Interventi

 

Giornata di Studi su 
Carcere e Immigrazione

Casa di Reclusione di Padova - 16 febbraio 2001 

Carmelo Cantone (Direttore Casa di Reclusione di Padova)

Volevo, innanzi tutto, dare il benvenuto a tutti gli ospiti da parte, oltre che mia, del personale dell’Istituto che ha collaborato e che sta collaborando all’organizzazione di questa giornata. Ai detenuti, ed agli operatori volontari che hanno lavorato anch’essi all’organizzazione di questa giornata: tutto il circuito che fa capo al Centro Documentazione Due Palazzi, al TG 2 Palazzi, e a tutti quei detenuti che comunque sono partecipi di questa iniziativa.

 

Mi scuso già in partenza, con tutte le persone che oggi vengono da fuori, per qualche piccolo problema, qualche piccola defaillance organizzativa che avremo, ma confido sulla vostra benevolenza: normalmente non agiamo da centro convegni, per cui potete comprendere; comunque, siamo ovviamente molto contenti di avervi tutti qui con noi.

 

Voglio ricordare la composizione dei partecipanti a questa Giornata di Studi sul tema dell’immigrazione degli stranieri. Coinvolge operatori penitenziari, soprattutto operatori degli Istituti, dei Centri Servizi Sociali del Triveneto (compresi anche operatori della Giustizia Minorile), alcuni operatori penitenziari fuori dal nostro distretto. Coinvolge operatori del territorio di varia estrazione, quindi A.S.L., volontariato, Onlus, magistrati, avvocati e tantissimi altri operatori che hanno a cuore questo tema, come dimostra la loro presenza massiccia.

 

Ci accompagnano nell’iniziativa anche una serie di graditissimi ospiti, di referenti istituzionali, che presento subito: il sottosegretario alla Giustizia, con delega agli Affari Penitenziari, l’On. Corleone; il Provveditore alle carceri, il dott. Faramo; abbiamo qui anche l’Assessore Regionale alle Politiche Sociali, Antonio De Poli; l’avvocato Paggi, che farà da coordinatore, per quanto riguarda soprattutto la prima parte della giornata; abbiamo qui al tavolo anche Ornella Favero, Caporedattore del nostro giornale Ristretti Orizzonti; il dott. Livio Ferrari, presidente del SEAC, e al tavolo anche due fra i componenti del gruppo della Redazione, che faranno da propositori su alcuni aspetti del tema oggi in discussione, Francesco Morelli e Omar Ben Alì.

 

Questa giornata l’abbiamo intesa, ovviamente, non come una giornata ufficiale di convegno, ma come un momento, una giornata di lavoro assieme per cercare di scambiare impressioni, opinioni, cercare di costruire qualche cosa. Quindi la giornata va presa per quello che è, non è un appuntamento da convegno, e in questo senso è stata denominata appunto Giornata di Studi sul tema Carcere e immigrazione.

 

Dopo questa prima fase di brevi comunicazioni ed alcuni saluti delle autorità che ci fanno compagnia, agli ospiti che vengono da fuori chiederemo di spostarsi verso la sala auditorium, perché ci sarà la proiezione di un filmato, prodotto dal gruppo interno del TG 2 Palazzi. Vi chiederemo, come dice la Corte di Cassazione, di essere "veloci e repentini", perché altrimenti qui non ci muoviamo più, e questo vale anche per il dopo pranzo, per cercare di essere il più pronti possibile per i lavori della giornata. Volevo dare la parola, per un saluto, all’Assessore De Poli, perché so che tra l’altro ci deve lasciare; ha poco tempo per noi, perché poi deve andare in giunta. Grazie ancora.

 

Antonio De Poli (Assessore Regionale alle Politiche Sociali)

 

Buongiorno a tutti, porto i saluti della Giunta Regionale Veneto e della Regione Veneto. Per essere veloci e repentini come diceva il vostro Direttore, il mio voleva essere un segno di presenza all’interno di questa manifestazione, che è sicuramente una manifestazione importante, perché va verso l’apertura, la sinergia, la messa in rete: oggi per quello che significa da un punto di vista informatico, domani messa in rete rispetto al territorio, rispetto al coinvolgimento della società civile. Vedo qui anche rappresentanti dell’Unione Provinciale Artigiani, che so sta facendo un progetto, con la Curia di Padova, di coinvolgimento con il carcere. Quindi una messa in rete, un’apertura del carcere a quella che è la popolazione esterna. Da sempre il carcere rappresenta un qualcosa di lontano, un qualcosa dove non si riesce mai ad arrivare, che la gente esterna non vede, non vuole vedere, con cui non vuole confrontarsi, di cui tante volte non vuole neanche discutere. Bene, oggi questo dimostra che discuterne è possibile ed è un grande passo in avanti verso una nuova civiltà, o meglio ancora verso una qualità di vita migliore per tutti noi. Grazie.

 

Orazio Faramo (Provveditore alle Carceri per il Triveneto)

 

Buongiorno a tutti e grazie per essere presenti. Il tema di oggi, carcere ed immigrazione, inutile sottolinearlo è un tema della massima importanza. Noi, come Amministrazione Penitenziaria, abbiamo già preso alcune iniziative e la giornata di oggi si inquadra in un discorso già iniziato da parecchio tempo, perché ormai da qualche anno per noi il problema più importante è proprio questo dell’immigrazione. Con questo tema abbiamo soppiantato quello della tossicodipendenza, vuoi per la sua ampiezza, vuoi anche perché nel settore della tossicodipendenza abbiamo fatto indubbiamente dei passi, essendo un fenomeno col quale ci siamo confrontati. È importante che questa giornata si tenga qui a Padova e all’interno di uno dei due Istituti Penitenziari, perché Padova è la città del Triveneto che deve confrontarsi in modo più massiccio con questo problema. Noi abbiamo veramente toccato delle punte estreme: abbiamo avuto in qualche periodo, presso la vicina Casa Circondariale, punte quasi dell’86 % di detenuti stranieri: in una giornata, sui detenuti presenti, quasi l’86 % (mi pare che fossero 85,9 %) erano immigrati. È stata questa la punta massima in Italia. Purtroppo si tratta di un record, che certo non ci fa molto piacere, per tutti i problemi che comporta.

