Gruppo giuridico

 

Giornata di Studi su 
Carcere e Immigrazione

 

Casa di Reclusione di Padova - 16 febbraio 2001

 

Marco Paggi (Avvocato e rappresentante dell’A.S.G.I. - Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione)

 

Poiché mi è stato chiesto di aprire i lavori del gruppo di studio sui temi giuridici e di coordinare la discussione, ritengo di dover invitare tutti a concentrare il dibattito su proposte concrete, utilizzando al meglio il poco tempo a disposizione ed evitando quindi un confronto di tipo ideologico. 

Per l’appunto, ricordo che già molti anni fa, in occasione della prima legge sull’immigrazione del 1986, era stato coniato uno slogan a proposito del diritto all’immigrazione, che diceva: in un mondo in cui le merci, i capitali, i servizi e le informazioni circolano liberamente anche gli uomini dovrebbero poter circolare liberamente. Personalmente posso anche essere d’accordo in linea di principio ma badate che, a ben guardare,  si tratta di un concetto rivoluzionario che pochi si sentirebbero realmente di accettare, poiché la sua effettiva applicazione metterebbe in discussione alle radici l’intera organizzazione sociale ed economica dei paesi cosiddetti sviluppati. 

A tale riguardo, ricordo che un nostro europarlamentare, durante una visita ufficiale in Cina di una delegazione del Parlamento Europeo, ha un po’ provocato il Ministro degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese, dicendogli: “Voi ci avete illustrato tutti i progressi della Cina, ma la Cina è un paese che dal punto di vista della civiltà deve ancora crescere, tuttora limita l’espatrio dei cittadini cinesi”. Questi, molto diplomaticamente, ha risposto: “Mi consta che voi italiani abbiate avuto qualche piccolo problema con circa 20.000 albanesi, nel 1991: cosa ne direste di qualche milione di cinesi?”.

 

Quindi, questi principi molto belli e sani sono condivisibili, però vanno comparati con la realtà pratica. Allo stesso modo, e qui faccio richiamo alla concretezza e non alle opinioni, sono convinto che non si possa pensare che il delinquere in Italia sia uno strumento per mezzo del quale si possa ottenere il permesso di soggiorno. Non si può pensare ad una regola generale che possa funzionare in questo modo.

 

Si può pensare, invece, che, nell’ambito della funzione rieducativa della pena, le misure alternative alla detenzione ed i provvedimenti del Magistrato di Sorveglianza servano per avviare un percorso virtuoso di reinserimento, ed al culmine di questo percorso si può anche immaginare e auspicare una possibilità di regolarizzazione del soggiorno. Ma che questo si intenda o possa essere proposto come un automatismo incondizionato, significherebbe proporre che la soluzione per entrare regolarmente in Italia è di delinquere, magari poco, per fare un periodo di carcere e poi ottenere il permesso di soggiorno. Non penso che possa essere fatta la proposta di un simile automatismo, questo per restare sul terreno della concretezza perché, fuori di qui, parlare di detenuti stranieri è quasi impossibile.

 

Se poi si pensasse che possa servire il lanciare proposte rivoluzionarie, ognuno di noi è libero di pensarla come vuole, ma francamente mi permetto di richiamare gli interessati alla concretezza, perché penso valga la pena formulare delle proposte fattibili e farle circolare anche nella rete delle strutture penitenziarie, perché siano poi condivise almeno da una parte consistente della società civile.

 

Per quanto riguarda nello specifico il trattamento carcerario, tenendo presente il disegno di legge detto indultino e le proposte di riforma del sistema penitenziario e quindi delle misure alternative, è giusto raccogliere le opinioni di tutti dopo un inquadramento generale che permetterà di meglio focalizzare gli interventi su questo argomento, quindi passo la parola all’avvocato Annamaria Alborghetti, che ci introduce le problematiche a partire dall’arresto.

 

Annamaria Alborghetti (Avvocato Specializzato in Diritto Penitenziario)

 

Io volevo fare un percorso molto veloce su quelle che sono le problematiche dal momento dell’arresto in poi ma, più che altro, dare degli input, in modo che tutti i presenti possano partecipare al dibattito. Anche ascoltando le vostre proposte o i vostri dubbi, il nostro sforzo sarà quello di individuare quali possano essere le soluzioni per ovviare a questi problemi. Analizzerò una serie di problemi e difficoltà che il detenuto si trova ad affrontare in quanto straniero, dal momento in cui inizia la pena a quando la viene a terminare.

 

Già dal momento dell'ingresso in carcere, ovviamente, si pongono la serie di problemi di vita carceraria che possono anche in buona parte essere risolti e sembrare insignificanti, ma che a volte possono invece costituire un piccolo dramma per chi li vive. Parlo di quei problemi, proprio di ordine pratico, quotidiano, quali l'alimentazione o la professione della propria religione e anche i rapporti tra i detenuti appartenenti a una determinata area.

