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L'arte di saper parlare ai ragazzi fa superare molti pregiudizi A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 15 gennaio 2007
Venerdì 26 gennaio l’Eurispes presenterà il Rapporto Italia 2007. Le prime anticipazioni riguardano l’opinione dei cittadini sull’indulto: due italiani su tre (66%) si dicono contrari al provvedimento di clemenza. Più della metà dei giovani è contraria a qualsiasi sconto di pena. Quanto al sistema Giustizia in Italia, il quadro è sconcertante: è possibile attendere anche dieci anni una sentenza definitiva. A leggere questi dati, abbiamo capito una cosa: che c’è poca informazione su questi temi, altrimenti forse anche chi è contrario a qualsiasi sconto di pena si farebbe qualche domanda su una Giustizia, che può far aspettare dieci anni per dire se una persona è colpevole o innocente. Questa ignoranza diffusa dà un senso a tutto il lavoro, che detenuti, volontari, operatori, insieme al Comune di Padova, fanno nelle scuole per informare su questi temi. I risultati? Provate a leggerli nel racconto di un’insegnante e due detenuti.
Conoscono l’arte di saper parlare ai ragazzi
È una mattina di gennaio. Entro con i ragazzi in aula magna. Manca una mezz’ora all’incontro tanto atteso. Circola un’emozione palpabile, una vaga inquietudine. Sono inquieta anch’io. So che i ragazzi non amano esporsi, le domande che vogliono fare sono tante, ma chissà se riusciranno ad aprire bocca... Comincio a leggere ad alta voce qualche pagina di "Ragazzini e ragazzacci", questo libro che parla di ragazzi in carcere, e di ragazzi liberi che hanno voglia di conoscere una realtà così diversa dalla loro. So cosa sta passando per la testa dei ragazzi: la loro immaginazione sta cercando di disegnare i volti dei "carcerati". Sguardo torvo, aria minacciosa. Il giorno prima una ragazza mi ha chiesto preoccupata: "E se tentano di scappare?". Ne abbiamo discusso un po’. Brusio. Poi il silenzio assoluto. Sono entrati. Presentazioni. Strette di mano. I ragazzi sono muti e... li guardano. Con sorpresa, curiosità, incredulità. Ma come, sono loro? E la faccia da "supercattivi"? E lo sguardo malvagio? Ma questi sembrano... NORMALI ! Poi si comincia. Altin, Graziano e Nicola sono bravissimi a rompere il ghiaccio. Spiegano perché sono potuti venire a parlare con noi pur essendo in carcere. Parlano di permessi, di lavoro, di "percorsi graduali verso l’esterno". Mi scopro terribilmente ignorante. Comincio a chiedermi che cosa ne so io, (io che insegno, che mi informo, io lettrice appassionata di Carlotto...) della realtà carceraria. Poco o nulla. Si alza gradualmente un velo su un "mondo a parte", con regole, attività, schemi assolutamente insospettati. Altin, Graziano e Nicola conoscono l’arte del parlare ai ragazzi. Che cominciano a chiedere, prima timidamente, poi con sempre maggiore urgenza. E arrivano le domande più personali. Me l’avevano chiesto, i ragazzi: "Ma prof, possiamo chiedergli perché sono in carcere, possiamo sapere qualcosa del loro passato? E se ci stanno male?". Già. Le domande arrivano e ogni volta il mio battito è un po’ accelerato, vedo il momento di sospensione, sento vibrare il dolore, anche se è solo un attimo. Rispondono, con sincerità, con la diversità delle loro diverse persone: Altin è solare, non riesco proprio a far coincidere la sua immagine con quella del bullo che racconta di essere stato; Graziano è quasi impenetrabile, ma colgo un dolore sordo, profondo nella sua esperienza; Nicola espone in modo vivace e accattivante le sue vicende travagliate. Sono sim-patici. La campanella dell’intervallo suona. Due ragazzi hanno ancora la mano alzata. Chiedo loro informazioni sulla redazione di "Ristretti". Ne fanno parte tutti e tre. Poi ci salutiamo con calore. Ho appena letto l’articolo di Nicola. Ho appena letto l’articolo di Altin. Ho sorriso alle vignette di Graziano. Ho scoperto tre persone. Davvero, grazie.
