è in grado di orientarsi da solo nella complessa realtà carceraria..
Io invito a lavorare in questo modo, fare delle comunicazioni brevi, cosicché il pubblico possa a sua volta fare subito domande per approfondire il tema in discussione. E’ importante raccontare esperienze concrete, non solo legate al carcere, perché ci sono molte associazioni che operano all’esterno sulla questione dell’immigrazione e che magari hanno iniziative interessanti da raccontare o sono loro stesse interessate a essere coinvolte in attività che abbiano a che fare con il carcere.
Io presento per cominciare le persone sedute a questo tavolo: il Professor Giuseppe Mosconi, Docente di Sociologia del Diritto all’Università di Padova; i Mediatori Culturali del carcere di Bologna e del carcere di Como, che rappresentano due esperienze per ora purtroppo abbastanza isolate. Padova per esempio ha 700 detenuti nella casa di Reclusione, e quasi 300 alla Casa Circondariale, avete sentito questa mattina che l’80% dei detenuti alla Casa Circondariale sono stranieri, eppure non ci sono Mediatori Culturali. Però la novità è che il nuovo Regolamento Penitenziario prevede finalmente questa figura. Per finire Donatella Zoia, che è medico penitenziario a San Vittore, tra l’altro lei ha preparato un intervento per questo Convegno, che pubblicheremo sul nostro giornale, perché mette in luce quello che è il problema principale, quando si parla di detenuti stranieri, e cioè l’assenza di prospettive a fine pena, che riguarda anche l’assistenza sanitaria, dopo un percorso in carcere che per lo meno ha garantito, a qualche livello, alcuni diritti minimi, come quello allo studio e alla salute.
Omar, e nel video che avete visto Nabil, Redattore di Ristretti ora uscito a fine pena con qualche possibilità di regolarizzazione (speriamo, sarebbe uno dei primi casi a “lieto fine”), loro hanno un po’ focalizzato i percorsi di reinserimento dentro il carcere, e poi la desolazione all’uscita. Si tratta allora oggi di sentire alcune esperienze fra le più interessanti, e poi di cercare di lavorare per dar vita in futuro a una struttura, un coordinamento stabile che si occupi di questi temi, perché altrimenti per ogni esperienza che nasce bisogna “reinventarsi tutto” con un lavoro inutile, enorme: perché per esempio dobbiamo fare in Italia molti manuali diversi per i detenuti stranieri, se uno funziona bene, e non possiamo piuttosto dedicare l’energia ad altre cose? è una domanda banalissima, ma in carcere è tutto così, le esperienze funzionanti sono isolate e poco conosciute.
Partiremo quindi dal percorso della Mediazione Culturale, per poi toccare tutti i problemi degli immigrati detenuti: vita in carcere, scuola, salute, lavoro, e vedere quando escono i possibili percorsi di reinserimento, a partire dalla ricerca di un lavoro fuori, anche se non è nemmeno il lavoro il problema, al momento del reinserimento il vero problema è la casa, un lavoro riusciamo a trovarlo, ci sono molte Cooperative che danno lavoro a detenuti ed ex detenuti. Per la casa invece, tutto quello che abbiamo è una lista di 20 e più Parroci (perché bisogna dirselo sinceramente, sono gli unici che fanno accoglienza) e bisogna fare una lunga serie di telefonate, perché non esiste nessuna rete di accoglienza, e questo è un grosso problema, la rete di accoglienza. Noi quindi vorremmo fare uscire delle proposte in questo senso, creare una rete, in modo che, se si presenta il problema di trovare ospitalità per un ex detenuto, si sappia a chi rivolgersi, ci sia un quadro chiaro di chi fa accoglienza, dove, per quanto tempo, con che modalità. Io comincerei chiedendo questo, chiederei a tutti una comunicazione vera su questi problemi e invito poi il pubblico a fare già delle domande a chi ci racconterà la sua esperienza. Ci sono esperienze diverse, ho sentito che a Bologna esiste un sportello di informazione gestito e finanziato anche dal Comune, e vale quindi la pena capire esattamente che cosa funziona e che cosa no, in queste esperienze, per non ripetere gli errori. Vorrei fare in proposito un’ultima annotazione: inviterei a segnalare anche gli aspetti critici della propria esperienza. Per esempio, ricordo che gli operatori di Bologna mi hanno detto gli ostacoli che hanno incontrato all’inizio, il fatto che pochi detenuti si rivolgevano a questo servizio, la difficoltà di comunicazione che c’era tra detenuti della casa Circondariale e operatori esterni che gestivano lo sportello. Cerchiamo quindi di vedere, delle esperienze e dei progetti, anche i lati che non funzionano, per non ripetere inutilmente gli stessi errori.
