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Quando finisce una pena? Quando smettiamo di essere "delinquenti"? A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 29 gennaio 2007
Il senso e la durata della pena sono temi tornati al centro dell’attenzione in questi giorni, attraverso le polemiche nate intorno a due ex terroristi: Susanna Ronconi, a cui è stato dato un incarico in una commissione ministeriale sulle droghe, e Renato Curcio, che doveva partecipare a un incontro con gli studenti dell’Università di Lecce. In carcere ci si domanda allora se davvero c’è una fine alla pena, o se in realtà il "debito con la società" non sia mai del tutto pagato, e di questo parlano le riflessioni di detenuti che proponiamo. Su questo stesso tema ci piace però riportare anche il pensiero di Olga D’Antona, moglie del giurista ucciso dalle Brigate Rosse: "Certo sarebbe auspicabile da parte di queste persone, che hanno avuto un ruolo da protagonisti nel terrorismo, una autoregolamentazione, una sensibilità, il desiderio di tenere conto della sofferenza che c’è e di riflettere sul fatto che comunque ci sono delle cose che sono irreversibili, che non potranno mai essere sanate. È certo molto doloroso, ma penso che non debba essere però lo Stato a regolamentare per legge questa questione"
MAI e poi MAI pensiamo di dare lezioni di vita
Dopo le polemiche sulla scelta del ministro Ferrero, che ha voluto l’ex terrorista Susanna Ronconi nella commissione ministeriale sulle droghe, ora le contestazioni hanno raggiunto l’ex terrorista Renato Curcio, che era stato invitato a parlare, come direttore editoriale della casa editrice Sensibili alle foglie – ad un incontro con gli studenti dell’Università di Lecce. La reazione di molti politici, e anche del sindaco della città pugliese, è stata: "Da quando gli ex brigatisti sono maestri di vita?". Curcio ha scontato anni di carcere, e una volta libero ha avuto il coraggio di avviare un’attività editoriale, e anche se gli anni di galera gli basteranno forse a mettersi in pari con la giustizia ma non con le vittime né tanto meno con la sua coscienza, mi chiedo a chi giovi sbarrargli ancora la strada. Mi hanno colpito in particolare le critiche a Curcio sulle presunte "lezioni di vita". Anche qui a Padova, nell’ambito di un progetto di prevenzione alla devianza, incontriamo gli studenti, sia in carcere che nelle scuole. Parliamo con loro per ore, lo scambio è intenso e per noi è una fatica metterci "a nudo" davanti a quei giovani che hanno voglia di farsi la loro idea del carcere e di chi lo popola, ma nessuno di noi detenuti ha MAI e poi MAI pensato di dare loro lezioni di vita. Ci limitiamo a raccontare le nostre storie, spieghiamo, senza giustificazione alcuna, come siamo improvvisamente diventati – da onesti cittadini quali eravamo – ladri, spacciatori, rapinatori e anche assassini. Personalmente spiego cosa hanno comportato, per la mia vita e per tante altre, i reati che ho commesso. Ma quando a quei ragazzi racconto che alle mie figlie prima ho dato la vita e poi gliel’ho distrutta, non lo faccio certo con la presunzione di dare loro lezioni di vita. Quando racconto che mia figlia di 15 anni non ha il ricordo di aver mai mangiato con me, o che l’altra mia figlia di 18 anni ha convissuto per 10 anni con dei gravi problemi causati dalla mia vicenda, non lo faccio certamente con la presunzione di dare lezioni di vita. Sono io, semmai, ad imparare qualcosa, perché sono obbligato a confrontarmi, con loro e soprattutto con me stesso, su quella che è stata una parte pesante della mia vita. Se poi dalla negatività della mia storia riescono a raccogliere qualche spunto di riflessione ed a formarsi un’idea loro, tanto meglio perché in fin dei conti sono proprio questi i propositi del nostro progetto con gli studenti. Penso allora che le critiche a Renato Curcio sarebbero state comprensibili se fossero arrivate dalle vittime o dai loro familiari, persone che hanno sempre e comunque il diritto di esprimere la loro contrarietà, ma considero fuori luogo che siano state sollevate da alcuni appartenenti alle istituzioni, coloro che dovrebbero rallegrarsi di una "avvenuta rieducazione", quindi della vittoria dello Stato nei confronti di una persona come Curcio che, a suo tempo, lo Stato l’ha combattuto.