 

Un dato che mi ha colpito e che risulta dai dati raccolti presso l'ufficio di sorveglianza di Padova è la frequenza dei rapporti disciplinari collettivi, con riferimento a determinati gruppi provenienti dal Marocco o dalla Tunisia o dalla Nigeria. Rapporti disciplinari che riguardano situazioni di vita collettiva di dati gruppi provenienti dalla stessa area. A volte può essere sbrigativo raggruppare persone della stessa area senza domandarsi quali problematiche possano insorgere, problematiche talora complesse e particolari nello stesso paese di origine. 

Un grosso problema, ad esempio, è quello dei colloqui e delle telefonate con i famigliari: questo è un diritto che trova larga attuazione per i detenuti italiani, invece per gli stranieri incontra moltissime difficoltà, perché i detenuti stranieri raramente hanno riferimenti all’esterno e la possibilità dei colloqui telefonici si scontra con delle difficoltà obiettive, come la verifica del numero telefonico per sapere a chi effettivamente appartiene. Poi non va dimenticato che, in alcuni Paesi africani, è raro che qualcuno abbia il telefono a casa: molto spesso il telefono appartiene ad un’altra famiglia o ad un negozio, quindi non ha un collegamento diretto con il richiedente. Per non parlare della durata limitata del colloquio, se ci si deve collegare con un paese straniero dove è difficile avere il contatto; altre volte cade incessantemente la linea. 

Dunque, spesso, si vanifica quella che può essere la possibilità di un colloquio. Leggevo, ma se è presente qualcuno che viene da quelle zone potrebbe spiegarmi meglio, che la Magistratura di Sorveglianza della Toscana ha previsto di concedere dei permessi premio orari, per consentire delle telefonate fuori dalla cinta muraria. L’altra possibilità, ed è un tema di discussione anche questo, è rappresentata da uno dei tanti ruoli che potrebbero avere i mediatori culturali (che ormai sono abbastanza impegnati sulle problematiche degli stranieri in carcere), perché potrebbero costituire un valido collegamento tra il detenuto e i suoi famigliari.

 

Oltre alla soluzione dei vari problemi di natura culturale, la figura del mediatore potrebbe costituire un collegamento con la comunità esterna in momenti che sono particolarmente importanti, ad esempio le festività religiose, il Ramadan, etc. 

 

Ho fatto un’indagine molto sommaria, che non pretende di essere un’indagine statistica, presso l’Ufficio di Sorveglianza di Padova e, da questa indagine pur sommaria, sono emersi dei dati molto significativi in merito alla fruizione delle misure alternative da parte dei detenuti stranieri: noi abbiamo, attualmente, 30 semiliberi, di cui 3 sono stranieri e, su 71 detenuti che sono attualmente in detenzione domiciliare, 3 sono stranieri; su ben 242 affidati in prova al servizio sociale, 3 sono stranieri. Sono sempre 3, dunque un totale di 9.

 

Vi prego d’osservare quanto questo numero sia molto basso e vedremo anche per quale ragione. Poi c’è una sproporzione enorme tra gli affidati, infatti da 3 a 242 c’è veramente un balzo enorme. è stata un po’ più sommaria l’indagine sui permessi, perché guardando  alle schede-permesso che ci sono attualmente presso l’Ufficio di Sorveglianza, su un totale di 116 stranieri che attualmente stanno chiedendo di andare in permesso, solo 37 godono attualmente di questo beneficio. 

 

Direi che è proprio questo dato del permesso premio che è molto importante, perché è chiaro che il permesso premio, aldilà dell’aspetto premiale che riveste, ha poi una importanza fondamentale per quello che riguarda tutto il trattamento.

 

È il primo fondamentale, importante contatto, che il detenuto ha con l’esterno. È l’inizio di un possibile percorso extramurario che poi può risolversi, tra l’altro, nell’attuazione di misure alternative e in un discorso di reinserimento. Guardando proprio queste schede, si nota come la gran parte di questi trentasette detenuti che usufruiscono di permessi premio sono arrivati a questa esperienza dopo numerosissimi rigetti, dovuti molto spesso alla mancata approvazione della sintesi dell’osservazione.

 

Questo è un problema che non riguarda soltanto i detenuti stranieri, ma credo che dovranno trovare una soluzione i problemi di organico che ci sono, enormi, ma anche l’individuazione, forse, di criteri un po’ più facili e funzionali, con un’attenzione particolare per chi deve espiare pene brevi, per i quali attendere tutta una relazione di sintesi è eccessivo, perché fanno tutta la pena, prima che sia pronta la sintesi. Bisognerebbe studiare un modo più funzionale per superare questa difficoltà. Nel caso degli stranieri la questione è più complessa, perché ci sono problemi di tipo culturale e linguistico, che spesso ostacolano l’instaurarsi di quello che è un dialogo e un confronto costruttivo tra operatori e detenuto. 

Francamente credo che chiunque possa comprendere come sia difficile accertare, favorire quella rivisitazione critica, l’individuazione di un’ipotesi trattamentale individualizzata, come dice l’art. 27 “attraverso l’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze affettive – educative – sociali che sono state di pregiudizio all’instaurarsi di una normale vita di relazione”. Io credo sia un po’ difficile capire tutto ciò, se non si parla la stessa lingua e se non si conosce la cultura dell’altro: questi sono i due dati imprescindibili, per poter fare assieme tutto questo percorso. 