 

È una situazione che ci costringe quindi a continui sfollamenti, è una situazione che porta a un costante sovraffollamento della Casa Circondariale, e ha dei riflessi anche su questo Istituto. Proprio per quell’affollamento, come buona parte di voi saprà, abbiamo dovuto creare presso questo Istituto una sezione giudiziaria, che è proprio destinata ad ospitare detenuti immigrati in attesa di giudizio. Quindi, ripeto, di fronte a questo problema stiamo cercando di attrezzarci e queste giornate di riflessione, queste giornate di confronto ci devono servire proprio a cercare di trovare le soluzioni migliori.

 

Per questo io finisco qui, perché non voglio dare ricette, primo perché ritengo che nessuno abbia delle ricette precise da dare, ma secondo perché invece credo che a noi operatori dell’Amministrazione Penitenziaria, e principalmente a me, queste giornate debbano servire per ascoltare, per apprendere, un po’ da tutti gli interventi, e per vedere poi, alla luce appunto delle risultanze di questi confronti, di adottare le soluzioni migliori. Grazie. 


Livio Ferrari (Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia)

 

A parte il ringraziare Ornella, il Dottor Cantone e tutti gli amici di Ristretti Orizzonti che hanno organizzato questo momento, io devo sempre fare l’abitudine all’ambiente. Sono tanti anni che vengo in carcere, qui a Padova ci sono venuto per cinque anni di fila a fare volontariato, però non riesco mai ad abituarmi a questi luoghi, non c’è niente da fare. Non è un posto in cui mi riesco ad abituare. Non riesco neanche ad abituarmi all’idea di un carcere in cui, nonostante tutti gli sforzi, il numero dei detenuti continua a crescere, il numero delle persone che entrano continua a crescere, e su tutto questo, specialmente tra i politici, molti cavalcano demagogicamente il problema della sicurezza.

 

Invece, la risposta al problema della sicurezza è investire, è creare occupazione, è portare lavoro dove non c’è, è tirare fuori dalle branchie della criminalità organizzata chi non ha altra risposta per vivere. Spesso i veri killer, i veri serial killer (non tutti per fortuna, perché molti lo fanno con grande passione), sono i mezzi di comunicazione, che non aiutano una convivenza civile migliore, che non aiutano un approccio nei confronti di chi ha sbagliato, ma vuole riprendere una vita di dignità, una vita che abbia un senso. La comunicazione è spesso basata solo sullo scoop, solo sulla violenza, solo sulla paura, e questo non aiuta la convivenza civile. Davanti a tutto questo credo sia inverosimile che il carcere debba inventarsi delle risposte.

 

Il tema di oggi, relativo agli stranieri ed immigrati, significa inventarsi delle risposte per soggetti che, una volta finita la detenzione, la nostra società rifiuta, che la nostra società, il nostro Stato, in questo momento non è in grado di accogliere e caccia via. Non siamo certo una società accogliente in questo senso, e non so che risposte dare. Io mi ritrovo veramente spiazzato a dover dare risposte, a dover produrre, come volontariato, come privato sociale, degli interventi che saranno destinati poi a fallire, che non avranno futuro. Nessuno inizia interventi che non avranno futuro, anche se tutti quanti sappiamo che ci sono dei limiti, ci sono dei tempi circoscritti per tutto quello che noi facciamo. Se la giornata di oggi darà dei frutti, ed io spero li dia, sarà perché poi le forze del territorio si ritrovino finalmente a produrre dei progetti, ma progetti concreti, non solo parole. Spesso i nostri convegni, i nostri momenti assembleari, sono fatti di tante parole e pochi fatti.

 

Dobbiamo, oggi, forse invertire questa tendenza e chiamare ognuno alle proprie responsabilità, sopratutto gli Enti Locali, che sono coloro che hanno i mezzi economici, perché senza i soldi è inutile che ce la raccontiamo. Senza investimenti economici, in questo settore, noi ci raccontiamo solo delle belle parole, ma di belle parole si muore. Nella mia città di Rovigo, che è qui vicino, la scorsa settimana hanno trovato una donna in casa morta di inedia. Una maestra, morta di inedia perché non aveva lavoro, perché nessuno le stava accanto, perché si sentiva sola: è morta di stenti in una città che sta bene, in una città “ricca”, non ricca certamente come altre, però questa solidarietà dimostriamola concretamente! Richiamiamo gli amministratori (adesso se ne è andato l’Assessore regionale). Credo che la Regione sia uno degli Enti più coinvolti, uno degli Enti che ha più mezzi economici da investire nell’ambito del penitenziario. Richiamiamo anche tutti gli altri Enti coinvolti a un tavolo vero! Perché in questi anni, del carcere, se ne è parlato tanto a livello regionale, però io ne ho sentito solo parlare, non ho visto poi dei fatti concreti. Se alle parole non c’è una conseguente concretizzazione in realizzazioni vere, allora abbiamo fallito tutti quanti, non solo gli amministratori, noi come cittadini, chiunque di noi non ha richiamato ognuno al proprio compito, ognuno alle proprie responsabilità. Buona giornata a tutti quanti. 

 

Ornella Favero (Coordinatrice Ristretti Orizzonti)

 

Sono la coordinatrice della rivista Ristretti Orizzonti, dalla quale è partita l’idea di organizzare questa giornata. Vorrei spiegarne un attimo il senso, perché tutti voi avete visto che, naturalmente, entrare in carcere in duecento ospiti non è cosa semplice, quindi credo che organizzare una giornata del genere qui dentro sia stata una sfida. Il significato è sopratutto questo. Rispetto al problema degli stranieri, succede un paradosso, in carcere si fa più accoglienza di quella che si fa fuori. Non perché un detenuto straniero stia bene, ma in carcere ha qualche diritto, qualche piccola garanzia che fuori non ha. Ad esempio, in carcere riceve un codice fiscale che gli permette di lavorare, in carcere ha l’assistenza sanitaria anche per gravi patologie, in carcere ha la possibilità di frequentare la scuola, corsi di formazione, di imparare meglio la lingua. Quindi il carcere dà qualche piccolo diritto, mentre fuori la società, da questo punto di vista, dà pochissimo.

