L'opinione dei detenuti

 

Quando l’orrore della cronaca nera si abbatte come un macigno...

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 13 febbraio 2006

 

Quando l’orrore della cronaca nera...

Conoscevo Antonio Dorio...

Salviamo quella legge....

Un carcere che punisce e non cura...

Quando l’orrore della cronaca nera si abbatte come un macigno sul destino di chi sta in carcere

 

Questa settimana c’è stato un momento in cui noi che stiamo in carcere non avevamo più neppure voglia di aprire i giornali o guardare la televisione: le notizie di apertura erano infatti macigni, due storie tragiche di gente che, uscita dalla galera, è tornata ad ammazzare. Poi abbiamo deciso di non nasconderci ma di affrontare con un po’ di coraggio una questione così scottante, come questa: dove è in gioco il nostro futuro, e il senso che può avere, per la società, accettare un sistema che permette, a chi commette un reato, di scontare parte della pena con un percorso graduale di uscita dal carcere, attraverso i permessi premio prima e il lavoro in regime di semilibertà poi.

Le testimonianze che riportiamo cercano di convincere i cittadini "liberi" che questo sistema è buono e giusto, e che i rischi sono pochi, e sono senz’altro meno che non se le persone condannate si facessero tutta la carcerazione in galera e uscissero, alla fine, incattivite, senza più affetti, senza una rete di protezione ad accoglierle. Ma ci piacerebbe, su questo tema, confrontarci proprio con quelli che stanno "fuori" e con le loro inevitabili paure.

Conoscevo Antonio Dorio

 

Dopo anni trascorsi dietro le sbarre spesso mi sento "incattivito" dai tanti problemi personali: la lontananza dal mio paese, dagli affetti, dalle speranze che si traducono in miraggi… Ma il culmine della delusione lo raggiungo quando si verificano gravi reati commessi da detenuti in permesso premio o in misura alternativa, come l’ultimo che, pochi giorni fa, nei pressi di Ferrara, dopo aver ucciso un carabiniere ha perso a sua volta la vita.

Vorrei riuscire a trasmettere i miei sentimenti nel modo più giusto, per far capire che determinati fatti non hanno scosso solo l’opinione pubblica, ma hanno turbato anche me e tanti altri miei compagni di galera. Comprendo quindi lo sdegno e le critiche, c’è poco da fare per difendere la "categoria" alla quale appartengo. Certo che questo fatto è terribile e fa male, fa male anche a chi, come tanti di noi, cerca di mediare e di riconciliarsi con la società che abbiamo offeso, riprendendo le relazioni di pacifica convivenza che abbiamo "rotto" nel momento in cui abbiamo commesso reati.

Questi episodi infatti rimettono ogni volta in discussione un lavoro fatto di anni e anni di sacrifici messi in campo da molti operatori, dalle associazioni di volontariato e infine anche dalla maggioranza delle persone detenute che cercano di scontare la propria condanna il più serenamente possibile.

Conoscevo molto bene il detenuto Antonio Dorio, sono stato per ben cinque anni in sezione con lui nel carcere di Bologna. Lo ricordo come una persona che si impegnava, che frequentava le varie attività e ancora mi chiedo, a pochi giorni dai terribili fatti di cui è stato protagonista, cosa non abbia funzionato. Dopo l’evasione da un permesso premio forse ha perso la testa, forse era drogato, e la consapevolezza che quando sarebbe stato ripreso non avrebbe più ottenuto benefici lo ha fatto precipitare a un punto "di non ritorno". Ma ormai poco importa: so soltanto che, proprio perché anch’io sono detenuto, devo avere la forza di dire che certi fatti così atroci non dovrebbero mai succedere, e devo farlo con la stessa lealtà e solidarietà con le quali cerco di difendere i diritti dei detenuti affinché ci sia concesso un futuro migliore.

Dobbiamo avere il coraggio di giudicare noi stessi, di prendere una posizione e di condannare questi gravissimi casi, ma con la stessa determinazione dobbiamo dire che non vogliamo tornare indietro di trent’anni, quando la pena era solo punizione e il recupero del reo non interessava a nessuno.