Maache Boualem (Mediatore Culturale della Casa Circondariale di Bologna)
Mi chiamo Bualem, sono cittadino algerino, al mio paese ero insegnante di Matematica al Liceo e all’Università.
Io non potrò essere molto breve, perché l’esperienza di 3 anni di mediazione è un’esperienza molto ricca. La mediazione culturale in carcere non risolve naturalmente i problemi, ma è uno strumento per facilitare la comunicazione tra gli enti locali, le istituzioni e il soggetto, che è il detenuto.
Lo sportello di Bologna ha iniziato a funzionare tre anni fa, nella Casa Circondariale, in un ufficio che si trova all’interno della direzione del carcere. Io ho cominciato quindi 3 anni fa la prima esperienza lavorativa come Mediatore Culturale con la lingua araba e francese, 4 ore alla settimana, con me c’era la mia collega che faceva mediazione in albanese ed era impegnata ugualmente per 4 ore, e un coordinatore, un sociologo che faceva 16 ore alla settimana, all’interno di questo sportello. All’inizio ci sono state alcune difficoltà, perché, per quel che riguarda i colloqui con i detenuti stranieri, il primo colloquio si faceva con l’educatore, si trattava quindi di colloqui congiunti con l’educatore. Le richieste però non arrivavano, a tal punto che spesso c’erano più richieste degli italiani che degli stranieri, e lì abbiamo capito che forse c’era una scarsa informazione, e poi per gli italiani la conoscenza dei diritti rendeva più facile per loro accedere a questo servizio. Poi con il passare del tempo, con la nostra presenza assidua dentro al carcere e con l’aiuto dell’educatore all’interno, abbiamo iniziato a fare conoscere questo sportello anche ai detenuti stranieri; al secondo anno abbiamo ampliato il numero delle ore di lavoro, io facevo 24 ore alla settimana, come la mia collega mediatrice di albanese, l’altro mediatore faceva 15 ore alla settimana, per cui i colloqui con i detenuti definitivi e gli appellanti, li facevamo non più con l’educatore, ma direttamente con i detenuti. In seguito è stato steso un protocollo di intesa tra Regione, Ministero di Giustizia, Comune di Bologna, Comitato Carcere e città, che esiste a Bologna, nel frattempo i conti si sono rovesciati, e abbiamo cominciato ad avere più richieste dai detenuti stranieri che dagli italiani, e questo è un fatto positivo; abbiamo poi avuto più richieste da parte di detenuti definitivi che appellanti. Invece con gli imputati abbiamo avuto pochi colloqui, perché bisogna avere l’autorizzazione del G.I.P. (Giudice per le Indagini Preliminari).
Ora, dal terzo anno che lo sportello funziona, io faccio 30 ore e il mio collega albanese 15 ore, poi all’interno dello sportello c’è un assistente sociale per adulti, che fa da tramite, e il lavoro funziona come una rete, tra il carcere, l’interno del carcere e l’esterno, con una presa in carico di certi casi ben specifici, dove possibile.
Allora noi abbiamo sempre cercato in questi anni di migliorare le modalità e la tecnica del colloquio, è molto importante perché è lì il momento, durante il colloquio, nel quale si esprimono veramente i bisogni, bisogni espressi e bisogni non espressi, e qui interviene la tecnica della comunicazione e anche della mediazione culturale.
Quest’anno ci siamo dati tre obiettivi: mediazione culturale e traduzione linguistica, informazione e orientamento, Segretariato Sociale. La prima fase è quella nella quale andiamo a fare colloquio con il detenuto, la durata media del colloquio è di un’ora, perché c’è tutta una pratica da svolgere prima di arrivare al detenuto, anche se ora si è creato un clima di fiducia con la Direzione della Casa Circondariale di Bologna, e come servizio dall’esterno abbiamo più facilità a operare all’interno del carcere, nella scuola, nell’area pedagogica, nei bracci, nelle sezioni, nella cucina, all’ufficio matricola, in direzione.
