L'opinione dei detenuti

 

Incontro con Olga D'Antona:

il dolore delle vittime e il bisogno di verità

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 8 gennaio 2007

 

Il 20 maggio 1999 un commando delle Brigate Rosse uccideva il professor Massimo D’Antona, esperto di diritto del lavoro. È cominciato proprio rievocando questa storia così drammatica un incontro emozionante, che si è svolto il 4 gennaio nel carcere di Padova fra la moglie di Massimo D’Antona, Olga, oggi parlamentare, e alcuni detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti. Emozionante perché ha toccato temi forti, come il dolore e la frustrazione delle vittime, il loro bisogno di una attenzione vera da parte della collettività. Le testimonianze che seguono sono, una parte del racconto di Olga D’Antona, sull’importanza che ha, per le vittime, la verità prima ancora che la giustizia, e poi le riflessioni di un detenuto, che spiegano come a volte, dietro all’assenza di verità di chi si è macchiato di un reato, ci sono storie complesse, che non giustificano nulla, ma che vale la pena conoscere. E ancora, le considerazioni di un altro detenuto sul senso della pena, e su quel nodo, forse impossibile da sciogliere, che è il rapporto tra la vittima e l’autore di reato.

 

Olga D’Antona: "Non ho mai provato odio"

 

Io, per mia fortuna, non ho mai avuto desideri di vendetta, non sono stata vittima dell’odio, che è la cosa più devastante, e penso sia davvero un veleno, che ti fa stare ancora più male. Forse il mio dolore, il senso di perdita era talmente grande che non c’era spazio per altri sentimenti. Io poi non ho una famiglia, e mio marito pure non aveva una famiglia alle spalle, eravamo due persone sole che si erano incontrate, la mia famiglia era tutta lì con lui. Quando mi è stato tolto lui, io sono stata lasciata in un deserto affettivo. Però, nonostante questo, il senso di privazione era tale da non lasciare spazio ad altro, e poi all’inizio non sapevo neppure verso chi provare dell’ostilità, perché c’erano dei fantasmi, sono passati parecchi anni prima che si scoprissero i responsabili dell’omicidio di mio marito. Una cosa però vi posso dire, che quello che in un certo senso mi ha placato è proprio avere di fronte delle persone in carne ed ossa. La verità è fondamentale, potersene fare una ragione, sapere da che parte ti è venuta quell’aggressione, capirne le motivazioni, è importante, perché altrimenti davvero non c’è pace. Questo senso di maggiore tranquillità lo si ottiene quando si riesce ad avere un po’ di verità.

Il termine "risarcimento" delle vittime non mi piace, perché ci sono drammi che non sono risarcibili, quello che mi piace dire è che la collettività nel suo insieme dovrebbe farsi carico di una solidarietà nei confronti di quella persona che viene colpita così duramente. Ma l’opinione pubblica è spesso più attratta dalla figura del terrorista, l’aggressore è sempre più interessante della vittima, e questo fa sì che la vittima nella sua frustrazione non riesca a perdonare, non riesca ad accettare che quando una persona ha scontato i suoi anni di carcere, si è ravveduta, ha dato dimostrazione di poter essere utile alla società attraverso il volontariato, attraverso una attività positiva, bisogna assolutamente far capire che questa è una società capace di riaccogliere. Io mi sono trovata a difendere Sergio D’Elia, lui è stato un terrorista, ma ha pagato col carcere, ha scontato la sua pena, si è battuto per i diritti civili, contro la pena di morte, ora è stato eletto al Parlamento con il Partito Radicale. Questi esempi dovrebbero in qualche modo servirci per dire a chi ha sbagliato: "Guardate che c’è una via d’uscita, c’è modo di rientrare nella società". Allora non può essere la società a mettere un marchio di infamia su chi ha sbagliato, ma certo è che se da un lato noi dobbiamo auspicare il reinserimento delle persone che si sono rese conto della gravità dei loro errori, è importante poi, da parte di queste persone, agire tenendo conto del dolore che c’è, e dirsi sempre: "Questa è una società che ha saputo riaccogliermi, ma io mi devo muovere in modo da non ferire la sensibilità di nessuno".

 

Scoprire faticosamente la forza della verità

 

Più un bambino cresce e acquista capacità di comprensione, più diventa arduo confessargli di aver commesso un reato: se ha l’età per capire, ha infatti anche l’età per giudicare, e dirgli la verità – quando la verità è tremenda – vuol dire aprire nella sua coscienza scenari imprevedibili. Io, proprio perché ero consapevole di avere imputazioni da ergastolo, scelsi all’inizio con le mie figlie, e con tutti i miei parenti, la strategia difensiva più banale, che era anche la più lontana dalla verità: mi ostinai infatti a rivendicare la mia innocenza nonostante tutte le circostanze fossero contro di me.