A coloro che affermano che i benefici penitenziari sono portatori di ulteriore criminalità dico che non è vero, e che non si devono mai fare queste inutili generalizzazioni.. Se si reagisce emanando leggi più restrittive si rischia di far precipitare nel baratro – e di privare di tutte le speranze – anche le persone detenute che vogliono tornare a vivere onestamente, e comunque rispondere al male con il male non porta da nessuna parte.

 

Altin Demiri

 

Salviamo quella legge, pensata proprio per restituire alla società persone cambiate, uomini nuovi

 

Quando assistiamo a certi fatti ci viene spontaneo pensare quanto sia piccola la nostra, seppur dolorosa, esperienza, in confronto a quella di altri.

Questa volta in un’assurda sparatoria a perdere la vita, purtroppo, sono stati in due, "un buono e un cattivo". Il cattivo: Antonio Dorio, 36 anni, già autore di una sanguinosa rapina, evaso da un permesso premio dopo aver scontato gran parte della condanna, è stato fermato dai carabinieri alla guida di un’auto rubata. Forse i due carabinieri non hanno calcolato che quell’uomo, in quel momento, era disposto a buttare via la sua vita già irreparabilmente segnata e anche quella degli altri. Lo hanno fatto salire sulla loro macchina, lui deve aver tirato fuori una pistola, forse non era stato perquisito bene. Un carabiniere viene ferito e muore in ospedale; l’altro, l’evaso, è ormai perso, tenta una fuga tanto disperata quanto impossibile, ma finirà la sua folle corsa e la sua stessa vita in un fossato.

La notizia ha fatto il giro dei telegiornali, la gente si indigna e forse, a ragione, spara a zero: "Bisogna rivedere la legge, gente come questa deve restare in galera per sempre!"

Come si fa a dargli torto?

Mi piacerebbe però, in una pacata discussione, far capire che se tutti noi riteniamo giusto vivere in una società "civile", fatta di individui responsabili, in una società democratica in cui ci si possa sentire liberi, allora bisogna anche accettare di mettere in conto dei rischi.

Il più delle volte infatti, quando succedono fatti gravi come questo, il cittadino è indignato e terrorizzato, e a ragione invoca lo Stato per curare le sue angosce. Tutti si sentono abbandonati e diffidenti, quindi chiedere più controlli sembra l’unica soluzione, ma se lo Stato applica livelli maggiori di repressione, anche sociale, è la libertà stessa per i cittadini in generale a diminuire, mentre il carcere altro non diventa che una fiorente industria di contenimento e null’altro.

Le istituzioni parlano del carcere come luogo atto al reinserimento dei soggetti detenuti: bene, in buona misura questa non è la verità. Il carcere è spesso luogo di educazione al crimine, di inasprimento della cattiveria individuale e generale che porta poi alla reiterazione dei reati. Se non fosse per scelte personali o interventi di elevato spessore culturale che arrivano quasi solo dal volontariato, è quasi impossibile prendere parte in carcere a iniziative mirate alla reintegrazione e al reinserimento.

E invece un percorso finalizzato al reinserimento dovrebbe essere un diritto garantito dalla Costituzione, ma anche una garanzia per la società, che non deve essere truffata nella sua giusta aspettativa di riaccogliere al suo interno individui rieducati e migliorati.

Io vorrei che la gente pensasse che la funzione della detenzione dovrebbe essere quella di far capire a chi ha commesso reati che esiste un modo diverso di vivere, e poi di creare le condizioni perché non arrechi più danni alla società. Nessun intervento "muscolare", a mio avviso, può dare buoni frutti, l’uso della forza amplifica i problemi e non li risolve affatto. Chiudere la gente in gabbia e "buttare via la chiave" non serve a niente.