 

Questo è il primo significato: dire partiamo dal carcere invece di fare come al solito, che il carcere va fuori a raccontare i suoi problemi. Secondo: ogni volta che si parla di disagio a parlarne sono gli operatori, i soggetti in causa non hanno quasi mai la possibilità di raccontarsi e raccontare questo disagio. Questa grossa novità, è che una giornata del genere è stata organizzata, gestita, preparata prevalentemente da questo Centro di Documentazione, formato dai detenuti. Noi, che operiamo in questo settore, sono anni che ci vediamo fuori, in queste riunioni, in questi convegni, in questi avvenimenti in cui si parla di carcere. Ebbene, abbiamo pensato: parliamo dentro al carcere e a parlarne per una volta siano anche i diretti interessati. Anche questo mi sembra sia un elemento di grossa novità.

 

Vorrei spiegare il senso dei lavori di oggi: ci saranno due Gruppi di Lavoro, uno prettamente giuridico, e lo spiegherà l’Avv. Marco Paggi, l’altro più dedicato ai problemi dell’inserimento, i problemi della mediazione culturale, dei percorsi che fanno molti detenuti stranieri dentro al carcere. Si parlerà di studio, di scuola, di inserimento lavorativo, di accesso alle misure alternative, e poi del senso di desolazione che prende tutti noi quando a fine pena non ci sono pressoché alternative. L’Avvocato Marco Paggi, vi dirà quanti sono i casi di stranieri che hanno fatto un percorso positivo in carcere e che poi si sono, in qualche modo, regolarizzati.

 

Ho qui un intervento che ci ha mandato, per esempio, un medico penitenziario che oggi è qui con noi, Donatella Zoia, che dice: “L’assoluta carenza di collegamento tra carcere e territorio, che riguarda anche le strutture pubbliche sociali e sanitarie, rende quasi impossibile il passaggio di documentazione tra interno ed esterno, una persona quindi che riceva in carcere una terapia per una grave patologia si trova all’uscita in uno stato di totale abbandono”. Provate a pensare cosa vuol dire, ad esempio, per una persona sieropositiva, per un malato che in carcere riceve la terapia, e fuori è nessuno. Non ha più nessun diritto. Credo che questo sia il punto di partenza.

 

Credo che un grave difetto, in quello che noi riusciamo a fare, è di non riuscire a mettere assieme le nostre forze. Ci sono dei tentativi. Livio Ferrari è uno che si occupa di questo, però lo fa con grossa difficoltà. Per esempio, noi non riusciamo a capire com’è effettivamente in Italia la situazione dei detenuti immigrati, quanti casi di regolarizzazione ci siano stati, quanti percorsi positivi, che cosa stia succedendo nel resto d’Italia: manca totalmente una seria circolazione delle informazioni.

 

I due Gruppi di Lavoro vorrei che partissero proprio sul concreto; sul concreto, vuol dire tentare di fare un convegno diverso. Noi vorremmo delle comunicazioni su esperienze, esperienze reali di associazioni, di cooperative, di singole persone, di avvocati, di chi si occupa di questi problemi.

 

Brevi comunicazioni, con la possibilità di chi è tra il pubblico di fare domande, di avere chiarimenti. Sono stata, recentemente, a molti incontri sulla sicurezza, con un palco di dieci persone e nessuna possibilità di parlare, di raccontare quello che si sta facendo. Allora: raccontare le esperienze, raccontarle in modo critico. Lavorando in un giornale, vedo quanto è difficile capire se un’esperienza funziona o no; insomma, se si fa un’esperienza di mediazione culturale in un carcere, a me piacerebbe capire che cosa ha funzionato e che cosa no, smettiamola di fare delle relazioni come se le cose andassero tutte bene. È molto più proficuo trarre da un’esperienza anche gli aspetti critici.

Io dico, poi, di copiare dai migliori: è inutile reinventarsi tutto. 

 

Noi abbiamo prodotto, per esempio, una piccola guida per i detenuti stranieri in carcere, altre situazioni l’hanno fatto: perché non si riesce ad estendere questa esperienza in giro per l’Italia e ognuno deve reinventare tutto sul carcere? Perché non c’è nessuna capacità di dar vita veramente a una struttura che collabori a creare qualcosa che funzioni, che metta in circolazione le esperienze positive? Faccio anche un invito: c’è una importante associazione, l’Associazione Antigone, che fa una specie di osservatorio sulle carceri e che ha prodotto un libro interessante. Questa associazione è, diciamo, abilitata ad entrare nelle carceri per questa opera di verifica: perché questa esperienza non la estendiamo, e non soltanto per produrre un libro, ma per fare delle iniziative concrete su temi riguardanti il carcere?

Oggi noi siamo qui per il problema dei detenuti stranieri in carcere, ma io ne dico un altro di problema, il problema della salute in carcere, che è drammatico. C’è questa nuova legge del passaggio alla sanità pubblica che è ancora lì; tra l’altro, c’è una sperimentazione in atto in tre regioni. So che qualsiasi regione potrebbe chiedere di partecipare a questa sperimentazione e mi dispiace che le presenze degli assessori siano spesso dei passaggi troppo veloci, perché a me piacerebbe con gli assessori un confronto preciso. Perché la Regione Veneto, per esempio, non entra a far parte di questa sperimentazione sulla salute in carcere?

L’invito che faccio alle associazioni è di cominciare a lavorare assieme, come volontari credo che sia ora di finirla con la competizione, perché purtroppo la competizione esiste anche nel volontariato. Mettiamo al centro invece l’importanza delle esperienze concrete e del fatto di lavorare insieme, a partire da queste esperienze. Quindi i Gruppi saranno, io spero, basati su questo.

 

Un Gruppo si occuperà esattamente dei problemi di inserimento, che vuol dire il problema della mediazione culturale, della scuola, del possibile inserimento lavorativo, della difficoltà a fine pena, per un ragazzo straniero che non voglia tornare subito nei circuiti dell’illegalità, di trovare una alternativa. Il secondo Gruppo sarà sulle questioni giuridiche e ora lo presenterà l’Avvocato Marco Paggi.


