Seconda parte

 

Gruppo sociale

Giornata di Studi su 
Carcere e Immigrazione

Casa di Reclusione di Padova - 16 febbraio 2001

Ornella Favero (Redazione di Ristretti Orizzonti)

Volevo ricordare un paio di cose. Il detenuto che è appena intervenuto fa giustamente delle domande molto concrete, che sono poi le domande che i mediatori culturali, lì dove funzionano, si sentiranno rivolgere ogni giorno. Oltretutto le domande più difficili non riguardano nemmeno la vita in carcere, perché il vero buco nero è il dopo. Ovviamente non possiamo pensare di risolvere tutto, ma dobbiamo almeno cominciare ad ipotizzare, a progettare una miglior circolazione delle informazioni. Faccio un esempio banale: sull’accoglienza non ci sono informazioni, le “pagine gialle” con le indicazioni di chi fa accoglienza non esistono, quindi mettersi insieme e collaborare vuole dire anche questo. Quello che vorrei superare non è tanto il discorso del volontariato, perché il volontariato in realtà gestisce tantissime cose con grande efficienza. Quello che vorrei superare è l’isolamento delle singole esperienze.

Vorrei anche fare un appello: ci sono in sala tanti rappresentanti dei sindacati, Cgil, Cisl, Uil. Per esempio la Cgil è molto attiva in altre zone per quel che riguarda il carcere: a Milano collabora all’Agenzia per il lavoro promossa da Cusani, a Firenze gestisce uno sportello per il lavoro che si chiama PILD. Qui a Padova invece è pressoché assente, questa sarebbe un’occasione per coinvolgere anche queste organizzazioni, per fare in modo che il cosiddetto buco nero alla fine della pena non resti tale. E’ necessario quindi creare una base di lavoro comune, per far sì che si sappia quali sono le risorse esistenti, chi fa accoglienza, chi dà lavoro, chi si occupa di consulenze giuridiche, chi di problemi sanitari etc.

Milena Zappon (Progetto Melting Pot)

Io curo uno SPORTELLO INFORMATIVO radiofonico per gli immigrati in sei lingue che va in onda su radio Sherwood. Radio Sherwood fa parte di un consorzio di cooperative e associazioni che oggi pomeriggio dovevano essere qui a seguire i lavori, ed invece non ci sono, perché ieri sera abbiamo avuto la notizia che è stato negato il permesso di entrare e partecipare ai lavori (n.d.r.: dal Magistrato di Sorveglianza) al consigliere comunale dei Verdi di Venezia Beppe Caccia e non si sa assolutamente il motivo di questo diniego. E’ stato fatto un comunicato da parte di queste associazioni e cooperative, che ne motivano l’assenza, invece Radio Sherwood e Radio Evasione, che fanno parte comunque del consorzio, sono presenti al convegno per seguire i lavori e per dare voce ai detenuti, come già fanno in collaborazione con Ristretti Orizzonti ormai da molto tempo. Parecchie volte all’anno infatti teniamo una trasmissione in diretta dall’interno del carcere, dove i protagonisti sono proprio i detenuti.

(Lettura del Comunicato)

Mediatore Culturale Casa Circondariale di Bologna

Vorrei rispondere brevemente alla domanda del detenuto. Io nel mio lavoro quotidiano, quando incontro persone senza il permesso di soggiorno, do loro un consiglio: di approfittare di quello che gli offre il carcere per imparare la lingua, studiare bene, ed anche imparare un mestiere, se ne hanno l’opportunità, e in un certo senso di prepararsi, se c’è la possibilità, per il ritorno al loro paese di origine. Il fatto è che gli sbocchi fuori, qui la legge 40/98 parla chiaro, sono pochissimi, c’è forse una possibilità su 1000 per una persona irregolare di regolarizzarsi sul territorio italiano: la legge 40/98 prevede infatti, in proposito, l’accompagnamento in frontiera e il foglio di via. 

Lia Biagi

Anch’io sono sollecitata dal fatto che un Convegno come questo, tipicamente strutturato sul dentro-fuori, che ha espresso un bisogno fondamentale sul dopo carcere, sul cosa facciamo dopo, debba dare degli indirizzi di azione.

Provo a formulare una proposta di  lavoro per sviluppare in questa direzione, se siete d’accordo, l’operazione di sintesi finale con cui uscire da questo convegno. Moltissimi dei presenti sanno che dal ‘97 sul territorio nazionale si sono strutturati i Centri Territoriali per l’educazione permanente degli adulti. In provincia di Padova ce ne sono nove che coprono tutto il territorio provinciale, di questi 9 molti sono già attrezzati o si stanno attrezzando, ovviamente per dare risposta alla propria utenza, e quindi quelli che hanno maggiore utenza di tipo straniero, di provenienza diversa, sono attrezzati su più fronti: il fronte della mediazione linguistica come prima accoglienza, alfabetizzazione, mediazione culturale, formazione professionale d’intesa con i Centri di formazione professionale del territorio, orientamento al lavoro.

La mediazione culturale è un momento per il quale alcuni di questi centri territoriali ricorrono a personale esperto, per costruire la mediazione di integrazione fra la comunità accogliente e la comunità migrata. Allora il problema della mediazione culturale non è un problema dell’immigrato, ma della comunità totale che lo accoglie. Quindi, la mediazione culturale va fatta in primo luogo e in maniera molto più forte sulla comunità accogliente, insieme alla comunità che è arrivata. Su questo discorso i Centri Territoriali si sono attrezzati per gli adulti che accolgono, ma anche per i minori che stanno nelle scuole sedi di questi Centri Territoriali.