Maria Grazia De Vivo – Scuola media Falconetto
Per poche ore mi sono sentito un uomo libero
C’è un giorno speciale per me, che difficilmente dimenticherò: è stato quando mi hanno invitato a partecipare a un incontro con gli studenti dell’Istituto "Mattei". Non posso negare che avevo preso la cosa un po’ superficialmente, perché credevo che, come detenuto, i ragazzi mi avrebbero guardato con diffidenza ed un certo pregiudizio. Ora posso dire che il vero prevenuto sembravo io. Non è facile interloquire con dei ragazzi che ascoltano le tue parole, sapendo che dinnanzi a loro ci sono tre uomini che hanno commesso reati gravi e si sono fatti anni di carcere. Li scrutavo, cercando di capire che cosa stessero pensando di me, ma ecco che è arrivato il mio momento, un grosso respiro e via… invece non riuscivo a parlare, l’emozione si era impadronita di me. D’improvviso mi sono accorto che mi stavo commuovendo, e questo succedeva perché tra quei ragazzi avevo intravisto me stesso, un ragazzo pieno di vita, con la spensieratezza e l’incoscienza della giovinezza. Avrei voluto essere fra loro, ma in realtà non lo ero, e dovevo invece fargli comprendere perché un ragazzo come loro era finito dietro le sbarre, gettando alle ortiche tutti i suoi sogni. Ho cercato di dare il meglio di me senza cadere nella retorica, sottolineando che la cosa importante, che forse noi da ragazzi non abbiamo capito, è che quando non si sta bene, si è insoddisfatti, è importante non chiudersi in se stessi, superare qualsiasi problema dialogando con le persone che sono vicine. Il sentirsi forti ed invulnerabili può portare a sopravvalutare le proprie capacità e, cosa più grave, a non considerare più le persone che ci amano figure importanti della nostra vita. Io ho creduto che i miei vent’anni potessero bastare a darmi l’energia per far diventare realtà i miei sogni, ma eccomi qua, a parlare di me mentre vivo dentro un carcere. La mia voglia di bruciare le tappe, il desiderio di trovare uno spazio nella società senza fare troppi sforzi, mi hanno portato a perdere la cosa più bella che un uomo ha: la libertà. Ma la cosa peggiore è che ho deluso le aspettative di chi mi amava veramente. Sono convinto che quei ragazzi avranno sicuramente capito il nostro messaggio, l’unico consiglio sincero che un uomo nelle mie condizioni poteva dare a dei giovani è di cercare di restare sempre persone libere nell’anima, nel corpo e nella mente. Grazie di avermi fatto sentire, anche solo per poche ore, un uomo libero!
Arqile Lalaj
Una stretta di mano: sono rimasto sbalordito
L’aula dell’Istituto Selvatico è grande e gli studenti si sono raggruppati tutti in fondo, quasi a volersi proteggere l’un l’altro e a porre una sorta di rassicurante "terra di nessuno" tra loro e l’incognita che rappresentano questi detenuti che sono venuti a "tenere lezione". Come sempre è necessario qualche minuto perché i ragazzi trovino il coraggio di fare le prime domande. Poi la curiosità prende il sopravvento e diventa tutto più facile, finché non giunge, quasi inevitabilmente, la domanda fatale: "Ma voi perché siete in carcere?". È una domanda che temiamo e, ogni volta che ci viene posta a bruciapelo, la prima reazione è di guardarci in faccia tra di noi, quasi a chiederci: "E adesso cosa facciamo?". Il problema è come raccontarlo a dei ragazzi di cui temiamo la reazione. Abbiamo letto quello che hanno scritto all’inizio del progetto e sappiamo che su una cosa sono concordi: non possono perdonare chi ha tolto una vita a un’altra persona. L’omicidio è, giustamente, il tabù su cui non transigono. Come dire loro che due delle persone che in quel momento "siedono in cattedra" per parlare di carcere sono detenute proprio per quel reato? Però non ci si può sottrarre alla domanda, abbiamo deciso di metterci in gioco e dobbiamo andare fino in fondo. Per cui comincio a raccontare la mia storia, cerco di spiegare come anche una persona normale, con un lavoro normale, quale ero io, possa in determinate circostanze perdere il controllo e commettere qualcosa di spropositato. Non mi giustifico, non minimizzo in alcun modo quello che ho fatto, ma cerco di metterli in guardia sul fatto che nessuno è immune, come credevo di esserlo io e come probabilmente credono di esserlo loro, e soprattutto li invito a chiedere aiuto, cosa che io non ho fatto, nel caso si accorgano che la loro vita sta deragliando. Anche Altin racconta con semplicità la sua storia. Spiega come una vita all’insegna di quello che oggi viene chiamato "bullismo" lo ha portato a tenere certi atteggiamenti fino al giorno in cui si è scontrato con un altro bullo e uno dei due è rimasto a terra senza vita, mentre l’altro deve trascorrere gran parte della propria dietro le sbarre. I ragazzi vogliono sapere quanti casi del genere ci sono in carcere. Gli spieghiamo che non abbiamo incontrato mai nessuno che si vanti di aver ucciso e che, anzi, molti sono perseguitati dagli incubi per quello che hanno fatto. E soprattutto che non c’è pena espiata che possa cancellare un atto del genere, che si può essere ex ladri, ex rapinatori, ma non si può mai essere ex assassini, perché è un marchio nell’anima che ci si porta dietro per il resto della vita. La campanella segna la fine del nostro incontro. Ci alziamo per andarcene ma accade qualcosa di inaspettato. Alcuni ragazzi si avvicinano e mi tendono la mano. Resto per un istante interdetto dalla sorpresa prima di tendere a mia volta la mia. Mentre me la stringono, a uno a uno mi augurano il Buon Natale. Ricambio a fatica l’augurio, e così i miei altrettanto sorpresi compagni di detenzione, con un sorriso tirato sulle labbra. Non so se sono riuscito a spiegarmi, ma questo gesto, questo riconoscimento di umanità, mi lascia sbalordito. Quelle strette di mano è come se mi dicessero: "Nonostante quello che hai fatto, per noi fai ancora parte del consorzio umano". Ed è il regalo più bello e inaspettato che potessero farmi.
Graziano Scialpi
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