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Alessandro Margara
Il mio intervento riguarda un’ampia materia, che comprende anche le misure alternative ma non solo quelle. Ho tuttavia una forte preoccupazione, quella cioè di risultare noioso e addirittura nocivo. La preoccupazione di essere noioso nasce dall’estensione del campo di attenzione che io ho posto come tema, e che consiste nella rivisitazione dell’intero sistema dell’Ordinamento Penitenziario. Quanto alla mia preoccupazione di risultare nocivo, essa nasce invece dal timore che le mie proposte possano accendere incaute illusioni, avendo una prospettiva e un’ampiezza troppo significative e importanti per poter concretamente essere prese in considerazione. Quindi non voglio dare illusioni, soprattutto ai detenuti. Questo, voglio chiarirlo subito. Questo progetto di revisione della legge 26.7.1975 n. 354 (sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle pene e delle altre misure privative o limitative della libertà) è piuttosto complesso ed è condotto in parte con il metodo della novellazione della normativa esistente e in parte con una articolazione del tutto nuova: l’innovazione riguarda anche la distribuzione in parti, titoli e capi. Per quel che riguarda il trattamento penitenziario, viene proposta una modifica diciamo pure “formale”, anche se concettualmente di un certo rilievo: nella legge esistente sono fissati degli obblighi riguardanti l’organizzazione dello Stato che deve seguire gli Istituti di pena, in questo nuovo testo, invece, tali obblighi dello Stato sono trasformati in diritti di coloro che ne usufruiscono, cioè in diritti dei detenuti. Va detto, in proposito, che di diritti dei detenuti si è in effetti sempre parlato, e con una certa insistenza; in questo testo si cerca però di dare ad essi concretezza. In tema di diritti, per esempio, c’è la parte che riguarda le condizioni di vita all’interno del carcere, condizioni di vita che – lo dice esplicitamente l’Ordinamento Penitenziario – devono essere “aperte”. C’è, poi, la presa in carico di ogni singolo caso, perché questo è essenziale per conoscere veramente le situazioni ed avviarle nella direzione migliore. Su questo terreno seguono poi tutti i diritti che riguardano la qualità di vita. A partire dalla camera di pernottamento e dai servizi (che devono essere pienamente conformi alle norme igieniche) per passare a un’alimentazione adeguata e alla possibilità di accedere in misura sufficiente agli spazi esterni, essendo evidenti i danni prodotti da una vita quasi per intero rinchiusa negli ambienti interni del carcere. Perché il problema non è solo potersi effettivamente recare all’ora d’aria o al passeggio, ma anche disporre di un ambiente in cui sia possibile praticare del movimento fisico adeguato, che compensi la staticità della vita di cella. C’è poi tutta la parte che riguarda la sanità, in cui vengono rilanciati tutti gli obiettivi indicati dalla legge delega del 1998, che in pratica prevede che il trattamento sanitario del detenuto sia corrispondente, e sostanzialmente identico, a quello destinato alle persone libere. Segue poi il diritto all’osservazione e al trattamento, anche questo “pacifico” in quanto già previsto dall’articolo 13 della legge attuale. In questo nuovo testo, tuttavia, tale diritto si riconfigura come un preciso diritto del detenuto, non più come un dovere dell’Amministrazione. Dall’articolo 15 della legge sono delineati inoltre come diritti anche altri aspetti che riguardano il trattamento: come quelli allo studio e al lavoro (che invece, allo stato attuale, proprio un diritto non è, e nemmeno un dovere, essendo di fatto accessibile a una percentuale molto bassa di detenuti). Altro diritto - e qui si recupera la proposta fatta dagli onorevoli Boato e Ruggeri (ndr: proposta elaborata nel 2002 a Padova, all’interno della Giornata di Studi sull’affettività) – è quello all’affettività, che concerne anche, in parte, alcune disposizioni riguardanti i permessi (altra materia su cui abbiamo cercato di intervenire) e la pericolosità sociale (che viene modificata richiamando la necessità di un accertamento che riguardi il carattere attuale di tale pericolosità). Per quel che riguarda le misure alternative, la proposta parte da un richiamo letterale alle sentenze della Corte Costituzionale in merito allo spazio che queste devono avere all’interno dell’esecuzione penale. C’è un articolo, infatti, in cui vengono elencate parti delle sentenze Costituzionali e viene chiarita e ribadita la centralità che deve essere riconosciuta alle misure alternative. In questa prima parte si svolgono anche alcune considerazioni sulla materia e si toccano alcuni punti delicati, uno dei quali riguarda la limitazione che è stabilita per alcuni gravi reati. La nostra proposta, in proposito, è che la legislazione affronti organicamente questo tema, assicurando da un lato una permanenza in regime detentivo di idonea lunghezza ma determinato nel tempo, e – dall’altro – modalità più chiare per dare accesso, poi, alle