Mi rendo conto che è molto più facile elencare gli esiti negativi di casi in cui la legge Gozzini, quella che permette di scontare parte della pena fuori, in misura alternativa, è stata applicata, però qui a Padova, ad esempio, sono molte le persone che con fatica, anno dopo anno, si stanno reinserendo proprio grazie a questa legge, pensata per restituire alla società persone cambiate, uomini nuovi, che sanno anche prendere le giuste distanze da fatti di ordinaria follia come quelli di Ferrara, e che come tutte le persone "normali" si uniscono al dolore a al cordoglio dei familiari di entrambe le vittime e si chiedono se queste morti si potevano in qualche modo evitare.

 

Flavio Zaghi

 

Un carcere che punisce e non cura

 

Di fronte a delitti commessi da detenuti in misura alternativa, anche in carcere si prova sbigottimento e costernazione. Ma in carcere si aggiunge anche la consapevolezza che, a mo’ di "giustizia riparativa", qualche tegola si abbatterà sulla testa di migliaia di altri poveracci che attendono da anni di poter trascorrere un week-end con i figli e la moglie o con la propria madre e che mai si sognerebbero di andare ad ammazzare qualcuno.

Quando si tratta di gravi fatti di sangue, in fondo, una dura reazione è tanto umana che anche in carcere la si accetta come ineluttabile. E anche chi fa informazione dal carcere è consapevole che, di fronte al dolore dei parenti delle vittime e all’indignazione pubblica, è inutile e forse dannoso argomentare con cifre e statistiche. Ma questa volta una cifra voglio farla: in Italia ci sono migliaia di persone che godono di misure alternative alla detenzione o di benefici (semilibertà, permessi premio etc.), e solo lo 0,24% commette reati durante queste misure, di fronte a una media del 3% che nel resto d’Europa è considerata "accettabile".

Detto questo, a mio parere, almeno nel caso di Antonio Palazzo, che uscito dal carcere, dove scontava una pena per il tentato omicidio della fidanzata, ha ammazzato qualche giorno fa la sua ex convivente, qualcosa forse si poteva fare. Il nostro sistema penale prevede che il carcere debba anche rieducare, affinché chi termina la pena (e Palazzo prima o poi sarebbe comunque uscito), possa uscire migliore di quando è entrato. Se il sistema funzionasse, fin dal suo ingresso in carcere Palazzo avrebbe dovuto essere seguito costantemente da psicologi, psichiatri ed educatori, che nel corso di incontri frequenti avrebbero forse potuto accorgersi che il suo primo crimine non era un episodio determinato da fattori contingenti, ma nasceva da qualche tipo di "ossessione" o da un disturbo affettivo nei rapporti con le altre persone. Si sarebbe allora dovuto curare Palazzo per cercare di riportarlo alla normalità e di lenire la sua sofferenza, perché, non dimentichiamolo, è stata una atroce sofferenza che l’ha portato a questo esito autodistruttivo prima ancora che distruttivo. E questo intervento avrebbe dovuto essere mirato non a escludere Palazzo dai benefici di legge, ma ad evitare che al momento della inevitabile scarcerazione uscisse con gli stessi disturbi che lo avevano portato a tentare di uccidere.

La colpa è quindi degli psicologi ed educatori che avevano in carico Palazzo? No, perché educatori e psicologi sono talmente pochi che in molte carceri passano mesi prima che un detenuto riesca a parlare con l’educatore, che invece della quarantina di detenuti che dovrebbe seguire ne ha in carico magari 300. La colpa non è neppure dei magistrati di sorveglianza, pochi anch’essi, che dovrebbero dare la possibilità di reinserirsi nella società, sapendo che un reinserimento graduale aiuta a diminuire la recidiva. La responsabilità è soprattutto di chi ha costantemente ridotto le spese per le carceri, ha bloccato i concorsi per l’assunzione di operatori e non ha fatto nulla per contenere il numero dei detenuti, vanificando il lavoro quotidiano di quanti cercano di restituire alla società persone migliori di quelle che sono finite dietro le sbarre.

 

Graziano Scialpi

 

 

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