Marco Paggi (Avvocato dell’A.S.G.I. - Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione)

 

Buongiorno a tutti, preciso subito che io non sono qui a titolo personale, anche se ovviamente a titolo personale partecipo ben volentieri. Rappresento, come membro direttivo, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione A.S.G.I., che si è costituita nel 1990 e oggi raggruppa oltre un centinaio di operatori del diritto, che per l’appunto si occupano di tutela sul campo e di studio ed elaborazione in ordine alle problematiche del diritto dell’immigrazione e dei richiedenti asilo. L’Associazione, ovviamente, si è sempre occupata anche di questi problemi e il nostro obiettivo è quello innanzitutto di mettere in rete le conoscenze e le esperienze, gli spunti di dibattito, la documentazione, non sempre facile da acquisire, e per meglio garantire il perseguimento di questi scopi abbiamo dato vita anche ad una rivista.

 

Approfitto anche per fare una sorta di propaganda per gli acquisti, ma più che altro mi rivolgo alla Direzione dell’Istituto perché eventualmente si abboni: fare un abbonamento alla rivista, che non ha scopo di lucro, consentirebbe di mettere a disposizione dei detenuti la documentazione che si può agevolmente reperire tramite la rivista. Si chiama: Diritto, immigrazione e cittadinanza, edita da Franco Angeli. Eventualmente concorreremo al pagamento di questo “spazio pubblicitario”, comunque preciso che è una rivista che non ha scopo di lucro e non ha neanche speranza di lucro, perché la materia dell’immigrazione non ha mai dato da mangiare a nessuno. Insomma, proprio non c’è la più vaga chance di guadagnare, con questa rivista. Tuttavia crediamo nell’importanza di superare, come diceva giustamente Ornella, le logiche di bottega o di concorrenza, perché purtroppo anche nel cosiddetto non profit esistono queste dinamiche perverse.

 

Come giuristi, siamo tutto sommato soddisfatti di convivere, nell’associazione, fra operatori che vengono dalle esperienze più disparate e che hanno anche opinioni più diverse, ma che dal 1990 si confrontano liberamente e costruttivamente per partecipare anche all’elaborazione di proposte, che in parte sono state anche recepite nel vigente Testo Unico sull’Immigrazione. Dopodiché, ovviamente, ci diamo da fare anche per attivare battaglie giudiziarie, per portare avanti cause-pilota, esperienze innovative, sempre convinti che il fenomeno dell’immigrazione debba essere governato, ma governato nel senso effettivo.

 

Invece, come purtroppo accade, ma non solo per questo fenomeno, per tanti altri, è semplicemente governato da esigenze di tipo elettorale: effettivamente, parlare di immigrazione è già difficile fuori di qui; parlare di detenuti immigrati, lo dico francamente, è un argomento scomodissimo. Qui dentro se ne parla col massimo di interesse e sensibilità, ma al di fuori delle mura carcerarie non è un argomento così facile da trattare.

Il Gruppo di Lavoro che tenterò di coordinare in giornata, si dedicherà prettamente agli aspetti giuridici, quindi a tutte le problematiche connesse con la specificità del detenuto straniero, a partire dai problemi relativi al rinnovo del permesso di soggiorno, e per parlare poi dei soggetti che sono senza permesso di soggiorno fin da prima dell’inizio della detenzione.

 

C’è poi la questione dei permessi di soggiorno per motivi giudiziari e la dottoressa Paola Marinelli, dirigente dell’Ufficio Stranieri della Questura di Padova, darà un importante contributo all’analisi di questi problemi, che purtroppo non sono stati, è giusto dirlo sin da ora, affrontati puntualmente dal legislatore. La normativa vigente lascia agli operatori una serie di problemi da affrontare, la dove è evidente che il giurista “libero battitore” può proporre interpretazioni evolutive con una certa facilità e arrivare, perfino, a proporre delle licenze poetiche.

 

È vero, poi, che l’Istituzione ha bisogno anche di direttive interpretative e di norme più precise: ragioneremo, appunto, anche sui possibili percorsi di reinserimento sociale degli stranieri privi di permesso di soggiorno o con permesso scaduto, abbiamo avuto anche un’esperienza in proposito, ma è giusto dire un’esperienza, cioè un caso che, non so se sia unico, ma è sicuramente raro, di regolarizzazione di un detenuto in fase di espiazione della pena. Non vorrei dire che sia unico, perché non ho la pretesa di gestire un osservatorio capillare in tutta Italia, ma se non è unico è quantomeno raro, e da questo punto di vista devo dare atto della sensibilità anche da parte dell’Ufficio Stranieri della Questura di Padova. È un caso di regolarizzazione per un detenuto, però è più difficile immaginare, aldilà di norme eccezionali come quella della sanatoria che c’è stata nel ‘98, per i clandestini, una possibilità di permanenza in Italia una volta espiata la pena.

 

D’altra parte, come già accennavo prima, in questa materia c’è un conflitto di diverse istanze che si contrappongono e le istanze sempre più attuali e pressanti sono quelle della sicurezza, rispetto alle istanze di governo del fenomeno. L’Amministrazione Penitenziaria, per la verità, avverte su di sé questo problema perché ce l’ha in casa e lo deve in qualche modo gestire. Molto probabilmente l’Amministrazione Penitenziaria gradirebbe molto la possibilità di avere strumenti ulteriori di governo del fenomeno, ma questi strumenti altro non potrebbero essere che istituti di premio o incentivo, rispetto a un percorso di rieducazione e di reinserimento, che oggi in buona parte mancano. Dovremmo poi ragionare anche sul problema del diritto di difesa, che è un problema fondamentale, sia per quanto riguarda la possibilità di ammissione al patrocinio gratuito a spese dello Stato, sia per quanto riguarda il servizio di interpretariato, sia per quanto riguarda la grossa problematica, che le Istituzioni Penitenziarie ben conoscono, delle difficoltà di ottenere una efficiente assistenza consolare da parte dei cittadini stranieri detenuti.