Noi durante il colloquio facciamo l’analisi del bisogno espresso lì dal detenuto, e cerchiamo di usare sempre la lingua dell’area di provenienza per avere una maggior comprensione e facilitare la comunicazione. Per esempio, rispetto all’area del Maghreb, chiediamo sempre da dove viene esattamente il detenuto, perché nell’area del Maghreb non si parla l’arabo classico, ci sono 3-5-6 dialetti, e dobbiamo anche noi adattarci a questi dialetti, cercare di entrare in comunicazione con la sua lingua, il primo impatto è questo ed è importante, poi cerchiamo di analizzare gli atteggiamenti fisici e i comportamenti di questo detenuto, cerchiamo di dialogare con lui in modo molto rispettoso, ma non formale, instaurando un rapporto di fiducia. Perché, una volta instaurato un rapporto di fiducia, credo che siano pochi i detenuti che possono “tradirti”, proprio la fiducia è anche uno strumento di rieducazione molto importante nell’area carceraria. Poi si fa con il detenuto l’analisi della sua situazione sociale, ascoltando la storia e il percorso della persona, da dove viene, come ha vissuto, il suo paese, gli eventi politici che lo caratterizzano.
Cerchiamo di avere il massimo delle informazioni sul suo percorso storico-sociale, per capire perché è venuto in Italia, con quali mezzi è venuto etc.. Perché bisogna anche capire che ci sono dei traumi nella vita dei clandestini, quando arrivano in Italia sono traumatizzati perché nei loro paesi d’origine hanno già interiorizzato il modello occidentale, sanno già che in Italia ci sono i bei vestiti e si possono fare i soldi in una maniera molto facile, l’hanno capito vedendo i loro parenti, gli amici che sono tornati con molti soldi, una macchina. Quando poi arrivano qui, e si trovano improvvisamente in carcere, si sentono una gran delusione addosso, un sentimento di fallimento, per cui tutto questo porta con sé un trauma. Noi cerchiamo di capire cosa sente questa persona, cerchiamo di capirne il comportamento e di orientarla poi verso la psicologa o la persona che può prenderla in cura. Tentiamo di aiutarla anche sul piano socioculturale, partendo dalla sua storia, il suo lavoro, il suo paese, il suo vissuto, e poi alla fine del colloquio facciamo una specie di segretariato sociale, cioè schediamo la relazione, facciamo in modo di rilevare tutti i bisogni, e classificarli, e cercare di dare una risposta a questi bisogni.
I bisogni sono naturalmente di tipo socioculturale, e poi di tipo amministrativo, per il rinnovo del permesso di soggiorno, il passaporto, la compilazione delle pratiche legate alla residenza in carcere, all’eventuale trasferimento nel paese di provenienza, richieste per la revoca dell’espulsione, pratiche legate al matrimonio in carcere, ricongiungimento famigliare. In sostanza, si riferiscono all’attivazione di quelle possibilità che la legge 40/98 dà e che sono ancora poco considerate anche dagli avvocati; naturalmente diamo anche informazioni giuridiche, perché spesso troviamo il detenuto che dice “mi hanno condannato per questa cosa... ma io non ho capito cosa mi hanno detto i giudici”, perché spesso questi detenuti sono assistiti dagli avvocati d’ufficio, che li consigliano di fare il rito abbreviato, ma il detenuto non sa che cosa sia un rito abbreviato.
Noi cerchiamo, attraverso lo sportello, di spiegare come funzionano questi processi, quali sono eventualmente i vantaggi e cosa si può perdere, cosa guadagnare in questo senso. Ma l’obiettivo più importante in questi anni, che non siamo riusciti a ottenere al 100 %, è il lavoro di rete, perché lo sportello è nato per giocare questo ruolo, per essere un centro che deve fare uscire le informazioni verso i servizi e che deve fare entrare l’informazione all’interno. In questi anni abbiamo lavorato molto su questo aspetto, sulla necessità di creare una rete di lavoro, soprattutto con i Volontari e con i Sindacati, la Scuola e le Associazioni degli immigrati. Poi serve anche una rete di servizi con gli enti locali, per esempio con il C.S.S.A. (Centro Servizi Sociali Adulti) che è una istituzione del Ministero di Giustizia, la Provincia, la Regione.
Lavoriamo direttamente con gli enti che esistono sul territorio per quel che riguarda i nodi critici che ci sono, primo fra tutti la clandestinità dei detenuti. Il fatto è che, anche se si fa qualche cosa all’interno del carcere, il problema dopo la scarcerazione è di difficile soluzione, perché la legge 40/98 non gli permette di regolarizzarsi e adesso non c’è più la sanatoria, ma c’è la programmazione di flussi, ci sono le quote. C’è comunque sempre una possibilità di provare un percorso di regolarizzazione, se un detenuto ha fatto un buon percorso in carcere e poi alla fine va in affidamento, in semilibertà etc... con un buon datore di lavoro, e poi si crea un rapporto di fiducia, si può sempre cercare allora di chiedere la revoca dell’espulsione e di farlo rientrare in un quadro di flussi, per arrivare alla regolarizzare.