In che termini questo può interessare al detenuto nel momento cui esce dal carcere? Per prima cosa ci sono già delle intese, i nuovi Centri Territoriali della Provincia di Padova sono in rete, e c’è già l’intesa che un percorso formativo, iniziato all’interno del carcere, nel momento della fine della pena può essere continuato e concluso fuori dal carcere nei Centri Territoriali; secondo, c’è già un’intesa per la quale percorsi di formazione professionali iniziati all’interno del carcere, o comunque momenti di riferimento con percorsi di formazione professionale fatti nei centri territoriali, sono già possibili, realizzabili, basta semplicemente che il detenuto ricorra, nell’area in cui va poi a collocarsi, al Centro Territoriale che gestisce in qualche misura quell’area, quindi un’offerta formativa fino al livello professionale c’è e c’è l’orientamento al lavoro per quei Centri Territoriali che, d’intesa con i C.F.P. (Centri di Formazione Professionale) si sono attrezzati per fare un discorso di orientamento al lavoro.

Una cosa non possono fare i centri territoriali, anzi due: poiché si tratta di una struttura scolastica, i centri territoriali non forniscono la casa e non forniscono il lavoro, però sono in stretto contatto con le associazioni di volontariato, che in sede territoriale in qualche modo si occupano della possibilità di fornire alloggi, che è una possibilità estremamente limitata, ma voglio dire che anche il centro territoriale è un organismo che può far pressione o comunque costruire un momento informativo per trovare risposta, attraverso l’ente locale o le associazioni di volontariato di quel territorio, sulla questione alloggio, che è una questione difficilissima. E’ logico quindi che una struttura scolastica non sia in grado di risolverla, così come non può fornire lavoro, però fornendo il percorso di orientamento al lavoro i CTP costituiscono uno sportello, sul quale l’adulto che ha bisogno può contare per contattare le ditte, le imprese, le cooperative, i servizi di avviamento al lavoro che in quel territorio operano e che hanno contatti con le sedi lavorative disponibili a collaborare. Io credo allora che sia importante che circoli l’informazione attraverso strutture come la vostra, attraverso strutture come quella radiofonica della quale abbiamo sentito parlare adesso, attraverso le strutture informative sul fatto che chi esce ha la possibilità comunque di rivolgersi a una realtà istituzionale, che è quella dei C.T.P., che fa questo tipo di servizio. 

Elena Casiello Manfredi (Presidente di “Popoli Insieme”)

Io penso che il problema più importante, ed è quello su cui il detenuto che è intervenuto ha chiesto delle risposte, è il problema della casa. Noi sono 10 anni che ci occupiamo della casa, per i primi 5 abbiamo usato il metodo di Unica Terra, e ospitavamo solo immigrati con il permesso di soggiorno e con il lavoro, però secondo me questa situazione era tipica di 10 anni fa, cioè un lavoratore che oggi ha un lavoro e ha un permesso di soggiorno deve avere il diritto ad una casa sua, non a stare in un ambiente con gente sconosciuta, e quindi noi da 5/6 anni ci rivolgiamo proprio a quelli che arrivano, come prima accoglienza; limitandoci però esclusivamente a rumeni e moldavi, perché abbiamo visto che è meglio avere una unica cultura, appunto perché noi abbiamo una prima accoglienza e diamo solo da dormire. Per questa attività abbiamo trovato un alloggio, che ci hanno dato gratuitamente i rogazionisti, e quindi questo alloggio comporta 14 posti letto, una camerata di 7 letti, un’altra camerata di altri 7 letti, dove possono stare dalle 8 di sera fino alle 8 della mattina, ma durante il giorno non possono starci.

La nostra attività poi prevede, sempre con l’accordo dei rogazionisti, che di notte ci sia un volontario, cioè una persona della nostra associazione, e naturalmente di giorno è più difficile trovare il volontario, soprattutto al sabato e alla domenica questi lavoratori vorrebbero rimanere a casa, a riposare, quindi è molto difficile far rimanere gli ospiti nella casa durante il giorno, perché ci vuole sempre un volontario vicino; il problema qual è, è che in un anno, l’anno scorso soprattutto, e anche da tre anni a questa parte, le domande sono 60, 70, 100 domande ogni anno e noi possiamo rispondere solo a 14 persone, purtroppo durante il 1999 e il 2000 siamo stati “deboli”, per cui li tenevamo come prima accoglienza un mese o due mesi, invece alla fine li tenevamo un anno, o meglio 9 mesi perché d’estate siamo costretti a chiudere sempre perché ci sono i volontari che vanno in vacanza. Dopo non riusciamo a mandarli via, perché se li mandiamo via non sanno dove andare, quindi vanno di nuovo nelle case abbandonate. Un’altra cosa che devo dire é che anche noi lavoriamo  un po’ nella clandestinità, perché tutti sanno che molti di loro sono clandestini, però nessuno lo vuole sapere, noi ufficialmente non lo possiamo dire che sono clandestini, per cui in rete siamo in contatto con altre associazioni, soprattutto Parrocchie, che hanno messo a disposizione dei letti, però sempre non potendo uscire allo scoperto per il lavoro che facciamo. In realtà non riusciamo a metterci in rete, perché abbiamo parlato anche con la Caritas, con altri, e io ricevo sempre  telefonate da tante associazioni, e ho detto sempre: facciamo un ufficio in cui ci sia un elenco di letti disponibili. Purtroppo bisogna dire che ce ne sono pochissimi, di letti, e anche le parrocchie hanno pochissimi letti disponibili, eppure la gente mi telefona da ogni parte per cercare un letto, e io cerco di accogliere tutti, l’unica cosa è che siano rumeni o moldavi.

La mia difficoltà è rifiutare il letto, ma quest’anno per la prima volta al 20 Gennaio, e per fortuna quest’inverno è stato molto caldo, abbiamo dovuto mandare via della gente, perché ci eravamo proposti di non tenerli più di 3 mesi; alcuni non avevano trovato un’altra sistemazione, quindi sono andati di nuovo a dormire nelle case abbandonate, e questa è una cosa che mi dispiace, però abbiamo detto che dobbiamo dare la possibilità ad altri di poter utilizzare questa struttura.