 

L’ammissione alle misure alternative è un altro tema scottante, specie se si considera poi che è in corso di elaborazione il disegno di legge del Governo, intitolato "Modifiche al codice di Procedura Penale, nuove norme in materia di espulsione dello straniero e dei benefici penitenziari”. Un disegno di legge che gli operatori hanno subito battezzato col termine di indultino, che è abbastanza indicativo. Non voglio dire del compromesso che si è fatto con questo disegno di legge, ma della delusione di buona parte delle aspettative che erano state riposte in una riforma del sistema penitenziario. D’altra parte, i nuovi istituti, previsti in questo nuovo disegno di legge, quali l’espulsione come misura alternativa al processo (addirittura quindi una sanzione che viene applicata nei confronti di un soggetto che non è stato ancora giudicato, nemmeno in primo grado), pongono seri, serissimi dubbi di legittimità costituzionale, e comunque di rispetto del principio fondamentale di rieducazione assegnato alla pena.

 

A maggior ragione, poi, la problematica del clandestino che viene scarcerato e diventa “materiale da espulsione”, pone ulteriori problemi di rispetto del principio di rieducazione della pena, dal momento che non si comprende quale funzione rieducativa potrebbe avere una sanzione di questo genere. Ragioneremo, pertanto, non solo del diritto vigente, ma tenteremo quantomeno di elaborare eventuali proposte o osservazioni proprio rispetto a possibilità di integrazione del nostro ordinamento giuridico.

 

In relazione alla funzione rieducativa della pena e, quindi, anche alla aspettativa legittima di reinserimento sociale degli ex detenuti nel nostro tessuto sociale, questi sono i punti che toccheremo e che ora ho accennato solo in estrema sintesi. Il lavoro sarà corposo e, naturalmente, confido nella partecipazione attiva di tutti, senza con questo pretendere che si possieda delle ricette o degli antidoti per ogni problema, e senza pretendere che poi i lavori di oggi possano culminare in una maggiore apertura degli orizzonti. Giustamente mi viene in mente il nome della rivista Ristretti Orizzonti, ecco questi ristretti orizzonti per il momento ce li teniamo, ma cerchiamo quantomeno di guardare più in là: questa è un po’ la scommessa, come si direbbe lanciando l’anima oltre l’ostacolo. Quindi, ringrazio tutti e auguro buon lavoro.

 

Ornella Favero (Coordinatrice Ristretti Orizzonti)

 

Prima di andare avanti volevo dire una cosa: noi abbiamo già ricevuto alcuni contributi di grande interesse, fra cui uno del Magistrato dott. Giovanni Palombarini, proprio sugli stranieri immigrati, un altro del dott. Lorenzo Miazzi, sul processo di esecuzione della pena nei confronti dei minorenni stranieri, e un intervento del magistrato Gaetano Campo sui Centri di Permanenza Temporanea. Siccome in un carcere si può essere anche molto efficienti, e credo che qui in qualche modo lo siamo, noi, sia gli atti di questa giornata che queste relazioni, le faremo avere, a chi le richiede, al più presto, perché una delle cose che succedono sempre fuori, è che gli atti del convegno vengono fatti tre anni dopo, quando il convegno è del tutto superato. Allora, la nostra sfida sarà di fare gli atti velocemente, in modo che le indicazioni che escono dai gruppi di lavoro possano essere usate subito.

 

Un’ultima considerazione: quando ho cominciato a fare il giornale, una cosa che ho detto ai detenuti è di abolire i ringraziamenti, perché mi piovevano articoli in cui la metà era dedicata ai ringraziamenti alla direzione etc.. Quindi noi siamo molto restii a fare i ringraziamenti di rito, però credo che vada detta una cosa: per organizzare una giornata del genere, qui dentro, ci vuole veramente la collaborazione di tutti gli operatori. Io credo, per esempio, che la Polizia Penitenziaria abbia avuto un ruolo fondamentale nell’aiutarci a organizzare una cosa così complessa come questa giornata. Credo che vada detto, perché sono convinta che sia un grande passo avanti di civiltà, promuovere una attività in carcere in cui ci sia una così stretta collaborazione tra operatori esterni, insegnanti, operatori interni e Polizia Penitenziaria.

 

Carmelo Cantone (Direttore casa di Reclusione di Padova)

 

Rimanendo in tema di ringraziamenti, solo di passaggio volevo dare atto che il Ministro agli Affari Sociali, l’On. Livia Turco, ci ha mandato un messaggio, non avendo potuto partecipare all’iniziativa, e ci dice appunto che: “…Per crescere e credere nel processo civile, desidero perciò esprimere la mia più grande attenzione per la vostra esperienza e far giungere a quanti saranno presenti alla Giornata di Studi il più cordiale e solidale saluto”. Firmato: Livia Turco. Un altro messaggio molto valido ci è arrivato anche dall’Assessore Comunale ai Servizi Sociali, dott. Marco Marin, che ci ringrazia dell’invito e ci augura un buon lavoro, alla ricerca di possibili percorsi di regolarizzazione degli immigrati clandestini. Una nota mi sembra doverosa, non di prammatica, ma perché mi ha pregato di farlo, da parte del nostro Magistrato di Sorveglianza, il dott. Pavarin, che teneva moltissimo a partecipare a questa giornata, per ovvi motivi, essendo lui anche un protagonista di queste vicende. Purtroppo oggi è assente, inderogabilmente, dalla sede di servizio e tra l’altro è l’unico Magistrato di Sorveglianza che agisce sulla realtà di Padova e di Rovigo, quindi ha in questo momento un carico di lavoro non indifferente. Mi ha pregato, appunto, di estendere a tutti i partecipanti gli auguri di buon lavoro. Passiamo adesso la parola, per un altro intervento, a Francesco Morelli, della redazione di Ristretti Orizzonti.


Francesco Morelli (Redazione di Ristretti Orizzonti)

 

Sono in redazione praticamente da quando è iniziata l’attività, cioè dall’estate del ‘97, e penso di potervi dare un contributo da una prospettiva diversa da quella che di solito si incontra nei convegni sul carcere: un contributo dalla parte dei detenuti.