Severino Proserpio (Mediatore Culturale del carcere di Como)
Vorrei iniziare dicendo una cosa curiosa, e secondo me significativa, sul territorio di Como: qui la mediazione culturale è riuscita a “camminare”, ad entrare nelle scuole e in altre strutture, partendo dal carcere. É l’esperienza del carcere che ha fatto capire che cosa è la mediazione culturale.
Mi ricordo che qualche anno fa, parlando con il Sindaco di Como, mi ero reso conto che il Mediatore Culturale era inteso da lui come un traduttore, un interprete, non andava oltre la mediazione linguistica. “Ne riparliamo quando riusciremo a farti capire che cosa è davvero”, ho pensato, oggi invece il Comune di Como si è anche impegnato molto nella formazione di mediatori culturali. A Como dunque siamo partiti dal carcere nel ‘93, perché c’erano già parecchie richieste di interventi soprattutto di mediazione linguistica o di traduzione di documenti, poi strada facendo alcune cose sono cambiate, in particolare quando la Direttrice del Carcere ci ha detto di avere dei problemi a gestire determinati comportamenti della popolazione detenuta, circa 400 detenuti, con una popolazione immigrata che si è sempre aggirata sulle 130-150 unità.
Io non conosco l’arabo, so qualche frase di dialetto tunisino, un po’ di francese, ho semplicemente frequentato i paesi arabi, le case di arabi, da una decina di anni a questa parte, poiché mi occupavo di immigrati dentro al Sindacato e mi è capitato di andare nei loro paesi con un sacco di indirizzi in tasca, e ho girato tutte le periferie più sperdute con una macchina in affitto per andare a trovare i parenti di quelli che stavano in Italia. Poi ho seguito qualche corso di approfondimento culturale, ho studiato anche un po’ il Corano. Quando proponi un Mediatore Culturale italiano, ti chiedono a cosa serve, io posso dire che la cosa è andata bene per il carcere di Como, ma credo che ci voglia comunque un Mediatore Culturale italiano. Strada facendo abbiamo costruito poi un progetto, nel ‘97, che si chiama “Piroga”, dove abbiamo inserito uno sportello, che noi gestiamo una volta alla settimana, con detenuti che fanno la domandina per parlare, e noi poi li chiamiamo e facciamo degli incontri, anche collettivi se ci sono dei trasferimenti di un numero consistente di detenuti, per esempio da San Vittore, li informiamo del servizio e cerchiamo di spiegare che, se uno ha un problema, non è necessario che si prenda la lametta e si metta a tagliarsi per rappresentarlo, basta sapere che c’è qualcuno che se ne occupa, tanto è vero che episodi di autolesionismo sono fortemente diminuiti.
Per l’immigrato il problema principale è che non ha la famiglia come punto di riferimento, il colloquio, dei supporti esterni. Facciamo quindi questi incontri collettivi, gli illustriamo un po’ come sono i meccanismi e le regole del carcere. Certo valutiamo anche i problemi di lingua, e se c’è l’esigenza di avere anche il mediatore della loro stessa nazionalità, ma bisogna sapere che il mediatore della stessa nazionalità non sempre viene accettato, ed è per questo che ci vuole il mediatore italiano.
Io per esempio ho un ruolo di filtro, i primi colloqui li faccio io, e devo verificare se loro accettano il Mediatore Culturale della loro etnia. Per esempio nei gruppi di albanesi è una cosa da fare assolutamente, perché molte volte ti trovi di fronte a un rifiuto, “io quello non lo voglio, chi è”. Molte volte il mediatore stesso fatica a fargli capire che cos’è il Mediatore Culturale, che poi nel nostro caso è un volontario, altrimenti lo individuano come uno che fa parte dell’istituzione, e chissà che ruolo ha. Succede quindi che chi facilita l’incontro rischia di mettere delle nuove barriere, ed è per questo che bisogna fare un lavoro di filtro. Andando avanti, successivamente abbiamo fatto anche altre attività culturali, abbiamo organizzato degli incontri sulle diverse religioni, come l’Ebraismo, l’Islam, il Cattolicesimo, il Buddismo, incontri che coinvolgevano anche gli italiani e non soltanto i detenuti immigrati; quello che è positivo è che le cose non sono mai partite da una rivendicazione, era piuttosto un processo di conoscenza che andava avanti, e che ha posto per esempio l’esigenza di gestire il periodo del Ramadan in un certo modo, prima organizzando semplicemente gli orari dei pasti, quest’anno poi anche portando dentro la carne macellata mussulmana, organizzando la festa della fine del Ramadan e la festa di “Id-Al-Kabir”, iniziative tra l’altro poco costose, e che si gestivano con facilità, alla fine è venuta fuori l’esigenza di aprire un luogo di preghiera interno, in realtà piccolo, anche se poi i giornali locali l’hanno chiamata enfaticamente Moschea, e anche la gestione dei momenti di preghiera non ha creato particolari difficoltà.