L’articolo 35 del Regolamento che prevede come si debba tenere conto di queste differenze, delle difficoltà linguistiche e culturali, e credo che sia un campanello d’allarme per trovare delle soluzioni.

 

Se ne è parlato questa mattina e penso se ne parlerà molto anche nell’altro gruppo, ma credo sia un argomento di cui dobbiamo occuparci in quanto il Regolamento Penitenziario dice che deve essere favorito l’intervento di operatori di mediazione culturale. Potrebbe essere dato un particolare spessore a questi mediatori, aldilà di quello che può essere un semplice collegamento dentro-fuori o il fare da interprete: una collaborazione fattiva con gli operatori, nel momento dell’osservazione della personalità, sarebbe molto importante. 

 

Voglio fornire uno spunto sulla questione dei permessi, che effettivamente è molto importante: molti si vedono rifiutare il permesso per il famoso “problema dell’alias”, cioè il detenuto è indicato con un altro nome, alias un altro nome, alias un altro nome, e quindi vi sono le difficoltà ad identificare il soggetto, a chiedere informazioni su di lui, e questo diviene un altro dei motivi di rigetto.

 

Un altro motivo di rigetto delle richieste di permesso è la mancanza di riferimenti esterni, una famiglia, una casa, e questo è un problema che poi, di fatto, impedisce anche l’ammissione alle misure alternative. La maggior parte dei detenuti stranieri fruiscono dei permessi, o attraverso la casa alloggio di via Po, o attraverso altre strutture laico-religiose che offrono la disponibilità in questo senso. Però non sono spazi sufficienti e credo che su questo dovremmo fare delle proposte concrete al Comune e alla Provincia, che dovrebbero farsene carico senza gettare ogni volta sul volontariato tutto questo, individuando degli spazi, che sicuramente esistono in questa città, per favorire la fruizione dei permessi e delle misure alternative.

 

Altra questione che voglio porre alla vostra attenzione è quanto siano pochi i semiliberi stranieri, perché in fondo la semilibertà è la misura cui sarebbe più facile accedere, in quanto non pone il problema dell’alloggio: infatti il detenuto rientra la sera nell’istituto. Questo ci fa tornare a monte, infatti per essere ammessi alla semilibertà non basta avere un lavoro, c’è l’osservazione della personalità da compiere ed  è chiaro che anche in questo caso vi dovrebbe essere una particolare attenzione alla cultura di provenienza dei soggetti. Infatti, anche il nuovo Regolamento, dove fa riferimento ai corsi di formazione professionale, nell’articolo 42, dice che devono essere fatti tenendo presente le esigenze della popolazione italiana e straniera. Nella relazione introduttiva del regolamento si parla di una particolare attenzione a formazioni spendibili anche nei Paesi d’origine, quindi cercando di dare un tipo di formazione che non sia fine a se stessa, ma che nel caso di rientro abbia dato qualcosa di concreto in mano al soggetto.

 

Sempre riguardo alle misure alternative, vorrei fare un accenno al problema dei tossicodipendenti: stranamente, l’articolo 94 della legge sugli stupefacenti, che prevede l’affidamento in prova con programma terapeutico, rimane lettera morta per gli stranieri. Qui, incredibilmente, la motivazione va ricercata nel fatto che non si è ancora deciso chi debba pagare. La nuova legge ha riordinato la sanità penitenziaria, trasferendola all’A.S.L., e tra l’altro prevede il trattamento sanitario anche per tutti i detenuti stranieri; non solo, ma questo trasferimento, la legge lo ha previsto immediato per i problemi delle tossicodipendenze. Ma non sanno chi paga, dunque riguardo agli stranieri vige un silenzio totale su questo problema. Dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia non ho mai visto dare una volta questo beneficio ad uno straniero: se c’è qualche caso, sarebbe interessante conoscerlo, per vedere in che modo ci si è arrivati.

 

Ultima questione, ma non certo ultima per importanza, anzi la prima e quella che accompagna tutte queste difficoltà che ho indicato, è il problema del diritto di difesa, di cui poi parlerà meglio l’avvocato Menaldo. 

 