 

Cosa ha significato, per noi, questa attività e in particolare la partecipazione di una rappresentanza numerosa di stranieri all’interno della redazione? Il primo effetto è stato quello del superamento del pregiudizio, perché sono venute a cadere le categorie, cioè: questo è nord africano, quello è albanese, etc.. Abbiamo cominciato a vedere in faccia le persone e questo non ha significato subito andare daccordissimo, ma ha significato vedere le persone per quello che sono, coi loro pregi e i loro difetti, e capire che si può anche andare d’accordo, alla fine.

 

Il primo contributo che questi compagni stranieri ci hanno dato è stato il racconto delle loro esperienze di vita, esperienze di emigrazione, con tanti sogni come quelli di qualsiasi emigrante. Storie che si concludevano in maniera diversa da come avevano preventivato, in effetti, perché finivano nella devianza, finivano nell’illegalità, poi nel carcere.

 

Non credo si possa dire che la nostra attività rappresenti la ricetta; credo che, anche in questo campo, cioè nell’aiuto agli immigrati che hanno preso vie “non ortodosse”, serva una pluralità di interventi e tante piccole ricette, tante piccole soluzioni messe assieme per arrivare all’obiettivo finale, che è la scoperta di un ruolo sociale per queste persone.

 

Nella nostra redazione, forse per la prima volta da quando questi compagni sono arrivati in Italia, hanno iniziato ad avere consapevolezza del loro ruolo, sia nel rapporto con l’istituzione, sia nel rapporto con la società italiana. Hanno iniziato a capire che cosa si chiedeva loro, quali regole e quali diritti avevano. Una delle cose che più ci ha impressionato, tanto per farvi un esempio, sono i loro racconti su quanto è successo quando è uscita la sanatoria nel ’98; molti compagni stranieri ci dicevano: “Non sono riuscito a regolarizzarmi perché il costo della regolarizzazione era troppo elevato”. Erano convinti che i dieci-quindici milioni che gli venivano chiesti, per regolarizzarsi, fossero quanto la legge chiedeva loro. Invece questa era una truffa, messa in atto magari da chi gli dava lavoro in nero, che diceva: “Sì, io ti regolarizzo, però tu mi devi pagare i contributi per un anno, e quindi mi devi dare dieci milioni perché io ti metta in regola”. Questa è una delle cose emerse, che stanno a significare quanto poco conoscessero la legge italiana. Da questo, noi italiani, assieme a questi nostri compagni, siamo passati ad avere la consapevolezza della necessità di dover studiare meglio le leggi sull’immigrazione.

 

All’inizio l’abbiamo fatto in maniera un po’ sporadica; dall’anno scorso, cioè dal 2000, questi studi hanno preso forma, con un progetto finanziato dalla Regione Veneto, con la costituzione di un Ufficio Stampa, che poi è diventato anche Centro Studi, dal quale è partita in fondo anche l’idea di questa Giornata di Studi. Abbiamo iniziato a raccogliere i testi, a confrontarci con gli avvocati. Ad esempio, l’Avvocato Paggi è già stato qui da noi, per un confronto; come pure l’Avvocato Aurora D’Agostino, il Magistrato Giovanni Palombarini. Abbiamo cominciato a raccogliere notizie, sulle varie esperienze che il volontariato e le istituzioni mettevano in atto in tutta Italia, per il trattamento penitenziario e l’accompagnamento (cosa più difficile da mettere in atto) degli stranieri al termine della pena. Abbiamo poi raccolto tutto questo, tutte queste esperienze, producendo un manuale di sopravvivenza al carcere. L’abbiamo chiamato così: “Guida per i detenuti stranieri nelle carceri italiane”. E producendo anche il CD Rom “Un anno di Studi sociali e giuridici”, nel quale un’ampia sezione è dedicata all’immigrazione ed ai problemi dei detenuti stranieri in particolare.

 

Il progetto dell’Ufficio Stampa – Centro Studi è stato rifinanziato per il 2001, quindi il nostro Ufficio continuerà a lavorare, continuerà a raccogliere ed a produrre materiali: credo che si tratti di un’esperienza molto interessante, anche perché nasce da un’idea e un’esigenza di noi detenuti che, con il necessario sostegno dei volontari esterni, abbiamo presentato alla Regione partecipando ad un bando riguardante le attività culturali nelle carceri.

 

Vorrei concludere con questo pensiero: il carcere sarà sempre e comunque un luogo dove si soffre, però è un luogo dove è possibile anche fare cose interessanti. Molti di voi fanno volontariato in carcere, altri sono operatori, altri sono detenuti come me: penso che, se siamo riuniti qui, crediamo tutti che l’idea di vivere un’attività che permetta alle persone di recuperare le loro risorse, magari smarrite per strada, o di sviluppare le potenzialità che hanno, sia una bella avventura umana. Non è un’avventura che si fa ai tropici, è un’avventura che si può fare qui, tra noi: è un’avventura umana degna di nota, che vale la pena di essere vissuta, e per noi è importante che venga vissuta. Adesso passo la parola al mio compagno Omar.

 

Omar Ben Ali (Redazione di Ristretti Orizzonti)

 

Buongiorno a tutti, sono Omar, redattore straniero di Ristretti Orizzonti. Sono stato inserito in redazione dopo aver trascorso un buonissimo anno scolastico, per cui voglio innanzitutto sottolineare l’utilità della scuola all’interno degli Istituti di Pena. Attualmente sono un detenuto “esemplare”, per come mi comporto e per come vivo il carcere, svolgendo attività e tutto il resto. Però devo dire che, prima che frequentassi la scuola, ho dovuto sbagliare talmente tanto che non potevo più sbagliare. A scuola mi sono accorto che il carcere offriva qualcosa; da lì ho cominciato a vivere il carcere in maniera positiva. Questo mio modo di vivere il carcere mi porta anche ad usufruire dei benefici, ad avere soddisfazioni per me stesso.