Anche all’esterno, e tra l’altro credo che il nostro ambiente esterno sia poco diverso da quello di questa regione, rispetto ad alcuni atteggiamenti, siamo riusciti a spiegare che queste esperienze di mediazione hanno portato anche beneficio alla tranquillità del carcere. Più semplicemente, si tratta di far capire che per la società ci sono più costi da pagare se ci sono risse, se ci sono atteggiamenti di rifiuto, se ti sfasciano la cella. A questo punto è scattata anche fuori la consapevolezza che ci vogliono dei Mediatori Culturali nelle carceri, nelle scuole e in altre situazioni, tant’è che l’anno scorso lo stesso Comune di Como ha costruito un progetto, dove in una prima parte è stato fatto un corso per l’introduzione alla Mediazione Culturale, che ha coinvolto gli agenti di Polizia Penitenziaria, educatori, altro personale del carcere, dando anche una serie di informazioni che sembrano banali, ma che sono invece molto importanti, per capire come confrontarsi con culture diverse. Vorrei fare un piccolo esempio per chiarire questa questione: non si deve mai dare del maleducato ad un albanese, a un albanese, paradossalmente, tu puoi dire che è un delinquente, un farabutto etc. ma non gli dirai mai “Sei un maleducato”, perché, se non vuoi avere una reazione violentissima, non devi mai mettere in discussione chi lo ha educato; un altro esempio: gli arabi, quando parlano ad alta voce, pare che litighino, invece quello di parlare ad alta voce ha tutto un altro significato, tanto è vero che, quando mi vedono parlare con dei ragazzi arabi, gli altri chiedono anche a me perché sono sempre incazzato, e invece io non sono incazzato, ma so che questo problema lo devo gestire così. Ci sono insomma anche comportamenti che servono per riuscire ad avere un rapporto più profondo e a gestire un dialogo che si svolga davvero alla pari. Il Comune di Como ha finanziato poi un corso di 15 detenuti, che sono stati formati per diventare Mediatori Culturali, e che verranno retribuiti per le ore di mediazione che faranno. Noi siamo sei Mediatori Culturali: ci sono io, poi un’altra italiana, psicologa, esperta soprattutto di culture del centro Africa e che si occupa in particolare delle donne, poi c’è una donna onduregna che si occupa delle donne sudamericane, un ragazzo albanese, un tunisino e un senegalese. I detenuti, che sono stati formati alla mediazione culturale, in una prima fase si affiancano a noi, il compito successivo poi è di avere un primo contatto con i nuovi giunti, di spiegargli come funziona il carcere, di ascoltare i loro problemi, che sono sostanzialmente il fatto che non hanno la famiglia qui, le difficoltà con il legale, che magari è un difensore d’ufficio che non ha molta voglia di spendere energie nella loro difesa; c’è poi un’altra questione molto grossa che noi affrontiamo, che è quella delle telefonate, una questione complicata, perché i loro Consolati sono lenti a rispondere, devono verificare il numero e spesso passano dei mesi prima che questi ragazzi possano fare una telefonata a casa. Ecco, questi sono in sostanza i problemi di cui dobbiamo occuparci per rendere più sopportabile la detenzione degli immigrati.
Mariavittoria Fattori (Responsabile del Servizio Tecnico del Centro Giustizia Minorile di Venezia)
Io vi citerò brevemente alcuni dati, che sono stati espressi dal Procuratore Generale, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Noi lavoriamo con i minori del Penale per il Triveneto. Oggi vi volevo portare comunque solo l’esperienza dell’IPM di Treviso. E’ un Istituto Penale per Minori che si trova in un’ala della Casa Circondariale ed accoglie al massimo 18 ragazzi. Abbiamo due mediatori culturali, uno per l’area del Maghreb, l’altro per l’area della regione balcanica, e questi due operatori sono presenti nella nostra struttura grazie a una convenzione con l’associazione “Fratelli d’Italia” di Treviso e collaborano a stretto contatto con gli educatori, con gli psicologi, con gli assistenti sociali. Anche la figura dello psicologo è presente per convenzione, abbiamo tre psicologi in servizio. E’ stata fatta una intensa attività rivolta in particolar modo ai ragazzi condannati, di origine extracomunitaria ed anche nomadi, durante l’anno 2000. Rispetto a questo tipo di utenza l’esperienza è stata molto arricchita, tant’è che poi, sia per quanto riguarda il cosiddetto trattamento intramurario, sia per i progetti che vengono realizzati all’esterno, si cerca di dare una continuità tra il dentro ed il fuori.