Un altro problema è che molti lavorano e pochissimi sono quelli che non riescono a trovare lavoro, ma purtroppo vediamo che alcuni datori di lavoro non vogliono mettere in regola queste persone; un’altra difficoltà è che io do anche l’impegno di ospitalità qui per mettere in regola il lavoratore, e naturalmente ho tantissime domande, ma ho sempre 14 letti e continuo a fare la promessa di ospitalità. Per fortuna alcuni, messi in regola, non sono tornati a dormire da me, però questa è la situazione che io vivo ogni giorno. Una cosa che abbiamo fatto con queste associazioni l’anno scorso è che siamo riusciti a scrivere una lettera al Sindaco a al Vescovo, per invitarli a occuparsi del problema della casa per immigrati che hanno il permesso di soggiorno (perché ufficialmente gli altri non esistono), ma non abbiamo avuto risposta, eppure la cosa più importante per tutte le istituzioni, per tutti quelli che non vogliono che ci sia disordine anche a Padova, è la casa, individuare un qualsiasi metodo per trovare le case. Noi siamo disponibili, ma se ci fossero più centri di accoglienza di questo tipo, anche molto piccoli, io potrei dare una mano per vedere come si possono gestire, però ce ne vogliono tanti.

Ornella Favero (Redazione di Ristretti Orizzonti)

Solo una precisazione su questa questione dell’alloggio. Quando l’anno scorso c’è stata la campagna a favore di un provvedimento di amnistia e indulto, c’è stato un forte impegno di moltissime associazioni di volontariato, cooperative, comunità di accoglienza etc. soprattutto su iniziativa di Sergio Cusani e Sergio Segio. Sono state dunque coinvolte tantissime realtà dell’accoglienza su un’ipotesi di Piano Marshall per le carceri. Si diceva in sostanza: i politici concedano l’amnistia e l’indulto e promuovano però anche iniziative per il reinserimento delle persone scarcerate, da parte nostra, associazioni e operatori, siamo pronti ad accogliere detenuti ed ex detenuti nelle nostre strutture. Allora io mi domando: dal momento che non c’è stata l’amnistia né l’indulto, comunque queste realtà che erano pronte ad accogliere detenuti ed ex-detenuti dove sono andate a finire? Il fatto è che queste realtà sono ancora troppo disperse e non si riesce poi a raccogliere e a concretizzare niente su questo piano. Qualche volta mi sembra che le campagne politiche abbiano uno spazio molto superiore a quello che viene lasciato alle questioni sociali. E così, sfumati amnistia e indulto, tutti quelli che si erano impegnati su questi temi, tutte le 600 e più case di accoglienza e cooperative, che erano disponibili, sembra siano tornate nell’ombra.

Don Matteo Pinton (Istituto S. Gaetano di Vicenza)

Sono uno dei responsabili del progetto Jonathan, probabilmente qualcuno di voi ne ha già sentito parlare. Il nostro progetto è sorto una quindicina di anni fa, e si prefigge proprio di occuparsi della prima accoglienza dei detenuti che escono dal carcere, ma finora in gran parte si è occupato di permessi premio, di affidi, a volte anche di arresti domiciliari. Finora abbiamo sempre agito in forma di volontariato, e ci siamo occupati soltanto, in cooperazione con altre cooperative e associazioni, di detenuti non tossicodipendenti, perché non ci sentiamo all’altezza di curare questo determinato aspetto. Adesso con la Caritas di Vicenza ci stiamo appunto perfezionando per aprirci proprio alla primissima accoglienza appena fuori dal carcere. Sempre con la Caritas abbiamo trovato, attraverso la fondazione di un Istituto Bancario, una sovvenzione per pagare tre operatori e per le spese generali, abbiamo 5/6, quasi una decina di posti letto, però i problemi sono molto grossi.

Il contributo per esempio di questo istituto bancario, della fondazione della Cassa di Risparmio, ci viene dato per un anno soltanto, e poi per gli altri anni? Quindi noi ci daremo da fare per trovare una convenzione presso il Ministero di Giustizia, tenteremo anche questa strada.

Altro fatto importante è questo: per quanto riguarda le richieste che vengono accolte, se non hanno una corsia preferenziale per poter  ottenere permessi di soggiorno o altro, dopo un anno, dopo quei sei mesi, dopo quei nove mesi di ospitalità che diamo, cosa possiamo fare per loro?

Bisogna poi dire che le persone che vengono dentro in questa struttura di accoglienza non sono persone qualsiasi, con un rapporto semplice, del tipo “ti mando una lettera e vengo”, le dobbiamo seguire per lungo tempo, effettuare colloqui etc., ma di solito sono persone che danno un certo affidamento: ora sarebbe una cosa molto interessante se il carcere producesse dei documenti di buona condotta come li produce per esempio durante il periodo di detenzione, che potessero consentire a questa persona di avere una corsia preferenziale, per potersi in qualche modo inserire, avere i documenti, sarebbe una cosa interessantissima. Altrimenti veramente noi navighiamo sempre nel vuoto, con la buona volontà, e con la carità cristiana per chi ha un po’ di fede; con il senso di solidarietà, però dopo? E l’efficacia di questo nostro intervento dove va? Quando magari dopo un anno siamo costretti a dire: guarda, è un anno che tu sei qui, ora dobbiamo dar posto a qualche altro. E questa persona dove va? Oppure dobbiamo rimanere per dieci anni sempre con le stesse persone? Anche perché, voi lo sapete meglio di me, pure nell’ambito del mondo lavorativo spesso ci sono dei pregiudizi. Dovrebbero esserci delle garanzie, anche da parte del carcere, degli psicologi, da parte delle strutture che si occupano di queste situazioni, garanzie che accompagnino, che sostengano queste persone e che le accolgano e in qualche modo aiutino ad inserirsi nelle aziende. Io credo che a volte invece, per mancanza di queste garanzie, ci sentiamo veramente  molto inefficaci, con molta buona volontà, ma inefficaci poi  in concreto.  