 

La presenza degli stranieri in carcere sta diventando sempre più significativa e, quello che capita spesso, è che noi stranieri arriviamo in carcere dopo aver vissuto in questo paese esperienze infelici e sempre più brevi. Questa è una conseguenza della nostra ignoranza della lingua, e poi anche della mancanza di un’adeguata accoglienza. Quello che accade in carcere è che noi stranieri non sappiamo orientarci, non sappiamo a chi rivolgerci, per cui facciamo fatica ad adattarci all’ambiente carcerario e ad entrare nell’ottica del trattamento penitenziario. Noi stranieri siamo male informati sui nostri diritti e doveri e la formazione di cui avremmo bisogno potrebbe essere fornita dalla mediazione culturale, sia fuori che dentro il carcere. Ci sono detenuti stranieri che, attraverso la loro esperienza carceraria, hanno acquisito la competenza per poter assumere il ruolo di mediatore culturale: attraverso la mediazione culturale noi stranieri possiamo acquisire la consapevolezza della nostra realtà, dei nostri diritti e dei nostri doveri. Inoltre, sempre attraverso la mediazione culturale, potrebbe essere migliorato quel rapporto del detenuto straniero con la Polizia Penitenziaria, con i volontari, con gli operatori e con i compagni italiani. Per concludere, voglio ringraziare tutti voi, in special modo tutti i nostri ospiti. Con affetto, vi auguro buon lavoro.

 

Franco Corleone (Sottosegretario alla Giustizia)

 

Ringrazio per questa iniziativa, che mi pare straordinaria e anche, in qualche misura (come sempre forse le cose che si fanno sul carcere), molto contro corrente, perché il senso comune della società, della società politica dell’informazione, è tutto concentrato sulla lunghezza d’onda che è specularmente opposta a quella che ha spinto e spinge a trovarsi qui a ragionare.

 

Quindi, lo sforzo che viene esercitato, lo sforzo d’intelligenza in un seminario di questo genere, deve avere l’ambizione di uscire dalla nicchia dei protagonisti delle azioni positive, ma porsi anche il problema se si riesce a cambiare il senso comune. Senso comune molto forte, dicevo, nella società, nella classe politica e nell’informazione. Non è poco lo schieramento che c’è di fronte e a cui occorrerebbe rispondere con la misura, la capacità, l’illustrazione delle buone cose che si fanno, ma anche con la capacità di cambiare questo senso comune.

 

Il ragionamento che si può fare non può non partire dal tema della sicurezza, come è stato declinato in questo lungo, lungo periodo, di più di un anno. Io penso che il problema della sicurezza s’interseca col problema del carcere, col problema degli stranieri, degli immigrati e non è un problema solo italiano.

 

L’insicurezza, l’enfatizzazione delle insicurezze e addirittura la paura di vivere, sono temi che riguardano le nostre società, le società ricche: riguardano le città, riguardano la condizione delle relazioni umane nelle periferie, e quindi riguardano, ancora, anche le persone più deboli della nostra società.

 

La paura non è buona consigliera e noi dobbiamo fare i conti con questo sentimento che c’è, che non viene scalfito neppure se si riescono a produrre dei dati che dicono come i reati diminuiscano. In realtà, ciò non è convincente, perché di fronte ad un sentimento diffuso si può solo agire entrando in una dimensione che non è quella della statistica, ma quella del progetto culturale, del progetto politico, e qui si misura la capacità di una classe dirigente, nella capacità di dare un modello di relazioni umane diverso.

 

Penso che l’Italia ha maggiore difficoltà di altri Paesi ad affrontare il tema dell’insicurezza, anche se è un tema diffuso nell’Europa, nei paesi ricchi, perché noi abbiamo scarse esperienze di convivenza con persone di altri Paesi, con altre storie, altre culture, altre lingue. Le esperienze coloniali o imperiali dell’Italia sono state confinate in episodi che hanno aumentato un po’ il discredito del nostro paese nel mondo, ma niente di più.

 

Altri Paesi che hanno avuto storie coloniali, imperi, seppur partendo dalla dominazione e dall’avere sudditi, hanno comunque avuto relazioni diverse. Noi partiamo da una difficoltà anche di questo genere e la paura é innanzitutto la paura del diverso, e il diverso è il malato (e, quindi, la paura è per il malato di AIDS), il matto, lo straniero, e il diverso accentua questo clima di insicurezza, di paura.

 

Una società che vive rinchiudendosi nelle case come se fossero prigioni, è chiaro che è una società che rischia di depotenziarsi, impoverirsi nelle relazioni. Se gli anziani non escono più di casa perché hanno paura che gli venga rubata la pensione, se una donna ha paura di uscire di giorno, di sera, di notte, è chiaro che è una società che si impoverisce nelle relazioni.

 

È un po’ un tormentone, forse che ripeto molto spesso, ma la città è nata per rendere le persone più libere e, in questo senso, il problema della sicurezza va affrontato in funzione della maggiore libertà di tutti. Noi non possiamo pensare alla sicurezza come ad un problema di polizia, di ordine pubblico: noi dobbiamo pensare se questo problema della sicurezza è in funzione della garanzia di maggiore libertà per tutti.

 

È chiaro che questo significa affrontare i nodi sociali, culturali, lo stato delle periferie, la povertà, affrontare lo stato sociale nelle nostre società ricche. Quale stato sociale oggi, rispetto a quello di decenni fa; qual è il modello di stato sociale adeguato all’oggi? Sono tutti temi e problemi che hanno una relazione con questo seminario.

 

Mai come in questi anni si è approvata una serie di provvedimenti importanti sul problema del carcere; il limite che io ho colto, nella nostra azione di questi anni, è che non siamo riusciti completamente a far percepire che questi provvedimenti non erano singoli episodi: la scarcerazione per i malati, la legge sul lavoro, il Regolamento, e così via, potremmo continuare con un elenco lungo. Far comprendere che tutto questo era in funzione di un progetto, che noi abbiamo chiamato, in questi anni, il progetto del carcere trasparente, di un luogo in cui il principio costituzionale diventasse azione politica coerente e costante, perché i principi della Costituzione sono sempre invocati come cosa nobile.