Poi, il problema più grosso è alla fine: anche nell’ipotesi in cui tutte le difficoltà che vi ho rappresentato vengano superate e la persona riesca ad instaurare un dialogo con gli operatori, ad avere la sintesi, a costruire un percorso virtuoso, ad accedere alle misure alternative, e la misura alternativa si concluda positivamente, magari con revoca della misura di sicurezza dell’espulsione che gli era stata data in sentenza da parte del Magistrato di Sorveglianza. Tutto questo percorso, che è costato lacrime e sangue a più persone, all’interessato per primo, viene vanificato dall’espulsione amministrativa: penso che si dovranno fare proposte e trovare soluzioni, al riguardo. Dicevo il diritto alla difesa perché dall’ingresso in carcere, che è il momento in cui, secondo l’articolo 69 del Regolamento, dovrebbe essere fornito un estratto del Regolamento nella lingua più diffusa tra i detenuti stranieri, relativo ai diritti, doveri, disciplina, trattamento in ambito penitenziario, a tutto quello che è il momento delle varie richieste, istanze di misure alternative, per permettere di capire come e quando è più opportuno proporle, etc., in cui vi è la necessità di un difensore, lo straniero si trova sicuramente in una situazione di minorata difesa, rispetto agli altri detenuti che si trovano già spesso in grosse difficoltà. E qui c’è tutto questo grosso problema del gratuito patrocinio e su questo aspetto lascerei la parola all’avvocato Menaldo. Per le problematiche relative alla scarcerazione può parlare l’avvocato Paggi in modo che possiamo poi ricucire tutti questi input. 

 

Paola Menaldo (Avvocato)

 

Volendo parlare di gratuito patrocinio e, in particolare, di gratuito patrocinio per gli stranieri, la prima impressione avuta mentre pensavo che cosa dovevo dire è stata: devo parlare di un istituto virtuale, virtuale anche perché abbiamo una normativa in via di sviluppo. 

 

Infatti, attualmente, vi è una proposta ferma alla Commissione Giustizia del Senato, che prevede delle innovazioni al riguardo. Definisco virtuale il gratuito patrocinio per gli stranieri perché, nonostante le difficoltà d’applicazione che andrò ad esporvi, un conto è parlarne per gli italiani, un conto è parlarne per gli stranieri. E sì che il gratuito patrocinio è garantito dalla nostra Costituzione: ne parla l’articolo 24, che prevede, effettivamente, un esercizio reale del diritto di difesa. Per chi non ha i mezzi e non può difendersi, lo dice chiaramente questo articolo della Costituzione, la legge deve predisporre appositi istituti: perché i non abbienti abbiano la possibilità di agire e difendersi. Lo dicono anche le convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo, eppure siamo tanto, tanto indietro. Prima della legge 217 del 1990, in Italia non esisteva in realtà un gratuito patrocinio, ma ne avevamo delle tracce in un Regio Decreto del 1923, dove sostanzialmente veniva rimesso ad una specie di assistenza morale alla categoria forense nei casi di povertà degli assistiti. Poi di gratuito patrocinio se ne è riparlato per delle controversie di lavoro, e pensate, solo per alcune e con soglie di reddito di due milioni. Finalmente, dopo l’approvazione del nuovo Codice di Procedura Penale, il legislatore ha messo le mani su questa tormentatissima materia, perché ogni volta che si parla di denari, sorgono problemi. Il principio cardine di questa legge, la 217 del 1990, è che i soggetti che si trovano in determinate condizioni di reddito, che vanno documentate, possono chiedere al giudice che procede (e non a commissioni apposite), di essere ammessi al patrocinio a spese dello stato. Qui sto parlando di soggetti, perché prima vediamo come si può accedere al patrocinio dello stato e poi vedremo perché gli stranieri non ci riescono: io, nella mia esperienza professionale, sono riuscita una sola volta, in un caso molto particolare, a far ammettere uno straniero al gratuito patrocinio. Allora, si fa questa istanza, la deve fare il diretto interessato e la deve rivolgere al giudice che procede. La deve rivolgere appositamente per ogni singolo procedimento nel quale è coinvolto e i limiti di reddito, nel 1990, erano stabiliti in otto milioni, sono passati a dieci milioni nel 1991, poi era stato promesso un adeguamento ogni due anni. Fatto sta che vi è stato un adeguamento nel 1995, a dieci milioni ottocento novanta mila lire, e poi, con la finanziaria del 2000, a undici milioni e duecento sessanta mila lire, pochissima cosa.

Quindi, già per non aprire le maglie di questo istituto a fasce più larghe, il nostro Stato ha fatto finta di non ricordarsi di qual è la reale situazione sociale italiana: si deve dire con chi si vive, quali sono tutti i componenti della famiglia e, per ogni componente in più della famiglia anagrafica, la soglia di reddito sale di due milioni. Deve essere allegato uno stato di famiglia, tutti i codici fiscali dei componenti della famiglia anagrafica, devono essere elencati tutti i redditi che una persona possiede, deve essere allegata l’ultima dichiarazione dei redditi presentata.

 

Che cosa succede per gli stranieri: la nostra legge prevede semplicemente che gli stranieri, come gli italiani, autocertifichino il loro limite di reddito, però questa autocertificazione deve essere in qualche maniera corroborata da una attestazione dell’autorità consolare, che deve certificare che l’autocertificazione non sia mendace. Su questo punto la proposta di legge sembra essere più severa, perché si parla non di non mendacità, ma addirittura l’autorità consolare dovrebbe attestare che questa autocertificazione dei redditi deve essere vera. Il problema sta proprio qui, nel contatto con l’autorità consolare. Pensiamo ad un caso ideale, di un cittadino straniero con il suo documento, il permesso di soggiorno italiano: oltre alle difficoltà della procedura, che non è così semplice, così lineare e d’immediata comprensione (infatti, anche per l’italiano, bisogna andare in cerca di tutta questa serie di dati che vi ho elencato), oltre a questo, il cittadino straniero dovrà avere un contatto serio, vero, con la propria autorità consolare, che gli dia un riscontro nei tempi utili per poter proporre la domanda tempestivamente, nel momento in cui ne ha bisogno.