Donatella Zoia (Medico penitenziario a San Vittore)

Mi è stato chiesto un intervento sul problema sanitario in carcere per quel che riguarda le persone straniere. Io questo problema l’ho inquadrato con un “prima” e con un “dopo”, che sono questi: l’Art.35 e in generale tutta la normativa relativa al Testo Unico e alla sua attuazione attualmente prevedono che agli stranieri, anche ai non regolari, vengano garantite prestazioni sanitarie. Non so se lo sapete ma la normativa precedente garantiva solo le prestazioni d’urgenza, questa no, questa garantisce le cure ambulatoriali ed ospedaliere essenziali e continuative e quelle d’urgenza, garantisce gli interventi di medicina preventiva e le prestazioni ad essa correlate, la tutela della gravidanza e della maternità, la tutela della salute del minore, le vaccinazioni, gli interventi di profilassi internazionale, la profilassi e cura delle malattie infettive, e, cosa abbastanza unica, tutte le cure previste dal testo unico di disciplina degli stupefacenti.

Mi sembra che con questa normativa si dia ampio spazio alla tutela sanitaria delle persone straniere anche non regolari. Purtroppo la realtà è un’altra, ed è che ancora oggi chi entra in carcere, anche se è in Italia da diverso tempo, ha nella struttura penitenziaria il primo luogo in cui si può effettuare una effettiva presa in carico sanitaria. Ma purtroppo il carcere non fa una vera e propria presa in carico, la struttura penitenziaria è attrezzata su due cose essenzialmente: una è l’emergenza e quindi gli interventi nell’ambito del pronto soccorso, degli interventi d’urgenza, degli interventi sulla singola situazione e non sul problema, e la seconda è quella non della presa in carico della salute del detenuto, ma della tutela della struttura, cioè la struttura penitenziaria agisce perché venga in qualche modo esclusa qualunque sua responsabilità dal non garantire il diritto alla salute sancito dalla costituzione. Questa non è una riflessione mia, ma è una riflessione che ha fatto dopo un anno di lavoro la Commissione che doveva occuparsi proprio della valutazione del servizio sanitario penitenziario rispetto a quella che era la legge di passaggio al servizio sanitario pubblico, appunto, del servizio sanitario penitenziario, e che non è stata ancora attuata, e probabilmente non lo sarà mai.

Allora questo significa due cose. Significa che sebbene all’interno del carcere anche la salute dello straniero sia tutelata allo stesso modo di quella di un italiano, cioè l’accessibilità alle cure all’interno è la stessa, di fatto mentre all’italiano o comunque alla persona che ha gli strumenti cultural, e anche la possibilità di movimento, di farlo, questo garantisce anche poi una presa in carico all’esterno del carcere, per lo straniero non è così. Questo avviene per una serie di motivi, che vi elenco rapidamente. Innanzitutto il carcere non fornisce in automatico nessuna documentazione sulle cure fatte e sulle patologie sofferte dalle persone, e questa è a mio avviso una cosa gravissima, ma in ogni caso è una cosa che la legge di riforma del servizio sanitario penitenziario prevedeva di eliminare dando ai detenuti una scheda sulla loro salute. Siccome la legge di riforma è ferma, anche di questa cosa non si è più parlato, ma cosa significa? Significa che la persona, con strumenti suoi, prima dell’uscita si attiva per avere una documentazione che dica almeno le medicine che ha preso e gli accertamenti che ha fatto. La persona straniera nel 99 % dei casi non è in grado nemmeno di formulare questa richiesta. Il secondo problema è che, malgrado tutta la normativa vigente, i servizi esterni territoriali hanno grandissima difficoltà a prendere in carico le persone straniere, o in generale quelli che non hanno residenza. Ancora adesso e malgrado questa normativa, noi non siamo riusciti a inserire un malato di mente in un C.P.S. di Milano e provincia (i C.P.S. sono Centri di Servizio Psichiatrico territoriali); malgrado diagnosi psichiatriche, fatte, documentate, materiale inviato, non siamo ancora riusciti a inserirne uno, non straniero, ma neanche italiano, se non era già stato preso in carico in precedenza. Questo la dice lunga su come il carcere sia ancora oggi, malgrado una serie di leggi che dovrebbero avere superato questo problema, assolutamente isolato rispetto al resto del territorio.

Il terzo problema è quello delle persone tossicodipendenti. Sapete che l’organizzazione mondiale della sanità definisce la tossicodipendenza come una malattia cronica, pertanto questo dovrebbe garantire, oltre a parità di cure, anche il diritto al permesso di soggiorno temporaneo per gli stranieri per trattare il problema della tossicodipendenza. Allora l’unica cosa di cui io voglio illudermi è che, anche grazie al lavoro che noi abbiamo fatto dal carcere, segnalando ai servizi le persone tossicodipendenti straniere o senza fissa dimora, mandandogli la documentazione sanitaria ed in qualche modo obbligandoli a una presa in carico, forse anche grazie a questo la Regione Lombardia nel mese di ottobre scorso si è espressa, credo prima tra le Regioni, dicendo che anche per i tossicodipendenti stranieri sta al Sert di domicilio dichiarato dalla persona la sua stessa presa in carico, anche economica, per il trattamento esterno. Questo è un primo passo, molto significativo anche se è solo una cosa iniziale, e che però ci dice in qualche modo la strada da perseguire. Come ha detto qualcuno prima, io credo che sia compito del carcere, che bene o male diventa bacino di raccolta di tutte le nuove emarginazioni e di tutti questi nuovi problemi, sollecitare il territorio, per una presa in carico quando le normative lo permettano o per una sollecitazione, quando non lo permettono.