Ai magistrati ribadivo continuamente che erano incappati in un errore, che io proprio non c’ero la sera dell’omicidio… Col mio cocciuto negare, in realtà, non facevo che ingannare me stesso, dal momento che bastava un decimo degli elementi in possesso della magistratura per condannarmi, come poi è puntualmente avvenuto. E io in fondo ero consapevole che la mia proclamata innocenza faceva acqua da tutte le parti, ma il mio pensiero era: "Potranno anche condannarmi per la partecipazione all’omicidio, ma io continuerò a dire che non è vero. Forse almeno i miei familiari mi crederanno e potrò continuare a guardarli negli occhi… Quanto alle mie figlie, non dovranno mai sapere quello di cui è responsabile il loro padre…".

Ora, mentre scrivo, ripenso alla mia ottusa testardaggine di allora e la trovo patetica: qualche anno dopo, quando decisi che dovevo ammettere finalmente le mie responsabilità, le mie sorelle e mio fratello mi dissero infatti che avevano smesso da un pezzo di credere alla mia innocenza. Chi avevo ingannato, dunque, se non me stesso?

Quello della chiarezza è stato un momento doloroso, ma è quantomeno servito a sanare una delle tante "fratture" che ho causato con i miei reati. In seguito infatti i miei parenti mi hanno confidato che, solo quando avevo trovato la forza di dire loro la verità, avevano riscoperto la voglia di credere in me e nel mio riscatto come uomo, come persona. Il che non è poco, quando ti rendi conto che senza la fiducia delle persone che ti vogliono bene non ce la potresti mai fare a uscire dal buco nero in cui ti sei cacciato. Ristabilire un rapporto di verità con i miei mi ha dato una grande forza, anche se è stato doloroso pensare agli anni in cui li ho ingannati rivendicando un’insostenibile innocenza. Nonostante mi ostinassi a mentire, non mi hanno mai abbandonato, e questo mi fa sentire doppiamente in colpa nei loro confronti. Ma mi dà anche forza, perché per un uomo chiuso in gabbia con "fine pena mai" è fondamentale conservare robuste radici affettive.

 

Marino Occhipinti

 

La pena per fare "allenamento in dignità"

 

Ma la pena che funzione ha? È una domanda a cui ho sentito dare tante risposte, ho sentito parlare di funzione retributiva, preventiva, rieducativa. Io, che sono in carcere, penso solo che la galera non dovrebbe rappresentare la vendetta della società. Questa società ha tutto il diritto di difendersi dalle persone che portano disordine e male, ma il carcere non deve schiacciare le persone. Dovrebbe essere piuttosto l’occasione per lavorare con quegli uomini e quelle donne che hanno sbagliato, in modo che, quando tornano nelle loro comunità di origine, possano portarvi qualcosa che gli ha lasciato la società civile, ma purtroppo questa occasione spesso viene sprecata. Mi accorgo invece che il carcere è il luogo dove, anche in maniera velata, implicita, strisciante, si coltiva questo senso della vendetta che non porta alcun beneficio, né per lo Stato, né per la società che è la vittima dei nostri reati.

In tanti poi si chiedono se il carcere, oltre a togliere di mezzo le persone che hanno commesso reati, serve oppure è del tutto inutile. Io, che di anni di galera me ne sono fatti tanti, credo che il carcere, almeno per chi ha commesso reati gravi, possa servire alla persona, ma soltanto se le si dà modo di sperimentare la dignità, di fare allenamento in dignità, perché se invece questa persona in carcere vive una condizione di ulteriore avvilimento, non uscirà certamente migliore.

E le vittime, il loro bisogno di giustizia, di riparazione, di conforto? So benissimo che lo Stato, oltre a rispettare la dignità delle persone detenute, ha il compito di garantire piena attenzione alle vittime. Ci sono persone che sostengono che i magistrati dovrebbero ascoltare anche le vittime nel momento della concessione ai detenuti dei benefici di legge, come i permessi premio, un lavoro esterno, la semilibertà. Secondo me, chiedere un parere alle vittime, nel momento in cui il condannato ha la possibilità di uscire, creerebbe pesanti differenze di trattamento: chi ha a che fare con dei famigliari della vittima incapaci di odiare, otterrebbe il loro consenso a poter godere dei benefici, mentre altri detenuti si troverebbero a restare in carcere fino alla fine, senza nessun percorso di reinserimento, a causa del desiderio di vendetta delle vittime.

Invece, credo che più che attribuire un ruolo alle vittime nel percorso della persona condannata, sarebbe utile iniziare un’opera di ricomposizione dei rapporti tra la vittima e il colpevole, proprio per rispondere alle esigenze delle vittime, che sono spesso quelle di potersi confrontare con il colpevole e di sapere da lui la verità. È però un passo delicato, che forse possono fare soltanto persone specializzate come i mediatori penali: un detenuto non può, da solo, cercare il dialogo scrivendo magari una lettera o mandando il proprio avvocato, perché la vittima può essere incapace di odiare come Olga D’Antona, ma più spesso è la persona per la quale è più difficile avere un atteggiamento di comprensione e credere nel cambiamento di chi ha commesso un grave reato.

 

Elton Kalica

 

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