Perché se fa la domanda troppo tardi, ovviamente per quel procedimento non potrà godere del beneficio. Vi ho spiegato una situazione ideale, perché stiamo parlando della realtà carceraria, sapendo che nelle nostre carceri non c’è questo tipo di stranieri. Uno straniero che non ha il permesso di soggiorno in Italia, che certificato di residenza presenterà? Potrebbe proporre la situazione anagrafica della famiglia che ha all’estero (e penso che potrebbe essere un’idea sostenuta), ma non tutti hanno il proprio documento d’identità e quale consolato si prenderebbe la briga di andare a controllare chi è quella persona che non ha un passaporto valido, non ha un’identità certa? Ma, senza pensare agli alias, serve una documentazione articolatissima anche per chi è in regola con tutto, figuriamoci per coloro che non lo sono e che non hanno un’autorità consolare con cui interloquire. Non è che uno chiama un consolato ed il giorno dopo gli mandano le cose, vanno fatte verifiche, è una procedura nella procedura lunghissima. Ecco perché dico: parliamo di un istituto virtuale, perché io, tranne in un caso, non l’ho mai visto applicato.

 

Marco Paggi (Avvocato e rappresentante dell’A.S.G.I. - Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione)

 

Mi ricollego subito a quanto detto dalla collega Menaldo. La collaborazione delle autorità consolari possiamo definirla, eufemisticamente, scarsa, ma più spesso inesistente. La qual cosa non dipende solo dalla volontà di non collaborare. Ovviamente sto andando per casi generali: non è detto che una data autorità non abbia collaborato e, se la collaborazione c’è stata, non vada premiata con un apprezzamento, ma in generale le autorità consolari dei paesi tipici di immigrazione non collaborano. Vero è anche che spesso ci sono problemi che stanno a monte, e cioè valutazioni di non opportunità dei diretti interessati: spesso, sono gli stessi imputati o condannati che non vogliono (e hanno le loro valide ragioni) l’assistenza delle loro autorità consolari. è giusto ricordare che il Testo Unico sull’Immigrazione garantisce il diritto dello straniero di far sì che non sia comunicata all’autorità consolare l’applicazione nei suoi confronti di misure giudiziarie o amministrative, dunque condanne e provvedimenti di espulsione, perché questo potrebbe essere dannoso nel caso di ritorno nel proprio paese d’origine.

 

Infatti in molti paesi esiste la possibilità di applicare nuovamente una pena (fino a giungere alla pena di morte) per reati commessi in Italia, o comunque commessi all’estero. Mi è capitato, una volta, con un cittadino iraniano che ha commesso un reato abbastanza frequente, possesso di sostanze stupefacenti in non modica quantità: per quel tipo di reato nel suo paese sarebbe stato sanzionato con la pena di morte semplice, ma poi avrebbe rischiato anche una condanna per alto tradimento, essendo impiegato di una amministrazione statale iraniana ed essendosi impegnato con il giuramento di fedeltà anche a non far uso di sostanze stupefacenti, in base alla quale avrebbe dovuto essere condannato anche alla pena di morte eseguita mediante lapidazione. La pena di morte mediante lapidazione è una morte molto particolare, infatti vanno scelte le pietre non troppo grandi e non troppo piccole: troppo piccole non uccidono, mentre troppo grandi uccidono subito. Quindi una pena altamente disumana.

 

Pochissimi paesi al mondo hanno sottoscritto la convenzione internazionale che vieta la duplicazione delle pene, di conseguenza c’è un oggettivo rischio da tenere in considerazione, senza poi contare che una semplice misura di espulsione, in certi paesi potrebbe comportare una sanzione minima di rifiuto del rinnovo del passaporto. Altre sanzioni informali vengono spesso adottate discrezionalmente dalla polizia dei paesi di provenienza degli immigrati rimpatriati, o addirittura dalla polizia di frontiera quando il cittadino rientra nel paese.

 

Poi ci sono problemi pratici, molti paesi che hanno le loro rappresentanze consolari in Italia, non hanno all’interno del loro territorio un sistema anagrafico efficiente; in molti paesi il certificato anagrafico non è altro che una autodichiarazione dell’interessato, oppure una certificazione del capo del villaggio, che vengono prese per buone dall’amministrazione e trasformate in certificati. Dunque, anche per motivi oggettivi, non si può pretendere che si possa ricostruire con fedeltà l’identità del soggetto o la composizione della sua famiglia o addirittura il suo stato patrimoniale in base alla proprietà di beni fondiari od al reddito.