Noi abbiamo ragazzi piccoli, giovani, e sostanzialmente possiamo affermare che riusciamo ad avere un altissimo grado di successo rispetto ai trattamenti perché fin dal 1988, che è l’anno di approvazione del Nuovo Codice di Procedura Penale, legge 448/88, i nostri operatori lavorano in rete rispetto agli enti locali, alle aziende sanitarie e alle strutture detentive. La mediazione culturale nei nostri servizi inizialmente è stata avviata solo come rapporto con le associazioni di volontariato e poi, dato che i nostri ragazzi sono prevalentemente stranieri, si è potenziata, al punto che dall’anno scorso a quest’anno abbiamo addirittura raddoppiato le ore a disposizione dei mediatori culturali.
Un’altra cosa che volevo dirvi brevemente è che sul territorio di Trieste, quindi un distretto al di fuori del Veneto, abbiamo potenziato una convenzione con i mediatori culturali dell’ACLI CARITAS per poter lavorare con i ragazzi in misure alternative. Quindi per tutto quello che è misura alternativa, sostitutiva, libertà controllata e messa alla prova, abbiamo i mediatori culturali.
Una cosa interessante, è che noi collaboriamo molto con il mondo accademico e recentemente è stata fatta anche una tesi proprio sul mediatore culturale e i ragazzi all’interno dell’Istituto Penale. Tra poco ci sarà la discussione della tesi e ho proposto alla facoltà di Sociologia dell’Università di Padova, al professor Spano, la possibilità di parlare del mediatore culturale sul territorio con gli operatori della Giustizia Minorile.
Maria Teresa Mungo di Muzio (CIES - Centro Informazione Educazione allo Sviluppo)
Grazie di questo invito. Io rappresento il CIES, Centro Informazione Educazione allo Sviluppo, che si occupa da circa venti anni di cooperazione internazionale, educazione allo sviluppo, educazione interculturale e quindi tutte le tematiche relative ai processi di sviluppo, e purtroppo sempre più di sottosviluppo dei Paesi del sud del mondo. Quando il fenomeno migratorio intorno agli anni ‘90 è diventato un fenomeno di casa nostra, ci siamo attivati per realizzare dei processi di inserimento che potessero essere adeguati. Di qui lo studio inizialmente nei confronti di altri paesi europei, verso la mediazione culturale, altri paesi come la Francia, l’Inghilterra che da tempo hanno vissuto il fenomeno migratorio e hanno di conseguenza realizzato linee di attività intorno a questo, e quindi siamo partiti con dei corsi di formazione professionale fino ad arrivare a quella che riteniamo sia la definizione più idonea per un settore specifico della mediazione. Abbiamo sentito dagli interventi precedenti, e sappiamo dalle nostre esperienze, quanto il mondo della mediazione sia vasto, quindi il dibattito tra organismi che si occupano di questo è molto vivace: mediatori italiani sì, mediatori italiani no. E’ importante che ci sia la rappresentanza del paese di provenienza o questo crea addirittura rifiuti e ostilità? Quindi questo è un dibattito aperto. Quello che però abbiamo messo a fuoco e che è oggetto di questo piccolo intervento di oggi è la mediazione linguistico-culturale. Noi pensiamo che la mediazione linguistico-culturale, come ha detto il mediatore culturale di Bologna, è un processo per facilitare la comprensione tra le parti, quindi è fondamentale che nel momento in cui ci sono due soggetti che non riescono a comunicare e la lingua è spesso una barriera di comunicazione, ci possa essere un terzo soggetto, che favorisca la comunicazione; che metta le due parti in grado di comprendersi. Ovviamente non parliamo solo di una comprensione linguistica: mediatore linguistico-culturale, perché è chiaro che dietro la lingua c’è un processo di abitudini e modi di esprimersi, gestualità, atteggiamenti, e quindi cultura, che vanno sicuramente decodificati e trasmessi al soggetto che li deve ricevere. Quindi le nostre esperienze di mediazione linguistico-culturale sono partite nella scuola, perché era il nostro punto di riferimento fondamentale nel settore educativo, negli ambiti sanitari, e qui è chiaro che nel momento in cui una donna filippina conosce anche l’inglese, o qualche elemento di inglese, se sta male e ha una situazione di disagio tende comunque prevalentemente a parlare la sua lingua per farsi capire dal medico, e il medico sicuramente riesce a capire un disturbo e a fare una diagnosi, se qualcuno gli sa spiegare atteggiamenti, comportamenti e il modo poi di concepire, per esempio, la patologia, che è uno dei fatti che maggiormente caratterizza la diversità tra stranieri provenienti da paesi del sud del mondo e la cultura della medicina occidentale. Questi sono perciò gli ambiti di intervento, quello sanitario, l’ambito degli sportelli informativi che si occupano di intervenire con gli immigrati, e per esempio noi abbiamo una convenzione con il comune di Roma, con la Questura, e abbiamo realizzato un’esperienza molto importante, che sicuramente adesso si riaprirà, con le Questure di Firenze, Roma, Napoli, dove si è verificato come veramente evitare il disagio e attivare la comprensione ha comportato una facilitazione delle pratiche, uno sveltimento delle procedure, e per esempio per i ricongiungimenti familiari si è visto che il tempo di attesa si è ridotto di un terzo. Quindi ormai c’è una documentazione piuttosto ampia di come questo processo di mediazione sia importante.