misure alternative. Dopo queste indicazioni generali, si parla poi dei singoli articoli. Si propongono alcuni modesti ritocchi sull’articolo 47 dell’affidamento in prova al servizio sociale e si modifica un comma che riguarda la giustizia riparativa (cercando di ridimensionare il discorso, e soprattutto di limitare certe interpretazioni un po’ eccessive che sono emerse nella pratica dei Tribunali di Sorveglianza). Inoltre, si ribadisce il ruolo centrale della gestione delle misure alternative, particolarmente dell’affidamento in prova, da parte dei Centri di servizio sociale adulti. E qui si pone l’accento sull’inopportunità di una commistione fra gestione di Polizia e gestione di Servizio sociale. Dopo l’affidamento in prova si parla della semilibertà. L’articolo 50 bis - in cui si affronta questo argomento e a cui non a caso abbiamo dato il titolo di “Progressione nel trattamento” - prevede che il trattamento in semilibertà possa articolarsi in momenti in cui il rientro in carcere non debba essere necessario e possa pertanto essere sostituito da forme diverse, come la detenzione domiciliare o la libertà vigilata. Si tratterà di vedere in che modo, poi, si possa effettivamente concretizzare questa proposta, anche se personalmente dubito che possa concretizzarsi davvero. In ogni caso il discorso della progressione riguarda particolari situazioni, per esempio la malattia, o le ferie della persona che lavora all’esterno. Situazioni per le quali, insomma, oggi si trovano arrangiamenti di vario tipo e che, invece, potrebbero trovare una risposta più esauriente, come quella di stare presso la propria abitazione, oppure presso un ente di cura, ma con modalità diverse da quelle della semilibertà, magari con un sistema momentaneo di detenzione domiciliare o di libertà vigilata. E la stessa cosa può valere nel progredire della semilibertà, prevedendo fine settimana a casa, in un regime comunque controllato. La progressione della semilibertà si conclude, alla fine, con la constatazione che le situazioni semilibere eccessivamente protratte nel tempo diventano non solo difficilmente sostenibili per le persone che ne sono soggette, ma anche sostanzialmente improduttive, perché abituano ad un sistema di vita tutt’altro che naturale. Sotto questo profilo – con riferimento particolarmente alle semilibertà di lungo periodo - si prevede quindi che venga favorito il passaggio alla liberazione condizionale. In questo testo viene previsto infatti un nuovo regime per la liberazione condizionale, la quale diventa più che mai misura alternativa. Lo era già, certamente; ma ora si tratta di darle sostanza rendendola giuridicamente una misura alternativa più corretta. Infine, nella parte che riguarda appunto le misure alternative, si tocca un altro tema cruciale, quello del decorso del tempo, cioè dell’incidenza del tempo sulle varie situazioni. Quando dico tempo intendo, evidentemente, tempo trascorso dalla commissione del reato, ed è un problema nel senso che nel momento in cui noi diamo alla pena questo valore rieducativo, risocializzativo, riabilitativo, che senso ha, questa pena, se poi viene eseguita dieci, venti anni dopo il momento in cui il reato è stato commesso? Nella prospettiva di trovare una soluzione per questo grave problema, il testo prevede due interventi sulla normativa. Uno consiste nel cassare le norme del diritto penale che riguardano il fatto che non vi è prescrizione nei confronti dei recidivi e dei delinquenti abituali professionali o per tendenza. Si prende atto che questa norma non funziona più, perché sono tutte situazioni che non sono più definitive come erano nel codice penale originariamente, e quindi la prescrizione deve maturare anche per i reati commessi dai recidivi e dai delinquenti abituali professionali o per tendenza. Il secondo aspetto è che le revoche dei benefici vari, sospensioni condizionali e condoni non devono seguire i tempi dettati dall’inefficienza degli uffici di esecuzione penale: deve essere stabilito un tempo ragionevole entro il quale queste misure devono diventare effettive. Per quel che riguarda l’argomento-tempo, nella proposta ci si sofferma anche sulla situazione di coloro che entrano in carcere con molto ritardo rispetto alla commissione del reato, e che quindi vedono la fine della propria pena lontanissima nel tempo. Ecco, su questo punto si ipotizza un intervento da attuarsi mediante l’applicazione delle misure alternative; un intervento anticipato, rispetto alle condizioni fissate dall’attuale normativa, e modulato attraverso un numero di anni variabile in ragione del reato commesso e della pena da espiare. Qui c’è da fare peraltro una distinzione fra la detenzione comune e la detenzione politica, perché un intervento di questo tipo potrebbe anche avviare a soluzione l’antica e vessata questione della detenzione politica, che perdura nel tempo e sembra non concludersi mai. Dopo questa parte, ce n’è un’altra, che riguarda i trattamenti sanzionatori diversi dalla pena detentiva. Si tratta di una materia complessa, di