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Un ddl che abolisce il concetto stesso di "servizio sociale"
Un disegno di legge che abolisce il concetto stesso di "servizio sociale" per i detenuti a tutto ed esclusivo vantaggio di quello - di carattere eminentemente securitario - di "esecuzione penale"
Stefano Bentivogli - Ristretti Orizzonti, 15 marzo 2005
Giovedì 17 marzo 2005 andrà in aula alla Camera il disegno di legge (Camera n. 5141) che porta questo titolo: "Delega al governo per la disciplina dell’ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria". A prima vista potrebbe sembrare solo un intervento legislativo volto a riformare l’attuale sistema che regola le carriere dei dirigenti penitenziari, quindi di interesse limitato a chi occupa i ruoli chiave dell’esecuzione penale in carcere e fuori. Ma invece, a una lettura più attenta, si scopre che l’articolo n. 3 del Ddl riguarda tutt’altro, arrivando di fatto a prefigurare una parziale riforma dell’ordinamento penitenziario che interessa tutti i detenuti, le persone agli arresti domiciliari, in affidamento e semilibertà. La riforma coinvolge infatti i Centri di servizio sociale per adulti (Cssa), mettendo implicitamente in discussione il ruolo stesso degli assistenti sociali che attualmente operano in queste strutture. Se questo provvedimento passerà alla Camera così come oggi è formulato, oltre a un accorpamento delle carriere dirigenziali penitenziarie si dovrà registrare la sostituzione dell’articolo 72 dell’Ordinamento penitenziario vigente con un nuovo articolo che prevede, sostanzialmente, due cose:
C’è da chiedersi fino a che punto il legislatore intenda spingersi, e allarma comunque il fatto che – a forza di cambiamenti apparentemente "minimalisti" – rischia di essere sostanzialmente sfigurato il ruolo stesso degli assistenti sociali impegnati in ambito giudiziario, per i quali sembrano profilarsi – sotto le insegne dei nuovi Uffici di esecuzione penale esterna - non più funzioni di "servizio sociale" (quelle cioè proprie della loro formazione professionale) ma funzioni essenzialmente di controllo e di lavoro burocratico–amministrativo. Questo cambiamento tutt’altro che marginale sta passando in Parlamento sotto silenzio, quasi occultato fra le norme che disciplinano l’accorpamento delle qualifiche dei Direttori di Istituto e i meccanismi di accesso alla carriera dirigenziale penitenziaria. Si tratta invece di un ennesimo attacco agli strumenti dell’esecuzione penale che dovrebbero agevolare il reinserimento sociale; un cambiamento che avrà l’effetto di rendere ancora più arduo e solitario il percorso di recupero di chi accede alle misure alternative alla detenzione in carcere. Il rischio, evidente, è che finisca per prevalere la logica del "si salvi chi può", con il risultato di un fatale aumento di "ricadute" – da parte delle persone più fragili e socialmente meno inserite - e quindi di ritorni in carcere. Eppure le cosiddette misure alternative alla detenzione, per quanto vengano messe sempre più spesso in discussione, costituiscono l’unica strada oggi praticabile per rendere moderna, civile e formativa l’esecuzione della pena, e certamente contribuiscono in maniera tutt’altro che irrilevante a ridurre il numero dei ritorni in carcere. L’articolo 3 del Ddl ha tentato anche di fare dell’altro, eliminando la Cassa per il soccorso e l’assistenza alle vittime e i Consigli di aiuto sociale, organismi dei quali non si può stimare però l’importanza in quanto non sono mai stati resi effettivamente operativi. Ma soprattutto con questo Disegno di Legge si è tentato di fare un ulteriore "taglio" che ha suscitato inquietudini più che fondate, e che pare sia stato bloccato attraverso un emendamento fortemente sollecitato dalle più forti realtà del volontariato. Si voleva infatti eliminare un articolo dell’Ordinamento penitenziario, il 78, che prevede la presenza in carcere ma anche fuori, nell’area penale esterna, di assistenti volontari "su proposta del Magistrato di Sorveglianza", e non direttamente subordinati ai direttori d’Istituto (sebbene operanti, ovviamente, in un regime di coordinamento). Viene da chiedersi a chi diano fastidio tali volontari, il cui principale impegno consiste nell’aiutare i detenuti a stabilire e mantenere un minimo di rapporto con il mondo esterno, e spesso anche nel supplire – con la loro generosa dedizione – alle gravi carenze di cui continua a soffrire il nostro sistema penitenziario. Il sospetto era che a volerli espellere dalla realtà carceraria siano le forze più retrive del sistema penitenziario, quelle che si ostinano a voler tenere lontano dagli occhi di tutti le arretratezze e le assurdità che caratterizzano ancora buona parte degli istituti di pena italiani; o quelle forze che non vedono di buon occhio l’istituzione e l’ingresso in carcere del Garante dei diritti per le persone private della libertà. In questi ultimi anni si sta legiferando troppo spesso con tecniche da prestidigitazione, col risultato che dal cilindro di leggi apparentemente innocue, di "comune buon senso", balzano poi fuori, come conigli, ben architettati attacchi a quel po’ di modernizzazione e di umanizzazione che si è riusciti a iniettare nell’arco di trent’anni nell’esecuzione penale. Da un lato si sbandierano grandi riforme, come quella del codice penale (che pare ormai essere completamente affossata), e dall’altro – spesso con veri e propri colpi di mano, come nel caso di questo disegno di legge - si procede con interventi parziali ma mirati comunque a un unico fine: quello di riportare indietro l’esecuzione penale, eliminando quegli elementi di modernità, di civiltà e di umanità che con tanta fatica, e con tante battaglie, erano stati apportati negli scorsi decenni.
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