Noi pensiamo che il mediatore debba essere solo una terza parte, non debba prendere posizioni sue, non è cioè né un sociologo né uno psicologo, quindi non può agire direttamente né autonomamente, quella è una funzione di altri operatori sociali. Deve essere al centro di un colloquio tra due parti e facilitare le due parti in questo colloquio, quindi le sue iniziative personali dovranno sempre semmai passare attraverso l’autorizzazione dell’operatore che in quel momento è a contatto direttamente con lo straniero, ma non attivare direttamente un suo intervento né da una parte né dall’altra. E’ chiaro perciò che noi escludiamo che possa essere un detenuto, perché sarebbe necessariamente e per forza da una parte. Né che possa essere un operatore della struttura, che sarebbe a quel punto appunto operatore della struttura. Quindi sarebbe l’altra parte. E’ semplicemente una persona che invece aiuta sia la struttura sia l’utente a capirsi, e a risolvere i problemi, perché i problemi devono essere risolti in maniera relativa alle esigenze. In sostanza, non pensiamo che possa arrogarsi dei diritti, con tutta la buona volontà che potrebbe avere e nella maggior parte dei casi ha, e che questa invece sia una professione vera e propria. Noi abbiamo svolto dei corsi molto ampi, per esempio quelli del fondo sociale europeo prevedono 700/800 ore, quasi un anno di formazione. Questo lo riteniamo fondamentale, perché il mediatore deve essere un professionista.
Le caratteristiche sono queste: venire da un paese di immigrazione, quindi avere subìto sulla sua pelle quelli che sono i processi migratori, cosa che gli fa acquistare un atteggiamento di empatia con l’utente; avere un livello di istruzione medio-alto, i nostri mediatori sono nella maggior parte dei casi dei laureati; avere una conoscenza linguistica ottima del proprio paese di provenienza, e non è così scontato, non so, potrebbe essersi allontanato dieci anni prima e fatto il giro del Canada, della Germania e del mondo e magari aver dimenticato il WOLOF con molta facilità. Quindi deve avere una buona conoscenza della sua lingua, una buona conoscenza della lingua italiana e poi, attraverso una buona preparazione di base, proprio con i requisiti fondamentali del mediatore, continuare ad acquisire delle preparazioni specifiche a seconda dell’ambito in cui verrà a trovarsi. L’ambito sanitario presuppone per esempio un lessico molto specifico, ugualmente essere in Questura significa conoscere comunque le normative e saper intervenire e così via. Nell’ambito carcerario, ed è quello che oggi ci interessa dire, il fatto che il Ministero della Giustizia abbia firmato una convenzione, che è un accordo quadro abbastanza generale con una organizzazione come la nostra, che è accreditata a svolgere attività di formazione e di servizio di mediazione, ecco questo accordo ha questo significato, di ribadire che sia la legge 40 sia le procedure penitenziarie prevedono la presenza del mediatore, ed è un po’ l’indicazione di uscire dal volontariato, che è un’esperienza encomiabile e positivissima a tutti gli effetti, però come il medico non può essere soltanto volontario, così anche lo psicologo e il mediatore. Oltretutto, noi riteniamo che questo è uno strumento per avviare a un’attività lavorativa medio-alta uno straniero, che in questo modo riscatta la sua professionalità, riscatta il suo titolo di studio, riscatta alcune competenze che spesso invece si trova a vedere annullate nel paese in cui viene a lavorare. Quindi il rispetto di questa professionalità, la formazione a questa professionalità danno l’opportunità all’immigrato di essere un esperto di un settore specifico che si sta costruendo oggi.