 

Pretendere queste informazioni, al fine del gratuito patrocinio, e magari nei tempi brevissimi a termine di legge, che sono solo 5 giorni per far ricorso contro il provvedimento di espulsione, è pura fantascienza. Purtroppo l’applicazione prevalente delle norme sul gratuito patrocinio fa sì che, richiedendosi subito questo tipo di documentazione, di fatto gli stranieri non siano ammessi a godere del gratuito patrocinio.

 

In questo senso mi permetto d’accennare ad una sentenza del Tribunale di Sorveglianza di Milano, del 29 Febbraio 2000, che interpreta il rapporto che intercorre tra la norma generale del Testo Unico sull’Immigrazione, articolo 13 “Gli stranieri sono ammessi al gratuito patrocinio a spese dello Stato” (norma formulata senza indicazione di requisiti o altre prescrizioni, quindi una norma incondizionata), e quella applicativa contenuta nel Regolamento d’attuazione, dove si dice che lo straniero può godere del gratuito patrocinio alle condizioni previste dalla legge e, quindi, rinviando alla normativa generale, che ha esposto molto chiaramente l’avvocato Menaldo.

 

Dunque è chiaro, quello che si è fatto uscire dalla porta si è fatto rientrare dalla finestra. La norma del Testo Unico era molto chiara, e voleva essere molto chiara: non è stata fatta così per caso, i lavori preparatori la dicono lunga a questo riguardo, infatti la norma sul Testo Unico voleva garantire in tempi strettissimi l’accesso al gratuito patrocinio, per garantire una minima tutela. Questo soprattutto se si considera le conseguenze che oggi il Testo Unico riconduce all’emanazione del provvedimento di espulsione, mi riferisco alla detenzione amministrativa, e che fare ricorso per cassazione contro il provvedimento giudiziario che convalida l’espulsione non garantisce certo all’interessato né speranze, né tempi brevi di decisione. Questa sentenza del Tribunale di Milano dice che si è fatta un’applicazione del Testo Unico non corretta. 

 

In effetti, il Testo Unico conteneva una delega al Governo perché facesse un decreto legislativo contenente le norme attuative del Testo Unico, ma i principi generali della nostra Costituzione, in materia di delega, sono abbastanza chiari: la legge delegata deve comunque attenersi ai principi stabiliti dalla legge di riferimento. In essa non c’è alcuna condizione ulteriore per l’accesso al gratuito patrocinio, se non quella di essere stranieri e di essere sottoposti a decreto di espulsione. Ebbene, l’aver introdotto nella legge delegata un criterio restrittivo (quello che rimanda alle norme precedenti), è stato ritenuto dal giudice un esercizio  illegittimo del potere normativo delegato, e quindi il giudice ha disapplicato questa norma, ritenendo che lo straniero debba avere comunque diritto al gratuito patrocinio, senza considerare valida la limitazione contenuta nel regolamento d’attuazione, che rinvia alla normativa generale, la quale richiede le dette certificazioni. 

 

Pur essendo avvocato, sono convinto che le battaglie sui diritti non si portino avanti solo a suon di cause e di sentenze pilota, quindi ritengo che possa essere proposta una integrazione alla normativa, in modo che possa essere chiarito definitivamente che il gratuito patrocinio, almeno in fase provvisoria, debba essere garantito incondizionatamente, salvo poi introdurre una serie di verifiche (che richiedono certamente tempi lunghi), o salvo poi riservare il pagamento delle spese processuali e legali anticipate dallo Stato alla successiva rifusione da parte del diretto interessato, se detenuto o se svolge attività lavorativa di qualsiasi tipo.

 

Per quanto riguarda le problematiche più direttamente connesse con il permesso di soggiorno, provo a schematizzare la casistica possibile:

 

Abbiamo stranieri che vengono arrestati quando hanno il permesso di soggiorno in corso di validità, poi vengono condannati e possono essere condannati senza la misura di sicurezza dell’espulsione, o con misura di sicurezza dell’espulsione; qui si pone il problema se potranno, durante la detenzione, chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno, oppure se non potranno farlo, e se potranno riprendere comunque il permesso di soggiorno alla fine della detenzione; 

 

Abbiamo stranieri che al momento dell’arresto sono senza il permesso di soggiorno e qui è giusto distinguere tra gli stranieri che vengono arrestati alla frontiera, perché presi imbottiti di cocaina o altro, e quelli che vengono arrestati per delitti commessi all’interno del territorio.

 

