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Controllo sociale e buoni affari dove si soffre e si muore...
Umanità Nuova, 10 aprile 2005
Quando Ronald Reagan nel 1982 lanciò la sua folle crociata proibizionista che sarebbe passata alla storia come War On Drugs, un esponente dell’ACLU (American Civil Liberties Union) dichiarò che non sarebbe stato possibile perseguire penalmente una sostanza diffusissima come la marijuana visto che nelle carceri statunitensi c’erano solo 450mila posti. Dopo vent’anni di sforzo bellico più che notevole, i consumi di tutte le singole sostanze proibite sono aumentati in misura più o meno significativa, ma nel frattempo negli USA la popolazione carceraria è quintuplicata. Se nel dicembre 1980 nelle prigioni statunitensi c’erano meno di 400mila detenuti, erano 2.033.331 il 31 dicembre 2002, con un tasso di incarcerazione di 701 ogni 100.000 individui (il più alto al mondo) e nel frattempo la costruzione di nuove carceri era diventato il settore di punta dell’edilizia pubblica statunitense dopo aver superato quelli della costruzione di strade, scuole e università. Adesso la War On Drugs sta per arrivare (per la seconda volta dopo il fallimentare tentativo di Craxi negli anni ‘80) anche in Italia con la probabile approvazione nei prossimi mesi della ultraproibizionista e fascistissima legge caldeggiata dal viceduce Gianfranco Fini che prevede la fine di ogni distinzione tra "droga leggera" e "pesante" e quindi stesse sanzioni penali e l’introduzione della "quantità massima sostenibile", oltre la quale sono previste sanzioni penali durissime (da 6 a 20 anni di carcere) senza nessuna differenza tra consumatore e spacciatore. Le cosiddette "quantità massime sostenibili" sono peraltro piuttosto risicate (250 milligrammi di principio attivo per la cannabis, 500 per la cocaina, 200 per l’eroina) ed è fin troppo facile prevedere che l’effetto della Legge Fini sarà quello di portare in carcere o in comunità-lager stile San Patrignano alcune centinaia di migliaia di persone. Questo ovviamente non dispiace affatto ai fanatici sostenitori del proibizionismo di stato (che sono letteralmente affamati di sofferenze altrui), ma c’è il problema che in prigione non ci sono ancora abbastanza posti (anche se il ministro della Giustizia, il neonazista Roberto Castelli, ha già annunciato la costruzione di 23 nuove carceri). Così, il Governo Berlusconi ha pensato bene di correre al riparo e quindi ha presentato delle modifiche agli articoli 89, 90 e 94 del disegno di legge Fini. L’idea del governo è quella di cambiare la procedura per i reati minori legati alla droga con processi per direttissima che verrebbero affidati sul modello statunitense ad una rete di drug court, ovvero sezioni di tribunali ad hoc che si dovrebbero avvalere di un servizio di connessione gestito da un’équipe di esperti per arrivare ad un rapido affidamento dei malcapitati finiti nelle loro mani alle strutture pubbliche o del privato sociale. In particolare, nella nuova versione l’articolo 94 prevede l’equiparazione fra strutture sanitarie pubbliche e private oltre ad ampliare il limite di pena consentito all’interno di queste strutture. Inoltre, anticipando la stessa conclusione dell’iter parlamentare della Legge Fini, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, il 27 gennaio scorso ha reso noto il progetto Dap Prima, che dovrebbe consentire ai detenuti con problemi di droga di lasciare la cella (nel 2004 sono transitati per le patrie galere 24.113 tossicodipendenti), naturalmente per andarsi a rinchiudere in qualche comunità terapeutica (come ha detto il Duce Berlusconi alla presentazione in pompa magna del progetto: "I tossicodipendenti non possono stare in carcere, ma devono essere ricoverati in strutture adeguate e gestite da professionisti"). Tutte queste modifiche riportano ovviamente all’ordine del giorno l’idea di un "carcere privato per i tossicodipendenti", che ha già iniziato a concretizzarsi a Castelfranco Emilia dove il 21 marzo scorso è stato inaugurato il primo carcere speciale per tossicodipendenti, realizzando un progetto che è stato preparato dalla comunità di San Patrignano, che sarà impegnata direttamente anche nella gestione della prigione. Se le motivazioni del piano "svuota carceri" sono essenzialmente economiche (un tossicodipendente in carcere costa 400 euro al giorno, mentre secondo la Fict, la federazione delle comunità terapeutiche, "attualmente la retta giornaliera percepita per la presa in carico di detenuti tossicodipendenti è di 30,99 euro, mediamente pari al 60% di quelle corrisposte dalle Asl regionali per l’inserimento in comunità di drogati non colpevoli di reati"), nondimeno essa un ulteriore passo in avanti verso il fenomeno che lo studioso inglese Roger Matthews definisce "transcarcerazione", caratterizzato da carceri di nuova generazione asettiche e tecnologizzate e strutture di trattamento quali parti integranti e non più alternative rispetto alla pena detentiva, con in più una accentuata medicalizzazione, secondo un modello che è già la norma negli Usa, ma che sta ormai diventando realtà anche in Europa. Già oggi, dice Matthews, "in Inghilterra, non si è condannati a seguire un programma terapeutico in alternativa al carcere. La sentenza del giudice è un ‘pacchetto’ che prevede, per esempio, tre mesi in prigione, tre mesi in libertà vigilata e poi un programma di disintossicazione. Con lo sviluppo della privatizzazione delle carceri, abbiamo tre settori: uno delle carceri private, uno medico privato (per esempio, con i programmi di disintossicazione), e poi c’è il settore delle carceri pubbliche. E questi tre settori sono contornati da una gamma di agenzie diverse. Ora, sempre più spesso, le stesse persone si muovono da una agenzia all’altra. Tutte queste agenzie, in America, creano di fatto un’industria multimilionaria, e hanno interesse nel trattenere le persone e nel fare in modo che ritornino. Negli Usa un terzo degli ingressi in carcere è costituito da persone che hanno violato la libertà sulla parola. In California questa percentuale è del 60%. Così l’iter si allunga". Il carcere così cessa di essere soltanto una struttura progettata per infliggere legalmente sofferenza e uno strumento di controllo sociale, ma diventa anche un vero e proprio business in continua espansione per chi non esista a speculare sul dolore e sulla morte altrui. Intanto, in galere si continua a soffrire e a morire. Come ha denunciato recentemente il Forum Nazionale per la Salute nelle carceri, in un solo anno, precisamente dal 2002 al 2003, le carceri italiane hanno "prodotto" 83 suicidi, 25 tentati suicidi, 19 morti per cause non chiare e 9 per overdose, per un totale di 134 ammazzati. Questo significa che in prigione si muore venti volte più che fuori. Robertino
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