Volevo aggiungere solo che la piccola esperienza che cominceremo a fare è negli Istituti penitenziari di Regina Coeli e di Rebibbia maschile e femminile all’interno dei servizi ai tossicodipendenti, perché questa è la richiesta che ci è stata fatta, quindi, la prossima volta che ci vedremo, penso che potremo dire qualcosa in più su questo.
Detenuto
Io sono un detenuto extracomunitario, e c’è una domanda che mi faccio ogni giorno: non so proprio cosa farò quando un giorno uscirò dal carcere. Quindi volevo sapere se ci sono cooperative che ci possono dare un lavoro, un aiuto, se c’è qualcuno in grado di indicarci un posto dove stare a fine pena. Il problema è che non sappiamo come metterci in contatto con realtà che si occupano dei problemi dei detenuti stranieri fuori dal carcere, questa è la mia domanda.
Natalino Pizzardo (Associazione Unica Terra)
Io volevo portare una piccola comunicazione sull’attività che svolge l’associazione Unica Terra rispetto all’alloggio, che, mi sembra di capire, è uno dei problemi più difficili da risolvere, per uno che esce dall’esperienza del carcere. Premetto che, come tutti sanno, qui il problema dell’alloggio è di difficilissima soluzione per qualsiasi immigrato che si trovi da noi, anche per gli stranieri che lavorano, ed hanno un regolare permesso di soggiorno. Quindi immagino che sia un problema ancora più difficile per chi esce dal carcere. L’associazione Unica Terra gestisce, tra le altre cose, una casa che noi chiamiamo di seconda accoglienza. E’ una casa che ospita una quindicina di persone, sono tutti lavoratori stranieri, tutti con un regolare lavoro, tutti con il permesso di soggiorno, e queste sono le due condizioni necessarie per poter accedere all’alloggio. Di questa esperienza volevo esporre alcuni aspetti particolari, significativi sia in termine di apprezzamento sia in termini critici.
In termini di apprezzamento, è un’esperienza autogestita dagli ospiti della casa, ed è un’esperienza quasi controcorrente per quanto riguarda questo aspetto. Cioè gli ospiti si gestiscono l’alloggio sotto l’aspetto delle pulizie, la cucina, condividono gli spazzi ricreativi, che per la verità sono molto pochi, sono due stanze, una per fumatori ed una per non fumatori, oltre la cucina, dove si guarda la televisione si fanno atre cose, si fa qualche riunione quando è possibile farlo. Quindi un’esperienza di autogestione della casa, perché si condividono anche le stanze per dormire, che sono stanzoni con tre, quattro letti, ce n’è una da sei letti. E già questa è una convivenza che richiede agli ospiti un certo impegno. Un secondo aspetto molto positivo della casa è che è un’esperienza interculturale, nel senso vero della parola, cioè non ci sono processi di integrazione o di acculturazione all’italiana... come dire, ma ci sono due pachistani, un albanese, due tunisini, un algerino, il resto sono marocchini. C’è una prevalenza marocchina, però l’insieme delle persone è proveniente da paesi diversi, da culture diverse, c’è gente che è religiosa, gente che non è religiosa, gente che ha un certo credo o che ne ha un altro, con esperienze di vita e politiche totalmente diverse, gente che viene da paesi in guerra, gente che viene da paesi semplicemente poveri.
Questa necessità di condivisione di spazi autogestiti fra persone diverse per cultura, origine, esperienza, secondo me è un altro dei fattori molto positivi che danno valore a questa esperienza di ospitalità. Un’altra particolarità dell’ospitalità è che è temporanea, in attesa che queste persone trovino un alloggio che consenta loro di fare poi il ricongiungimento famigliare. Adesso c’è una certa difficoltà al ricambio, ma sarebbe auspicabile che nell’arco di un anno ci fosse un ricambio, di fatto ogni tanto c’è qualche uscita che consente un certo ricambio anche delle presenze.
Gli aspetti critici di questa esperienza è che poi, come in tutte le esperienze di autogestione, c’è chi osserva con puntigliosità tutte le regole della convivenza, e chi invece lascia qualche volta a desiderare, non fa bene il proprio lavoro, non rispetta i propri turni, a detta degli altri, come accade spesso in realtà di questo tipo, e questo forse è l’aspetto più critico.
Un altro problema che abbiamo avuto è quello che tra gli ospiti qualcuno a volte è in ritardo con il pagamento della retta, necessaria per la gestione delle spese di carattere generale, che sono il riscaldamento, il gas, la manutenzione ordinaria, qualcuno è capitato con una qualche frequenza che non rispetti la regolarità della retta, come se pensasse che magari sono cose che gli sono dovute, che gli spettano di diritto etc., e qui c’è da affrontare un certo discorso di comprensione delle regole di una comunità, forse anche di tipo culturale.
|