Rossella Favero (Insegnante del Centro territoriale permanente per l’istruzione e la formazione in età adulta - Scuola “Parini” di Camposampiero (PD), nonché coordinatrice della Rassegna stampa del Centro di Documentazione Due Palazzi)

Insegno in questo istituto e faccio parte di un C.T.P., cioè un Centro territoriale permanente per l’istruzione e la formazione in età adulta, quella “cosa” di cui Lia Biagi, dirigente scolastico del Centro Territoriale di Piove di Sacco, parlava poco fa. Quindi io dipendo dal Ministero della Pubblica Istruzione. Lavoro qui da qualche anno e credo che da un punto di vista istituzionale ci sia uno spazio enorme, con la normativa e con la realtà attuali, vigenti.

Forse noi, qui nella Casa di reclusione di Padova, un po’ di questo spazio lo stiamo occupando in positivo, alcune cose le stiamo facendo, ma, ripeto, perché c’è lo spazio a livello di normativa.

In questo istituto noi gestiamo: cinque corsi di alfabetizzazione, tre corsi di scuola media (rivolti sia a italiani che a stranieri); c’è poi un’altra attività particolare che dipende da noi, l’attività della Rassegna Stampa, che ha collaborato all’organizzazione di questo Convegno odierno. Sottolineo, perché è importante, che si tratta di un’attività che fa parte di un’offerta formativa molto ampia, che comprende la scuola superiore (Istituto Tecnico Commerciale “Gramsci”) e vari corsi organizzati anche da altre istituzioni o da privati.

Credo che la nostra scuola sia “centrale” per gli stranieri, perché con l’alfabetizzazione si parte proprio dalla lingua e dall’elemento, dallo strumento primo della comunicazione. È un po’ quanto avete visto e ascoltato questa mattina quando avete sentito la storia di Omar e anche la storia di Nabil, che sono forse un po’ emblematiche di questo percorso “diverso”, che può iniziare partendo da un approccio con la lingua italiana. All’inizio la lingua italiana può anche essere qualcosa che si odia, perché è la lingua di chi ti ha messo in galera. Ma è proprio qui, forse, che si sblocca il meccanismo della comunicazione e quindi può cominciare questo percorso virtuoso.

A partire sempre dalla normativa della scuola si possono fare altre attività. Noi per esempio come équipe di insegnanti, siamo in dieci, in questi ultimi tre anni abbiamo realizzato anche attività esterne, siamo usciti (con decine e decine di detenuti) per visite di istruzione, incontri con scolaresche, partecipazione ad Expo-scuola e Civitas..

Quindi, ecco un’altra opportunità che attraverso la scuola e l’istruzione si può offrire soprattutto agli stranieri che non hanno famiglia, non hanno altre occasioni d’uscita e di usufruire dei benefici.

 Dunque il percorso è abbastanza costruttivo e ricco di offerte. L’approccio alla lingua poi continua, dopo l’alfabetizzazione, nella scuola media: i corsi sono misti, stranieri e italiani di diverse regioni, quindi ci sono sia l’incontro culturale che lo scontro, naturalmente. Non è un percorso semplice, anzi è problematico, ma anche ricco di opportunità.

E poi, attraverso la scuola, il percorso può giungere ad altre attività, come nel nostro caso la Rassegna Stampa, esperienza molto analoga a quella di Ristretti Orizzonti.

Rassegna Stampa, sempre coordinata dal nostro Centro territoriale, è proprio anche un luogo di incontro delle diverse culture. Ad esempio vi si parlano cinque o sei lingue diverse, e vi si svolge un lavoro di organizzazione e di formazione sul campo, continua. Questo vuol dire che le diverse culture e forme mentali si incontrano e si scontrano producendo molto di positivo ed a volte problemi, comunque dei cambiamenti.

Quindi possiamo dire che naturalmente come operatori delle istituzioni scolastiche abbiamo un ruolo importante nell’integrazione.

In questa realtà dobbiamo rivedere completamente il nostro modo di pensare e di insegnare. Faccio qualche esempio banale: ad esempio, se io insegno storia e propongo uno schema di periodizzazione classico, “nostro”, devo rendermi conto che la periodizzazione umanistica ha scarso significato per un magrebino, che ha una cultura e una storia diverse.

Però io credo anche che avvenga nel confronto/scontro qualcosa di molto importante; è importante capire le altre culture, ma anche fare capire le nostre regole, le nostra cultura agli stranieri; ci deve sempre essere questo momento di mediazione.

A me piace insegnare a leggere la Costituzione e non è facile neanche con gli Italiani detenuti; è molto difficile, però è giusto farlo anche con gli stranieri, e allora lì avviene una elaborazione culturale in cui anch’io ho diritto di affermare la mia identità, la mia storia, la mia cultura delle regole. Credo che su questo terreno avvenga l’incontro.

Un’ultima cosa sul piano della formazione nostra come insegnanti in carcere. Sono qui presenti anche dei rappresentanti dell’IRRSAE Veneto che da due anni hanno proposto una sperimentazione di formazione congiunta tra operatori della scuola e operatori delle strutture penitenziarie (agenti della Polizia Penitenziaria con cui lavoriamo e che ci stanno aiutando a condurre questa giornata, educatrici, psicologi, assistenti sociali…). E’ importante in particolare per quanto riguarda l’approccio agli stranieri, per affrontare culturalmente questa nuova realtà.

Penso che debba essere una crescita fatta insieme, per capire che a volte senza volere si toccano sensibilità a noi sconosciute, come nell’esempio che faceva prima il mediatore culturale, dell’albanese e del significato attribuito alla parola “maleducato”; vedevo gli albanesi, i detenuti albanesi, che assentivano; a volte conoscere queste piccole cose ci aiuta ad affrontare in modo diverso il nostro lavoro.