 

Il problema è quello di trasformare le tante leggi buone in politica quotidiana costante, per fare questo ci vuole un progetto, bisogna cambiare le teste e bisogna avere risorse, tutte cose non facili. In realtà è più facile avere le risorse che cambiare le teste: cambiare le teste richiede di essere convincenti, cioè di far partecipare alla condivisione di un progetto tutti quelli che lavorano nel carcere, ma anche i detenuti.

 

Ho sofferto molto tutta la vicenda giubileo-indulto-amnistia, perché ho sentito il peso della speranza, del miracolo che annullava la fiducia nella riforma. Per un anno abbiamo avuto la convinzione diffusa che un miracolo ci sarebbe stato e, nel momento in cui il miracolo non c’è stato, c’è un clima di depressione, di frustrazione, che porta a dire: “va beh, insomma, è andata male”. E non c’è la convinzione del lavorare per la riforma del carcere, che è invece il punto fondamentale, che deve trovare in realtà una mobilitazione forte, sennò non si riforma una istituzione totale.

 

Qualcuno potrebbe dire che è irriformabile; io penso che, dalle cose che sento leggo e vedo, in realtà vi siano dei processi di cambiamento. Il problema è che c’è necessità di organizzare questo sistema di isole, più o meno felici, e farle diventare invece un sistema di relazioni molto meglio collegate.

 

Quindi il problema del carcere lo vedo in questo modo: ricostruire un tessuto di fiducia nel cambiamento; le condizioni ci sono, io penso, perché ci sono le leggi, le norme e ci sono oggi anche le risorse, il personale. Certo, tutte cose che hanno bisogno di un minimo di tempo, di sedimentazione, ma all’interno del carcere vi è questo problema straordinariamente forte che è la presenza di questa percentuale di detenuti non italiani.

 

Non so mai come ben chiamarli, perché poi li etichettiamo come stranieri immigrati. In realtà, penso che dovremmo abituarci sempre a parlare delle diverse componenti, perché ci sono appunto persone che hanno una storia e quindi hanno un Paese, insomma non sono stranieri. Ecco perché, poi, se diciamo stranieri, è come dicessimo diversi: nella società i diversi, in carcere gli stranieri, e invece ci sono persone con un nome e un cognome, sperando che lo diano giusto. Ci sono persone che provengono da Paesi e che hanno una loro identità, e noi dobbiamo conoscere le identità, perché se non conosciamo le culture e le identità diventa difficile avere rapporti.

 

Sento spesso che, quando parliamo di questo problema, facciamo l’elogio della galera, perché diciamo: “Gli stranieri hanno l’assistenza sanitaria, hanno il codice fiscale, hanno questo, hanno quello”. Poi, in realtà, non hanno anche molte altre cose. Il problema che dobbiamo valutare è “se” e “come” il carcere può affrontare tutto lo spettro di questi problemi.

 

Ho sentito l’obiezione, che mi pare facesse Paggi, che l’espulsione come sanzione alternativa alla pena non è coerente col principio della pena come rieducazione. A me pare un sofisma, questo, ma in realtà è un tema da affrontare certamente: non vorrei che enfatizzassimo anche il fatto che tutto il problema dell’inserimento nella società italiana ed europea di persone che fuggono dalla povertà e dalla guerra lo dovesse risolvere il carcere, col principio costituzionale della rieducazione e del reinserimento.

 

La rieducazione, insomma, non lo metterei in un ruolo così centrale. Quando dico “differenziamo, conosciamo, abbiamo bisogno di conoscere”, lo dico brutalmente: il carcere è anche un luogo di potere, spesso di potere sui detenuti, ma è anche un luogo di potere fra detenuti, fra gruppi di detenuti. Penso che dobbiamo anche avere la capacità di capire se in questo momento, nel carcere del 2001, il problema del potere tra gruppi di detenuti è reale, oppure non lo è. Abbiamo notizie, che arrivano da alcuni istituti, di scontri di buon livello fra componenti e gruppi di nazionalità diverse. È un fatto reale, ma che cosa vuol dire? È vero, allora, che non dobbiamo parlare di stranieri, se addirittura abbiamo una serie di dati che ci dicono che abbiamo degli scontri fisici, non fra detenuti italiani e stranieri (Italia contro il resto del mondo), no, ma fra appartenenti a Paesi diversi.

 

Allora anche questo è un problema da capire, perché altrimenti non possiamo fare le anime belle, pensando che il carcere sia il migliore dei mondi possibili.

 

Io adesso mi fermo e poi, magari, si ragionerà, però voglio buttare anche, non dico degli stimoli provocatori, ma per scavare veramente noi dovremmo capire se dal carcere ci può essere una via alla regolarizzazione.

 

Questo mi pare sia il vero punto. Il resto sono cose su cui possiamo discutere, ma un punto è questo. Nella legge chiamata indultino non si inventa una espulsione nuova, sono espulsioni già previste per tutti. Poi c’è il problema della sua esecuzione, se è anticipata. Ognuno può avere opinioni diverse, ma diciamo che l’espulsione prevista in quel provvedimento è destinata a persone che comunque ce l’avrebbero, prima, o dopo, del processo.

 

Come misura amministrativa di sicurezza, non c’è una nuova categoria di espulsioni. C’è però, in quel provvedimento, un articolo che io avevo suggerito: forse non è la formulazione ideale, che però è quella che dà al volontariato, alle associazioni, una possibilità di essere il referente e l’elemento garante per far usufruire ai detenuti non italiani delle misure e dei benefici dell’Ordinamento Penitenziario. Forse è la prima volta che c’è una norma di questo genere. Probabilmente non diventerà legge, però penso che valga la pena di discutere di questo argomento. Come per quelli che non sono destinati all’espulsione, per i quali c’è la possibilità di lavorare, perché dal carcere ci sia un passaggio alla regolarizzazione, in qualche modo.

 

Per cui non ci sia la contraddizione che in carcere si lavora, si fa il corso, magari c’è il mediatore, ed adesso, con il nuovo Regolamento, abbiamo immesso una serie di diritti ulteriori e poi, quando si esce, c’è la desolazione. Ecco, io spero che da questo seminario, dai Gruppi di Lavoro, giungano delle idee, delle indicazioni per proseguire in questo processo di cambiamento.

 

 

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