Faccio subito questa differenza, ed al proposito posso citare una sentenza del Tribunale di Padova, che ha ottenuto la collega Menaldo e sarebbe stato più giusto che fosse stata lei stessa ad esporre il risultato meritorio del suo lavoro. Nel caso di una persona arrestata alla frontiera, non avendo i titoli per entrare nel territorio italiano, dovrebbe essere comunicato il provvedimento di respingimento alla frontiera che, in quanto tale, non preclude un successivo rientro regolare, perché non è equivalente ad una espulsione. Il respingimento alla frontiera è una sanzione immediata, che però non ha conseguenze successive, quindi se uno venisse respinto perché non ha il visto d’ingresso, domani potrà trovare un datore di lavoro che chiede l’autorizzazione ad assumerlo e potrà rientrare in Italia senza alcun problema o preclusione. Una persona che viene arrestata alla frontiera ovviamente viene trattenuta nel territorio dello Stato per essere processata ed espiare la pena. Se questa persona, una volta cessata la causa di forza maggiore dovuta alla sua restrizione fisica in carcere, e dopo aver scontato la pena anche con eventuali misure alternative, si dichiara disponibile a lasciare immediatamente il territorio nazionale, così da non trattenersi nel territorio senza il permesso di soggiorno, non dovrebbe essere sanzionata con il decreto d’espulsione. Ma sappiamo che molte questure preparano il documento d’espulsione al momento della scarcerazione anche a persone che non erano precedentemente clandestine in Italia, ma arrestate alla frontiera, dunque nei cui confronti l’espulsione sarebbe illegittima. Gli interessati dovranno cautelarsi da un provvedimento del genere manifestando la disponibilità, anzi la volontà di ottemperare alle leggi uscendo dal territorio dello Stato, tempestivamente, a pena espiata. Molto spesso vediamo che questa misura è applicata nei confronti degli scarcerati.

 

Troviamo, infine, anche persone che espiano la pena regolarmente e che, prima dell’arresto, avevano regolare permesso di soggiorno, ma sovente viene loro dato il provvedimento di espulsione, perché vengono classificati come soggetti pericolosi per la società. Questo è un provvedimento altamente discrezionale e ciò è preoccupante perché diventa uno strumento “omnibus” per liberarsi di tutti i fardelli considerati pesanti: mi è capitato di vedere provvedimenti di espulsione in cui la valutazione di pericolosità sociale dell’interessato era motivata dalla presunzione che il soggetto tragga il suo sostentamento mediante attività criminosa. Il fatto che sia stato detenuto è una verità storica incontestabile, il fatto che sia stato condannato anche, ma che appena scarcerato debba subito correre a procacciarsi da vivere con l’attività criminosa è una presunzione assoluta, fra l’altro insuperabile, quindi diabolica di per sé, che non credo sia correttamente applicata ed anche da questo punto di vista credo sia il caso di attrezzare una difesa efficace e magari di mettere le mani avanti rispetto alle questure che preparano provvedimenti di questo genere. Il reingresso nell’area Shengen è tecnicamente possibile per le persone condannate per i delitti: solo in caso di pericolosità e per la sicurezza dello Stato o per l’ordine pubblico può essere rifiutato il visto d’ingresso.

 

Il problema più grosso ce l'abbiamo con gli stranieri arrestati senza permesso di soggiorno e che a fine pena, dopo aver percorso magari la strada delle misure alternative, non trovano una soluzione, se non quella di sposarsi con una cittadina italiana, che non so se sia veramente una soluzione, perché forse la cura è peggiore della malattia.

 

Se una persona che si trova in carcere non ha mai avuto il permesso di soggiorno, difficilmente potrà averlo. Nel passato era molto diffusa la prassi di concedere dei permessi di soggiorno per motivi di giustizia, per permettere alle persone di circolare in maniera lecita in stato di libertà, parziale o totale, con l’affidamento ai servizi sociali, tuttavia è anche vero che le nostre norme in materia di permessi giudiziari sono praticamente inesistenti. Noi ci rifacciamo semplicemente ad un prassi operativa del Ministero dell'Interno e delle questure, ovvero al diritto creato con le circolari ministeriali,  che non è diritto.

 

L'ultima osservazione riguarda l'aspetto del lavoro e dell'alloggio, cioè le risorse che servono per poter ottenere provvedimenti favorevoli dal magistrato di sorveglianza: non è un problema giuridico ma un problema di risorse effettive, anche se gli stranieri sono ammessi a queste attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, ad esempio con l'inserimento in cooperative sociali di tipo B.

 

Il problema vero non è tanto trovare una disponibilità di lavoro: in determinati lavori, ad esempio il facchinaggio, l’impiego di ex detenuti è ha molte possibilità, perché gli ex detenuti danno più garanzie rispetto alle persone libere. Il problema non è questo, il vero problema è quello del reperimento dell'alloggio,  e di garantire e coprire il costo relativo.

 

Francesco Morelli (Redazione di Ristretti Orizzonti)

 

Un detenuto straniero, già in carcere prima della sanatoria del 1998 (quindi che può chiaramente dimostrare il suo ingresso in Italia prima di tale scadenza), e che oggi avesse i requisiti per accedervi (un lavoro, un domicilio), ma che alla chiusura dei termini per la richiesta di sanatoria non abbia potuto attivarsi per una serie di difficoltà burocratiche, può ancora presentare la domanda di regolarizzazione? 

 

Patrizia Pizzuto (Educatrice Casa Circondariale di Vicenza)

 

L’esperienza che abbiamo avuto, con la sanatoria del 1998, è che purtroppo non è andata bene per i detenuti che hanno fatto la domanda, ad eccezione di due persone che avevano già il permesso di soggiorno prima dell’arresto ed a cui era scaduto durante lo stato di detenzione. Grazie al lavoro, ottenuto presso alcune cooperative, hanno avuto il rinnovo del loro permesso, ma sono state due sole le domande accolte, su circa 80 domande di regolarizzazione, quindi di fatto nessuno è rientrato nella sanatoria.