Ornella Favero (Redazione di Ristretti Orizzonti)

E’ naturale che qui stiamo semplicemente mettendo sul tappeto tutti i problemi. Un’ultima cosa va comunque aggiunta: noi stiamo chiedendo dei contributi a tutti gli operatori che partecipano a questo convegno, se ce li inviate noi ci occuperemo di farli circolare. Credo che abbiamo abbastanza dimostrato che, dal punto di vista dell’informazione, in questo carcere si fa moltissimo, quindi, mi pare che ora il nostro impegno debba essere di diffondere di più le informazioni che riguardano progetti, finanziamenti, fondi disponibili. A noi piacerebbe anche, insieme ad altri, affrontare questo tema seriamente, creando una struttura, un coordinamento che si occupi nello specifico di come si spendono i soldi per il carcere.

Ne parleremo comunque presto, perché la redazione di Ristretti Orizzonti sta elaborando alcune proposte in proposito.

Professor Giuseppe Mosconi (Docente di Sociologia del Diritto alla Facoltà di Scienze Politiche, Università di Padova)

Io volevo riproporre alcune questioni, perché nel tempo che ci resta possano venire ulteriormente approfondite. Così, ascoltando gli interventi che si sono susseguiti, ho focalizzato appunto alcuni nodi che mi sembrano accomunare molti discorsi, a partire dalla definizione di quello che è uno dei temi centrali di questo incontro, cioè la Mediazione Culturale. Prendiamo le due parole e analizziamole per quello che possono voler dire: Mediazione può semplicemente voler dire comunicazione, cioè trasmissione di contenuti, di significati, secondo codici che li rendano comprensibili; ma vuole dire anche raggiungimento di una composizione, in qualche modo, di punti di vista diversi e di aspettative diverse perché trovino una qualche forma di accordo. Culturale, può voler dire mettere le culture in una situazione di comunicazione tra di loro, e quindi ci riferiamo più immediatamente al discorso della lingua o semplicemente al confronto dei modi diversi di pensare, delle diverse religioni, o visioni del mondo, diciamo così, o dei diversi problemi. Ma se la vediamo nel senso più sostanziale, la cultura non è solo fatta di contenuti, non è solo fatta di saperi, ma è fatta di rapporti, è fatta di esperienze, è fatta di collocazione delle persone in relazione a dei problemi concreti che hanno.

Allora mi sembra che nel momento in cui noi affrontiamo questo tema della mediazione culturale, possiamo dare una definizione debole e una definizione forte: quella debole può semplicemente riferirsi a una trasmissione di contenuti diversi, secondo dei codici comprensibili, quindi dei linguaggi che li rendano trasmissibili; la definizione forte invece, e questa dovrebbe essere la via da approfondire, significa mettere a confronto esperienze, bisogni, richieste diverse, quelle della società che arriva e quelle della società che accoglie, perché trovino una forma di ridefinizione e di coesistenza civile, all’insegna della soddisfazione dei bisogni di tutti. Tra questi due riferimenti che io cerco di schematizzare, mi sembra che si collochino molti problemi. Quello che un poco può spaventare, mi sembra di capire dalle esperienze che abbiamo sentito, è la solitudine in cui si trova il mediatore culturale oggi, cioè si trova ad essere da un lato il collettore di domande, di richieste che è in grado di decodificare secondo il linguaggio della comunità ospitante, ma non ha nessun potere, nessuna possibilità di far sì che questi contenuti prevalentemente linguistici o culturali nel senso debole diventino invece un contenuto forte, che sia tale da creare effettivamente delle opportunità, da cambiare delle condizioni concrete, in cui i bisogni sostanziali possano venire soddisfatti; il che significa la mediazione nel senso più pieno e nel senso più intenso.

Da questo punto di vista mi sembra che quello che è emerso sia in qualche modo descrivibile, per quanto schematicamente, in questi termini: noi abbiamo l’area delle domande che vengono dai reclusi, o da chi comunque si trova in una situazione di difficoltà, di marginalità in quanto immigrato, questa nuova figura sulla quale c’è un grande investimento anche istituzionale, e forse anche una certa enfasi, che raccoglie queste istanze, e una società esterna invece o impenetrabile o assolutamente disorganizzata o caotica dal punto di vista delle possibilità che offre, in parte chiusa e in parte incapace di ascoltare, di mediare. A questo punto è da chiedersi se la mediazione, come giustamente sottolineava Lia Biagi, sia una mediazione che interessa più chi arriva o chi accoglie. Cioè, se ad essere mediate devono essere le persone che tendenzialmente vengono respinte o se invece non debba essere la società che accoglie che deve imparare a mediare, e cioè a ridefinirsi, a riorganizzarsi per rendere possibile questo dialogo.

Il pericolo è che tutto venga scaricato su questa figura quasi rituale, che viene investita di nuove potenzialità, di nuove capacità, che è appunto il mediatore culturale. Che, non a caso, adesso trova accoglienza anche nelle disposizioni di legge. Ma su questa figura, così come è stato storicamente per l’assistente sociale, e prima ancora per il religioso, o via dicendo, si scaricano tutte le incapacità che la società rivela e le cose che non riesce a risolvere. Allora mi sembra che nei discorsi che abbiamo sentito sino ad ora ci siano molti spunti per capire come il lavoro di mediazione culturale può sottrarsi dal fatto di ridursi a questo ruolo puramente di copertura delle incapacità della società, o di attenuamento, ma questa sarebbe proprio una definizione di mediazione in senso deteriore, di attenuamento delle tensioni che hanno una loro radice strutturalmente molto solida e molto evidente. Se il mediatore è semplicemente il cuscinetto che attenua le tensioni tra domande pressanti e risposte che non hanno una reale disponibilità ad essere attivate, credo che questa figura si riduca effettivamente ad essere una figura subalterna, puramente formale, inadeguata rispetto a quello che dovrebbe fare. Perché questo non sia e perché il mediatore sia effettivamente mediatore, perché non credo che debba essere semplicemente chi assiste ad una comunicazione, ma che sia piuttosto un attivatore di comunicazione in senso pieno, nel senso che attiva energie, rende esplicite domande, raccoglie le informazioni relative a possibilità di risposte, ma anche le sollecita, o quantomeno rappresenta uno strumento di trasmissione di queste istanze, perché chi è in grado di offrire delle risposte sia effettivamente sollecitato e portato a farlo. Perché questo sia possibile mi pare che il panorama che si rileva sia molto problematico, però anche articolato e ricco di potenzialità a diversi livelli.