cui in questa sede mi limito a illustrare il succo. In buona sostanza, anzitutto va detto che questi trattamenti sono rimasti come erano quando la pena non aveva le finalità rieducative, risocializzative e riabilitative che le si riconoscono oggi. E ciò comporta che la fase finale, quella successiva all’estinzione della pena detentiva, diventa una specie di corsa ad ostacoli fra le pene pecuniarie, le misure di sicurezza e le pene accessorie. Diciamo, sinteticamente, che in questa proposta si prevedono modalità d’intervento tali da evitare che si perpetui questa corsa ad ostacoli e da fare in modo che le diverse situazioni siano avviate a soluzione tenendo conto della finalità che le pene (tutte le pene, non solo quelle detentive) devono porsi. Sulla Magistratura di Sorveglianza si afferma anche la necessità e l’importanza che ci sia una proporzione fra le dimensioni organizzative della Magistratura di Sorveglianza e l’entità del lavoro che essa deve concretamente svolgere, aspetto questo che normalmente viene alquanto ignorato. Si prende anche atto del fatto che, attraverso la legge Simeone, si crea un numero notevole di esecuzioni pena sospese, che stanno lì in attesa che il Tribunale di Sorveglianza riesca a prenderle in considerazione e a decidere in merito. Il volume di queste procedure in attesa allo stato attuale è spropositato, quindi occorre individuare un sistema che consenta di smaltire in tempi rapidi questo massiccio arretrato. L’unico modo di porre rimedio a questo problema consiste, come s’è pensato di fare per altre materie, nella creazione presso i Tribunali di Sorveglianza di sezioni stralcio incaricate di provvedere all’eliminazione di questo pesante arretrato. Sezioni stralcio che devono essere concepite in maniera tale da alleggerire il cumulo di lavoro del Magistrato di Sorveglianza professionale, facendo cioè ricorso all’opera dei “laici”, che sono più facilmente reperibili. Ed eccomi ora al Titolo Terzo, relativo all’organizzazione penitenziaria. Per quel che riguarda gli Istituti, si tratta di articolare di più e meglio la differenziazione già esistente negli stessi: alta sicurezza, media sicurezza, sicurezza attenuata sono realtà di tutti i giorni, ma pare opportuno riconfigurarle sotto il profilo normativo, e infatti nella proposta esiste un intero capo relativo a questo delicato argomento. Vi si parla delle sezioni protette, altra situazione ben nota negli Istituti, e anche in questo caso occorre che la legge richiami sul fatto che queste non sono dei freezer nei quali si accantonano persone destinate poi ad essere recuperate chissà quando… No, quelle sezioni devono essere dei luoghi in cui si lavora perché le persone non ci restino a tempo indeterminato. Vorrei ricordare poi l’ultimo articolo, nella sua parte in cui espressamente si parla delle situazioni di criticità, dalle quali deriva purtroppo il grave problema dei suicidi in carcere. Queste situazioni non devono finire, anch’esse, nel freezer, ma devono essere seguite con particolare attenzione: deve esserci, nei confronti delle persone “critiche”, una presa in carico del tutto particolare. Un accenno credo vada fatto al Titolo Quarto della nostra proposta, che riguarda il reinserimento sociale. Questo discorso abbiamo cercato di articolarlo sia sul piano dell’intervento sul singolo, sia sul piano di una progettazione complessiva del percorso di reinserimento sociale. Per affrontare seriamente questo tema occorre però una riflessione su che cos’è il carcere, oggi. Di cosa sia costituito nella realtà questo carcere, sono consapevoli anche – per loro stessa ammissione – coloro che sostengono una politica di maggiore carcerizzazione: il carcere di oggi è fatto essenzialmente di detenzione sociale, cioè di persone che appartengono a ben determinati gruppi nei quali i problemi sociali sono esattamente quelli da cui poi sbocciano il momento antigiuridico e il momento criminale. Non si può non riconoscere che su queste situazioni l’intervento sociale è stato o insufficiente o del tutto assente: su di esse dobbiamo essere più centrati, più presenti, e soprattutto devono esserlo particolarmente quegli enti locali a cui l’intervento sociale è delegato. Sotto questo aspetto, vanno previsti interventi collettivi attraverso i quali fette considerevoli di questa detenzione sociale possano essere portate all’esterno, almeno in parte, con lavori da svolgersi o in regime di semilibertà, o con misure alternative per la realizzazione di progetti definiti e seguiti sul campo dagli stessi enti locali. A questo riguardo si prevede – e non mi pare un’idea tanto peregrina – che in definitiva possano ancora servire delle strutture penitenziarie, delle strutture detentive con una gestione territoriale che le faccia però assomigliare ai vecchi carceri mandamentali. Questo è un discorso complessivo sul quale effettivamente bisognerà soffermarsi con particolare attenzione e cautela, perché si possono fare molti sbagli su questo terreno.
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