Marino Occhipinti
Rispettare chi lavora sodo e con umiltà
"Quel che conta è lo scandalo di Cristo, è lo scandalo di aver voluto soffrire benché innocente", diceva Alesa, il minore dei Fratelli Karamazov, sostenendo che nessuno è legittimato a lamentarsi delle proprie sofferenze di fronte a quelle di Cristo. Però, io che sono in galera dico che forse, se Cristo ha scelto di soffrire e morire per noi, invece di scendere dalla croce e continuare ad insegnare agli uomini la via della salvezza, questo non significa che lo possiamo o dobbiamo fare tutti. Dostoevskij ad esempio, invece di lasciarsi morire in un carcere siberiano, scelse la vita e una volta espiata la pena scrisse decine di libri che ancora oggi i nostri figli studiano nelle scuole. E tutti noi valutiamo prezioso il contributo che questo scrittore ha dato alla letteratura mondiale. Per questo io credo che nessuno possa decidere con quale spirito una persona deve affrontare la condanna, e se Susanna Ronconi non accetta di subire passivamente la sofferenza inflittale dai tanti anni di carcere, ma sceglie di riscattarsi rendendosi utile per la società, che sia libera di farlo. Ci si scandalizza perché questa donna fa parte di una commissione ministeriale che lavora su un progetto di legge, un ruolo troppo di prestigio, quindi. Il che significa che oggi si continua ancora a pensare che la punizione deve essere accompagnata dall’umiliazione, l’unico segno della redenzione. Susanna Ronconi invece non si è fatta schiacciare dal dolore ineluttabile della pena, ma in carcere ha studiato, finita la pena ha lavorato aiutando i tossicodipendenti, ed oggi è una delle persone più esperte in materia di tossicodipendenza. Ed è per questo motivo che è stata convocata a far parte di questa commissione che ha il compito di stendere il testo di una nuova legge. Tra l’altro un lavoro non retribuito. Però la nostra società dice: se un detenuto vuole fare qualcosa di utile che pulisca i giardini, o spazzi le strade, ma questo detenuto non deve mai avere un incarico importante e pensare al bene comune usando la sua testa e la sua esperienza. Nei confronti di una concezione della pena così implacabile, non posso però non tentare di ricordare che un ex detenuto competente può dare il suo contributo alla ricerca del bene comune anche stando "su una poltrona", insomma occupando un ruolo importante, e senza con questo sminuire il lavoro degli onesti cittadini e soprattutto senza offendere la sensibilità dei famigliari delle vittime. In fondo non si sta parlando di andare in televisione e fare la show girl, ma di lavorare sodo, gratis e con umiltà. Io sono convinto che quelle persone che, come Dostoevskij, dopo essere uscite dal carcere hanno dato un contributo culturale a un gran numero di esseri umani, possiedano sicuramente qualcosa che merita da parte della società rispetto, anche se è accompagnata da un passato condannabile. Rispettiamo quindi il contributo prezioso che persone come Susanna Ronconi possono continuare a dare a tutti noi.
Elton Kalica
Il messaggio padovano contro Susanna Ronconi non propone cambiamento
Padova non vuole Susanna Ronconi alla Consulta nazionale sulle tossicodipendenze, l’esito del voto della mozione del Consiglio comunale è chiaro. Non la vuole perché ex terrorista e perché condannata per l’omicidio di Mazzola e Giralucci, militanti del M.S.I., nel lontano 1974. A me sembra più importante porsi qualche domanda: - Quando finisce una pena in termini penali e quando in termini sociali? - Quando una persona può definirsi ex-terrorista, ex-detenuto, ex-tossico, ex…? - Possiamo pensare che le vittime dirette ed indirette, pur senza dover dimenticare, perché è impossibile, possano trovare uno spazio di mediazione che non significhi l’annullamento di una persona che ha già scontato la pena, che dimostra preparazione, competenza, titoli, e che quindi può dare il suo contributo, questa volta su una questione dove sono in gioco migliaia di vite? Ma c’è una considerazione più personale alla quale tengo come tossicodipendente, uno che conosce carcere, Ser.T. e comunità piuttosto a fondo. È vero che ci sono altre persone che tanto hanno lavorato su questa pazzesca situazione che è il disagio da dipendenze, ma quello di Susanna Ronconi per me resta un ruolo particolare e questo (si arrabbino pure i padovani ostracisti) sta proprio nella sua storia Non vorrei essere frainteso, ho sempre pensato che l’ipotesi del delitto politico, a cui porta il terrorismo, sarebbe finita nel delirio e nel sangue. Non posso però dimenticare che dietro atti atroci come quelli, pur tra tante contraddizioni, c’era la lotta per i diritti degli ultimi. Non credo ci sia nessuno con un minimo di intelligenza che dubiti del cambiamento di rotta di questa donna, e allora perché non accettare il ruolo sociale di una persona che ha fatto una svolta così radicale, che non ha perso tempo, come non ha perso quella sensibilità particolare per chi viene usato e sbattuto in carcere ed in altre istituzioni "totali", per chi finisce criminale senza arricchirsi mai, ammalandosi, vivendo da randagio e spesso morendo solo come un cane? Il messaggio padovano non propone cambiamento, non promuove mediazione, tanto meno conciliazione e meno che mai, in questa città del Santo tanto cattolica da arricchircisi, il perdono. Sarebbe stato ben più coraggioso proporre qualcosa di nuovo, piuttosto di dare battaglia su queste persone, oggi impegnate con forza nell’ambito sociale, ed accettare invece sempre politici corrotti, condannati, con reati prescritti non molto meno gravi, ma sui quali l’oblio diventa automatico.
Stefano Bentivogli
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