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I tossicodipendenti sono esseri umani con dignità e diritti non macchine rotte da riparare
Una riflessione e tanti dubbi su Castelfranco Emilia, sulle Comunità terapeutiche che assomigliano sempre di più al carcere, sulle carceri metà pubbliche e metà private
Stefano Bentivogli – Redazione di Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2005
Per capire meglio il senso della discussione in corso, sull’annuncio fatto di recente in merito all’apertura di un carcere per tossicodipendenti a Castelfranco Emilia, la cui gestione dovrebbe essere in parte affidata alla Comunità di San Patrignano, occorre fare un passo indietro negli anni e conoscere il percorso italiano sulla lotta alle tossicodipendenze. L’uso di sostanze stupefacenti non è sempre stato considerato un allarmante fenomeno sociale e bisogna risalire agli anni ’80 per trovare i primi segnali di una reazione organizzata dello stato italiano, gli stessi anni nei quali Ronald Reagan lancia negli Stati Uniti una forte iniziativa di repressione ed una campagna mediatica: sulla droga tolleranza zero. In Italia il presidente del consiglio Bettino Craxi raccoglie al volo questo spunto e, di ritorno da una visita ufficiale negli States, rilancia nel nostro paese le stesse teorie, trasformando la questione stupefacenti da problema sociale e morale a penale. Sono anni abbastanza bui questi, i modelli di riferimento proposti sono principalmente quelli legati a figure molto appariscenti e all’immagine esteriore, per essere qualcuno bisogna avere tanti soldi, tanto successo, correre come pazzi ed usare ogni mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Cinismo e spregiudicatezza sono politicamente corretti, diventano dei valori, ma soprattutto è vietato soffrire e stare male, il vero yuppie passa su tutti i suoi problemi con qualsiasi mezzo. Attraverso questo modello di "uomo nuovo", eroina, cocaina, amfetamine e psicofarmaci penetrano in tutti gli strati sociali, portando il fenomeno ad una dimensione tale da far ingolosire le organizzazioni criminali di tutto il mondo. La politica si accorge del rischio che ha davanti e corre ai ripari: occorre eliminare la droga come problema morale, perché non è più diffusa solo sugli strati marginali della società, intacca anche la serenità dei ceti abbienti. Nel ’90 in Italia viene approvato il testo unico sugli stupefacenti, si stabiliscono pene severissime per spacciatori e trafficanti, si cerca apparentemente di salvare i consumatori distinguendoli dagli altri in base alla quantità di sostanza stupefacente che gli viene sequestrata. Il primo risultato sarà l’ingresso in carcere di tanti tossicodipendenti che vengono fermati con quantitativi superiori alle tabelle previste, ma che nulla avevano a che vedere con lo spaccio, tanto che nel ’93 la cosiddetta dose consentita ai fini del consumo viene abolita tramite un referendum. Ma le carceri continuano a riempirsi di consumatori e di spacciatori, questi ultimi in gran parte extracomunitari ai quali vengono rifilate condanne incredibili se si valuta il loro ruolo all’interno delle organizzazioni dedite allo spaccio. In realtà sono carne da macello, per pochi soldi si mettono a spacciare e vengono usati proprio perché sono gli unici disposti a rischiare spacciando al minuto. Per i consumatori invece è veramente difficile rimanere lontani dal carcere, la droga è merce illegale e molto rischiosa, ha prezzi inaccessibili per chi vive di redditi medi, per comprarla si commettono reati, tanti, in modo continuo, come continuo è il bisogno di drogarsi. Il testo unico sugli stupefacenti in realtà prevede la possibilità di evitare il carcere accettando un programma terapeutico da svolgersi in affidamento ad una comunità oppure ai servizi per le tossicodipendenze. Ma i programmi terapeutici non sono la bacchetta magica, tanti ricadono perché l’uscita dalla dipendenza è spesso un cammino lungo e difficile. In carcere comunque restano tante persone che hanno commesso svariati reati e che non rientrano nei limiti previsti dalla legge per andare in comunità. Nel testo unico, per loro, è previsto il carcere per tossicodipendenti o comunque una sezione speciale del carcere "normale", dove l’equilibrio tra sicurezza e attività riabilitative e terapeutiche sia decisamente spostato verso queste ultime. Sono poche le sezioni a custodia attenuata per tossicodipendenti attivate in Italia, e nessuna delle vecchie carceri mandamentali viene trasformata in carcere per tossicodipendenti. Questa è in sintesi l’esperienza di cura in carcere delle tossicodipendenze, a più di 14 anni dal testo unico sugli stupefacenti: poche sezioni a custodia attenuata, gestite in collaborazione dall’amministrazione penitenziaria e dai Ser.T.