Noi prendiamo le associazioni, le amministrazioni, prendiamo i sindacati, le strutture di solidarietà che già in qualche modo lavorano, prendiamo però anche la sfera della politica e la sfera della legge, dobbiamo anche cercare di capire come la legge dovrebbe cambiare perché certi problemi non si determinino. Per esempio, questa enfatizzazione del permesso di soggiorno come unico strumento di legittimazione o di affidabilità sociale, quando sappiamo benissimo che storicamente è sempre stato attribuito ex post, una volta che le persone di fatto sono già inserite, per ratificarne la presenza, mentre la sua definizione in linea di principio, come chiave di apertura, non è mai stata effettivamente applicata, va rivisto, va riletto, va ridefinito in rapporto a quella che è la realtà reale.

Qui allora non possiamo limitarci a chiedere che venga ampliato per qualcuno, questo è un problema di fondo che va normativamente ridefinito, analizzando concretamente cos’è il fenomeno immigrazione, che problema c’è tra economia ed immigrazione, che problema c’è tra legalità e illegalità nell’immigrazione. Ecco è chiaro che il mediatore non può fare tutto questo; però il mediatore deve essere aiutato, se dalla società esterna si attivano delle energie perché i termini di questa questione cambino. E così per tutti i problemi più cruciali: il lavoro, la casa, l’alfabetizzazione, l’istruzione, la sanità e via dicendo, noi non possiamo arrenderci di fronte ad un aspetto che emerge con grande evidenza, cioè la società globalizzata che non riesce ad organizzare le minime condizioni perché questa famosa globalizzazione possa quantomeno non incrementare in modo ingovernabile le tensioni sociali. C’è il paradosso di una società che si organizza a livello globale e non riesce a risolvere l’A.B.C. della convivenza civile attraverso l’offerta di alcune risorse di base che sono la casa, il lavoro e cose di questo genere. Qui siamo veramente ad un nuovo medioevo se non si affrontano questi temi, e allora è evidente che casa, lavoro e via dicendo significano risorse, significano servizi, significano capacità di analizzare i processi in corso e di governarli attivando delle risorse. Allora io chiedo, ma forse ho anticipato le risposte rispetto a dei nodi che mi sembrano cruciali in tutto quello che è stato detto, però chiedo, nel tempo che abbiamo, per gli operatori qui presenti, le associazioni, etc., se si possa pensare ad un modo che riesca ad andare al di la della semplice attivazione della disponibilità personale, che è comunque grande, perché bisogna dire che questa società continua a rivelare una grande capacità di attivazione di energie solidaristiche, di idee, anche di fantasia insomma, a sostegno di chi è più in difficoltà. Chiedo dunque se si possa in qualche modo andare al di la di questo, e come soprattutto si possa riorganizzare una rete di informazione che dia forza a questo sapere diverso, cioè che non sia semplicemente uno strumento tecnico, ma rappresenti, visto che parliamo di mediazione culturale, un riferimento culturale diverso, un riorganizzarsi della cultura diffusa per riuscire a comunicare, creando condizioni anche materiali diverse.

Paolo Merlo (I.S.C.O.S. - Istituto Sindacale Cooperazione Internazionale)

Voi sapete che il mese scorso si sono svolti a Vicenza gli Stati Generali sull’immigrazione, con la presenza del Ministro Livia Turco e dei vari esponenti e soggetti interessati a questa tematica. C’erano dei gruppi di lavoro, il sesto gruppo riguardava la mediazione culturale. All’interno di questo gruppo di lavoro, dove c’erano decine di persone, si è elaborato poi un documento, e stranamente si parlava della mediazione culturale in ambito scolastico e in ambito assistenziale, amministrativo; non si parlava assolutamente della mediazione in ambito carcerario e giudiziario. Quindi questo è significativo per evidenziare l’assenza di una riflessione sul mediatore culturale all’interno delle strutture carcerarie. Qualcuno lo diceva prima, il carcere è isolato dalla società, e purtroppo anche da un punto di vista culturale e di riflessione sulla mediazione culturale questo elemento è emerso con forza. Quindi, con difficoltà si è riusciti ad inserire in questo documento finale del sesto gruppo di lavoro a Vicenza una riflessione, o meglio l’attenzione sul ruolo della mediazione culturale all’interno del carcere.

Voi sapete che questo incontro sugli Stati Generali era organizzato dal governo, dal Ministro Turco ma anche dalla Regione Veneto. Perché non inviare quindi un documento, una proposta alla Regione Veneto, in cui si espliciti il ruolo del Mediatore Culturale all’interno del carcere con delle proposte, dei suggerimenti che mi sembra oggi siano emersi con forza?! Quindi, si dà un segnale culturale, e non solo culturale, ma anche informativo, perché attualmente manca l’informazione sul ruolo del Mediatore culturale all’interno del carcere, e questo dipende anche dalla capacità di relazionare, di fare “marketing Culturale” all’esterno di queste mura. Questa era la mia prima riflessione.