 

Bianca Maria Vianello (Gruppo Operatori Carcerari Volontari)

 

Vorrei sapere se è lecito ospitare una persona, dimessa dal carcere senza permesso di soggiorno, in una struttura privata.

 

Ahmed Redouane (Responsabile per i problemi sociali del Consolato del Regno del Marocco di Bologna)

 

Vorrei illustrare le difficoltà che abbiamo trovato con il gratuito patrocinio. Il signor avvocato ha ragione, riguardo alle comunicazioni telefoniche, ma noi crediamo che la sorgente del problema sia la clandestinità.

Il fatto che molti cittadini del Marocco, detenuti in Italia, siano clandestini, ci impedisce di realizzare  un programma d’assistenza e coordinamento per la loro rieducazione. Come Consolato ci veniamo a trovare alquanto esclusi, nel realizzare un programma d’assistenza e per aiutare l’amministrazione penitenziaria a realizzare il reinserimento sociale dei detenuti. Per fare questo, dovremmo chiedere, alla nostra amministrazione centrale in Marocco, del materiale vario: libri e quant’altro;  è anche indubbio che l’avvocato che ha trattato precedentemente questo argomento abbia ragione, per quanto riguarda le comunicazioni telefoniche.

Penso che gli avvocati abbiano detto tutto, però vorrei illustrarvi alcune difficoltà che abbiamo incontrato a proposito del gratuito patrocinio:  noi siamo tenuti a dare le certificazioni solo per i cittadini marocchini. Nel caso che un avvocato ci chieda di rilasciargli un certificato o una attestazione, dove noi confermiamo ciò che dichiara il condannato marocchino, noi non possiamo se non siamo certi della sua reale cittadinanza marocchina. Poi dobbiamo vedere pure se il detenuto ha famiglia in Marocco e se questa famiglia fa veramente parte del mondo del detenuto, ma non possiamo se egli non presenta alcun documento d’identità comprovante il suo dire.

Ma ci capita anche di peggio, infatti vi sono certe carceri che, non avendo tutti i documenti del caso, ci chiedono di verificare i gradi di parentela senza presentarci alcun documento di identità. Come fare? Come potremmo farlo? Anche volendo aiutare, siamo obbligati a contattare le nostre autorità in Marocco e come immaginate le procedure sono lunghe, infatti seguendo l’iter ufficiale siamo obbligati a contattare il Ministero degli Esteri, il quale contatta a sua volta le autorità regionali, le quali a loro volta andranno a contattare i Comuni. Non è che noi non si voglia collaborare, ma sulla base di cosa dobbiamo collaborare? 

In materia di detenuti clandestini, abbiamo alcune esperienze particolari: vi sono dei detenuti, presunti marocchini, morti in prigione; dunque, ci comunicano che erano dei nostri concittadini, noi gli inviamo alcune persone perché facciano il riconoscimento e, per quanto si voglia aiutare la Procura della Repubblica, non siamo in grado di fare il verbale di riconoscimento del cadavere, perché non esistono documenti d’identità. Dunque, in una situazione tanto imbarazzante, come fare? Dobbiamo avvisare la famiglia in patria? Rimpatriarlo? Ma dobbiamo essere certi che sia marocchino, perché in caso contrario non possiamo. Non possiamo inoltre divulgare la notizia della morte d’un presunto marocchino, dunque ci troviamo con le mani legate. Certo, poi possiamo procedere con il rilevamento delle impronte digitali, ma a volte ci viene detto che il corpo è in decomposizione avanzata... Noi cerchiamo sempre di fare del nostro meglio, infatti inviamo dei nostri cittadini per riconoscere il cadavere, ma a volte non viene comunque riconosciuto. 

Vogliamo inoltre sottolineare la nostra preoccupazione per tutto quanto avete precedentemente detto ed esposto, riguardo al rinnovo dei permessi di soggiorno ed al reinserimento sociale. Per tutto quanto detto dobbiamo cercare di aiutarci reciprocamente, anche per realizzare delle manifestazioni culturali che possano aiutarvi nella rieducazione sociale e culturale dei detenuti. L’immigrato non si può sradicare dalle sue origini culturali: certo è in Italia, nella società italiana, ma non va dimenticato che ha comunque delle radici nella propria patria, e noi possiamo aiutarvi con la religione, con strumenti morali. Siamo certi che possiamo aiutarvi a rieducarli, dunque vi ripeto: aiutiamoci, solo così potremo migliorare le condizioni di vita di molti. Come Consolato del Regno del Marocco dobbiamo occuparci di cinque regioni: Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Marche, dunque potete immaginare quanto siamo bombardati di domande e richieste d’ogni tipo. Ringrazio nuovamente per avermi permesso di spiegarvi con quanti problemi siamo quotidianamente chiamati a confrontarci.

 

 

Seconda parte

 

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