Carcere e comunità terapeutica sono diventati due vasi comunicanti
Ci sono grosse contraddizioni nell’impianto della legge vigente: da un lato si cerca di tenere lontani i tossicodipendenti dal circuito penale, dall’altro a questo vengono comunque destinati coloro che non riescono a risolvere immediatamente il loro problema di dipendenza. Fuori dal carcere si cominciano a praticare interventi mirati alla "riduzione del danno", si cerca in qualche modo di evitare che la condizione di dipendenza da stupefacenti porti automaticamente all’illegalità attiva. Questi interventi però sono spesso ostacolati da chi si illude che invece basti reprimere per eliminare il problema, e ci si dimentica che dietro c’è troppo spesso un disagio personale e sociale che non si risolve chiudendolo in gabbia. Ci sono poi anche filoni terapeutici che sono contrari alle teorie della riduzione del danno, si sviluppano alcune comunità terapeutiche che considerano il tossicodipendente una specie di maleducato al quale, con le buone o con le cattive, basta dare una lezione. È una linea che in fondo coincide con la logica del trattamento obbligatorio, ma non ha niente a che vedere con la sanità, i problemi psicologici della persona e la sua pericolosità. E’ invece la logica della repressione dei comportamenti devianti e la loro sostituzione coatta, non si capisce bene come, con comportamenti sani: basta non drogarsi ed il problema è risolto. Sono comunità molto severe dove una volta entrati è molto difficile uscirne, sia perché in alcuni casi è materialmente proibito, sia perché spesso questi programmi terapeutici creano una specie di nuova dipendenza dalla struttura e quando alla fine si prova ad uscire non si è comunque abbastanza solidi per evitare di ricominciare da capo. Carcere e comunità terapeutica sono così diventati due vasi comunicanti nei quali si travasano in continuazione persone alla ricerca di un equilibrio; entro certi termini, però, perché la legge non dà infinite possibilità: dopo due affidamenti, in alcuni casi anche prima, la giostra si ferma e si resta in galera. Di qui dopo 14 anni la necessità di provare ad applicare fino in fondo una legge molto contraddittoria, perché - stante l’illegalità degli stupefacenti - si finisce comunque per lasciare al carcere il compito di curare i tossicodipendenti.
Ma qual è poi l’efficacia di una terapia imposta contro il volere dell’assuntore? Quanto è compatibile con l’intervento riabilitativo quello brutalmente repressivo del nostro sistema penale?
Le sezioni a custodia attenuata e le carceri per tossicodipendenti si illudono di poter trasformare il carcere in un luogo di cura, il carcere diventa così comunità terapeutica mantenendo però sbarre e cancelli: nulla di nuovo per comunità come San Patrignano, dove un regime di tipo carcerario era già presente prima del testo di legge. Più in generale, nel panorama terapeutico è lenta l’evoluzione che ha portato, almeno per alcuni, a capire la necessità di non isolare il tossicodipendente dal mondo ma di aiutarlo e stargli vicino in un contesto che non sia la segregazione e la clausura. Eppure sembrerebbe automatico non emarginare ulteriormente chi proviene da realtà già sufficientemente emarginate. Tutta la discussione quindi sulla struttura di Castelfranco Emilia può essere vista sotto due aspetti principali: quello terapeutico e quello dei diritti dei detenuti tossicodipendenti. Per il primo aspetto non ci si illuda che possa servire a qualcosa, è un’idea vecchia quella del carcere "speciale" per tossicodipendenti che si mette in atto solo adesso perché non si sa più dove sbattere la testa. La popolazione tossicodipendente detenuta è ormai talmente vasta da creare problemi seri di gestione degli istituti, quindi oggi c’è più un tentativo di separare i detenuti con questi problemi dagli altri che quello di curarli, l’aspetto terapeutico non può che rimanere viziato dalle contraddizioni di fondo. Sotto l’aspetto dei diritti invece si rischia grosso. Il tentativo di "affittare" le persone al privato, in particolare a San Patrignano che si è sempre distinta per i suoi aspetti lobbistici e le sue ambizioni monopolistiche sulle terapie per tossicodipendenti, toglie qualsiasi possibilità al detenuto di dialogare con l’istituzione pubblica. E poi, è compatibile con le leggi vigenti sull’esecuzione della pena il regolamento di San Patrignano?
Infine, quando un detenuto in esecuzione della pena in un carcere gestito da San Patrignano entra nei termini di legge per l’affidamento in una comunità terapeutica, che libertà ha di scegliere la struttura più consona alla sua situazione?
In realtà questa storia del carcere gestito da Muccioli chiude il cerchio con un tentativo molto più ampio nel quale il disegno di legge Fini di fatto rischia di eliminare qualsiasi garanzia per le persone tossicodipendenti. Nel testo si prevede l’equiparazione delle comunità terapeutiche ai servizi per le tossicodipendenze pubblici, togliendo a questi ultimi la funzione di garante sull’idoneità dei programmi terapeutici rispetto all’utente. In questa logica verrebbero sempre più selezionate le comunità che danno la loro adesione all’ideologia proibizionista e repressiva a discapito delle altre, ci sono parecchi soldi in ballo ed il mercato dell’offerta terapeutica non è così omogeneo e suddito dell’attuale politica governativa sulle tossicodipendenze. Personalmente mi è difficile parlare negativamente di qualsiasi iniziativa volta ad indebolire il regime custodiale e l’esagerato vincolo della sicurezza all’interno degli istituti di pena. Ma questo è un discorso generale che vale per tutto il sistema penitenziario, dove mancanza di finanziamenti, personale ed in alcuni casi volontà rallentano un naturale processo di modernizzazione ed umanizzazione dell’esecuzione della pena. Niente a che vedere con la cura delle tossicodipendenze che necessitano di approcci ben diversi da quelli della detenzione, sia essa in carcere che in comunità o in mix incoerenti. Su questo in Italia ed in Europa si è molto più avanti di quanto dimostrano i nostri legislatori, ancora legati a logiche terapeutiche del secolo scorso, ancora convinti che i disagi sociali siano dei nemici a cui imporre leggi e non un bagaglio di sofferenza legato a persone, esseri umani con dignità e diritti, non macchine rotte da riparare.
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