Un’altra cosa: voi sapete che la legge 40 parla di mediazione culturale o meglio di mediazione linguistico-culturale, parla di quegli ambiti che ho detto prima, però, non parla, o non esplicita a sufficienza il ruolo  del Mediatore Culturale all’interno delle strutture carcerarie e anche questo è un gap, e, come diceva il professor Mosconi, bisogna anche forzare la legge su alcuni elementi per fare in modo che ci sia un’acquisizione collettiva di questo. L’altra riflessione che volevo fare era questa: fino ad ora abbiamo parlato di mediazione culturale, però a me sembra che si sia parlato a livello individuale e soggettivo; io direi che esiste anche una mediazione culturale collettiva. La mediazione culturale collettiva non è quella che fanno i singoli soggetti, ma è quella azione che fanno le associazioni culturali, i sindacati e le varie componenti laiche e religiose sul territorio. Quindi, la mediazione culturale collettiva è uno strumento essenziale per quelle domande che erano state esposte qui oggi, cioè quelle che riguardano l’inserimento nel tessuto sociale degli stranieri che escono dalle strutture carcerarie. Quindi, una valorizzazione, che mi sembra oggi sia stata data, alla mediazione culturale collettiva è certa, è chiara, è presente. Però, come si diceva, bisogna vedere di mettere in rete ed anche attuare dei momenti di informazione di questa mediazione culturale collettiva, che permetta di acquisire informazioni, dati, e fare  in modo che l’inserimento sociale sia efficace ed efficiente, una volta che gli stranieri escono dalle strutture carcerarie. Ecco, questo mi sembra un passaggio importante ed è anche un luogo di lavoro che ci aspetta, ovviamente, nei prossimi mesi.

Ornella Favero (Redazione di Ristretti Orizzonti)

Dal momento che dobbiamo chiudere, vorrei intanto cogliere quest’ultimo stimolo, il discorso sulla mediazione culturale collettiva, per sollevare invece un dubbio e una perplessità su una questione di fondo. Allora, io ho qui tra le mani questa convenzione tra Ministero di Giustizia e l’associazione C.I.E.S. per la mediazione culturale in carcere.

Mi sembra che l’idea di una convenzione a livello generale con un’associazione non abbia un significato molto chiaro, perché il problema della mediazione culturale è soprattutto quello che diceva adesso Paolo Merlo, un problema di mediazione culturale collettiva in stretto rapporto con il territorio. Io penso che, se qui a Padova funzionano certe realtà, se da altre parti ne funzionano altre, che cosa vuol dire affidarsi, con una convenzione, ad un’associazione a livello nazionale? Quello che non vogliamo, e speriamo che non sia così. è quel tipo di approccio, che è poi quello che viene usato molto spesso sui problemi del carcere: calare dall’alto delle soluzioni, quasi sempre costose, perché anche questa è una caratteristica tipica, la spesa “fuori controllo”, e totalmente lontane dal territorio. Ora noi abbiamo fatto questa giornata principalmente per questo: per stabilire un rapporto solido, il più forte possibile tra carcere e territorio. Quindi, mi sembra che è da qui che dobbiamo partire, come punto di inizio di un lavoro più serio. Il secondo invito che coglierei è quello del professor Mosconi, che riguarda l’informazione. Io credo che questo sia un problema primario e non secondario. Il fatto che esiste un forte isolamento delle esperienze, il fatto che ognuno faccia delle cose anche utili, ma in totale abbandono rispetto al territorio, e spesso anche rispetto al resto della realtà del volontariato e degli operatori, indebolisce qualsiasi esperienza. Dobbiamo iniziare a ficcarcelo in testa, che l’isolamento indebolisce le esperienze ed è per questo che il valore di un incontro in carcere è anche simbolico: diamo forza a un tipo di rapporto diverso, per fare circolare informazioni ed esperienze, per lavorare di più insieme, per mettere a frutto le cose che si fanno, per non buttare un sacco di energie per niente. Credo che tutti noi abbiamo fatto moltissime esperienze con un dispendio di energie enorme, senza sapere che a volte il nostro vicino di casa, o di carcere, ha fatto una cosa analoga e funzionante, e se l’avessimo saputo prima avremmo potuto lavorare insieme e risparmiarci fatiche inutili.

Quello che noi ci proponiamo, ora, è di andare avanti con una proposta di miglioramento dell’organizzazione e di darci degli strumenti per lavorare insieme. A questo proposito, quello di Lia Biagi era un discorso interessante: i Centri Territoriali Permanenti oggi sono una realtà che costituisce in qualche modo un ponte col territorio. Forse, si potrebbe pensare di sfruttarli di più, cioè di non inventarsi delle strutture nuove, ma di sfruttare quelle esistenti, perché troppo spesso vengono inventate strutture nuove e alla fine non ne funziona nessuna. Usiamo quello che c’è, ma usiamolo meglio in definitiva.

Patrizia Cibin (Insegnante dell’I.T.C. “A. Gramsci”)

Io sono una insegnante dell’I.T.C. A. Gramsci, un istituto tecnico commerciale che ha in questo carcere un corso arrivato già alla terza classe, e credo la scuola non sia secondaria rispetto ai ragionamenti che si facevano prima sul reinserimento delle persone detenute.

Questa bellissima giornata e il concorso di molte associazioni che sono state presenti e hanno dato il loro appoggio, mi fa venire in mente un’idea che forse è già venuta anche a voi: perché non cercare di creare non un’altra struttura, non un’altra associazione, non un’altra cosa pesante, ma un coordinamento di associazioni e di altre realtà che già lavorino nel settore carcerario, a cui partecipino i Centri Territoriali per l’educazione degli adulti e naturalmente le scuole che già operano in carcere? Io darei alla Redazione di Ristretti Orizzonti il compito di pensare a questa struttura, molto leggera, che in pratica significa una specie di raccordo tra persone che si incontrano proprio per elaborare, come diceva Paolo Merlo prima, proposte da presentare ai nostri interlocutori, che sono gli enti territoriali che hanno competenze riguardo al carcere.

Io credo che se più persone, che già lavorano nel settore, che già si occupano di questi temi, insieme amplificano le richieste, tutto questo possa essere importante. Ripeto, io affiderei ad Ornella Favero e alla Redazione di Ristretti Orizzonti il compito di pensare a questo coordinamento leggero, che comprenda il volontariato, le redazioni dei giornali del carcere e del sociale, rappresentanti della mediazione culturale, le scuole, il settore della formazione, perché mi pare che in questo modo si vada davvero a “risparmiare”, e a non disperdere, a non sprecare energie.

 

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