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Un carcere "sotto assedio" a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 1 settembre 2008
Nei periodi storici in cui monta la voglia di pene dure e di carcere, e ci si rallegra per ogni legge che aumenta gli anni di galera per qualche reato, bisognerebbe per lo meno domandarsi di che carcere parliamo. Non ci stancheremo mai, allora, di ribadire che un carcere con la gente che aspetta il fine pena e basta, è inutile, anzi è pericoloso perché sforna persone incattivite e sole. La Casa di reclusione di Padova è un carcere umano, con parecchie possibilità di studio, di lavoro e altre attività, ma anche a Padova il clima sta cambiando, e si comincia a respirare aria di tensione e assenza di speranza per il futuro: siamo sicuri che è questo il carcere che può far vivere più tranquilli i cittadini onesti?
Tutti i giorni vedo peggiorare il clima nella mia sezione
Sono circa quattro anni che mi trovo nella Casa di reclusione di Padova. Già prima del trasferimento mi dicevano di reputarmi fortunato perché il carcere di Padova offriva parecchie possibilità di reinserimento e percorsi lavorativi. Quando sono arrivato qui ho trovato molti detenuti, italiani e stranieri, che mi hanno raccontato come funzionano le cose qui dentro. La maggior parte di loro andava in permesso premio, altri erano in attesa di una misura alternativa al carcere e il resto sperava di poter accedere prima o poi a qualche beneficio. Quindi mi ricordo che tutti mi hanno detto che in questo posto si dovevano osservare le regole e partecipare alle attività lavorative o di studio, perché solo così avrei potuto anch’io vivere la carcerazione in modo tranquillo e umano. La cosa mi aveva rasserenato molto, poiché ero venuto qui per studiare e per farlo avevo bisogno di assoluta calma. Dalla mia lunga esperienza di carcere so che, per chi è privato della libertà, non è facile adeguarsi alla situazione e rispettare il regolamento. Nel Carcere circondariale di Novara, dove avevo atteso il processo, pochi pensavano a comportarsi bene, anzi, anche quelle persone che non avevano mai litigato prima di finire in carcere, imparavano subito a mostrarsi forti per non diventare vittime di sopraffazioni. Altro che rieducazione! Invece qui a Padova, quando succedeva che qualcuno si arrabbiava per qualsiasi motivo, i compagni stessi andavano a parlargli e a calmarlo facendogli capire che, per il bene di tutti, doveva imparare a controllarsi. Ora invece molte cose stanno cambiando, e tutti i giorni vedo peggiorare la mia sezione. Nell’ultimo anno molti detenuti hanno finito la pena e sono usciti, e adesso ad andare in permesso sono solo pochi, mentre la maggior parte non solo non ci va, ma non sa nemmeno se può sperarci. La cosa più grave è che quando uno dei nuovi arrivati fa casino, non trova nessuno che gli dica che non conviene, e quindi non si pone alcun freno, tanto che una parola detta male può trasformarsi in motivo di litigio, sia tra detenuti che con gli agenti. Io non so dire cosa sia successo negli ultimi mesi, se non che sta cambiando il clima generale nel Paese, ma so che la sezione sta diventando invivibile perché ogni sera c’è qualcuno che urla, protesta, si taglia o litiga con il compagno di cella. Io cerco di tapparmi le orecchie e studiare, ma mi accorgo che sono sempre in meno a credere che comportarsi bene paga, allora cosa succederà quando qui rimarranno solo detenuti senza buone motivazioni per avere un comportamento corretto?
Milan Grgiç
Oggi si respira un clima di violenza contagiosa
Essendo questa la mia prima esperienza di detenzione, quando entrai in carcere undici anni fa, credevo che il braccio di Alta Sicurezza in cui fui messo rappresentasse un po’ tutte le carceri italiane. I miei compagni di detenzione per la maggior parte erano imputati o condannati per associazione mafiosa, traffico internazionale di stupefacenti e sequestro di persona, tutti reati esclusi da qualsiasi beneficio di legge. Nei successivi cinque anni in cui rimasi intrappolato in quel braccio isolato, la mia rieducazione doveva realizzarsi in un ambiente dove le uniche persone che vedevo erano gli altri quarantanove detenuti e gli agenti, il che mi portò a credere che fino al mio fine pena non ci sarebbe stato nient’altro che una quotidiana lotta per la sopravvivenza in un luogo di miseria, di dolore e di abbrutimento. Poi, a un certo punto della mia detenzione, la direzione del carcere mi trasferì in una sezione cosiddetta comune. Anche lì ho trovato una cella uguale a quella precedente, ma per lo meno i detenuti erano diversi. La loro visione del carcere cambiava totalmente perché i loro progetti di vita erano proiettati fuori dal carcere e mi sono accorto da subito che parlavano una lingua arricchita da vocaboli per me nuovi, come "permesso premio", "semilibertà e lavoro esterno", ed erano tutti impegnati a trovare un’opportunità fuori dal carcere per andare a lavorare durante il giorno. Così ho scoperto un carcere più umano, che offriva delle possibilità a chi era disposto a coglierle. Rimanere indifferente era impossibile, così ho cercato di impegnarmi a tal punto che mi sono guadagnato anche una laurea in Scienze Politiche e sto facendo un Master di secondo livello in Diritti Umani. È triste però pensare che non è più così. Se fossi uscito oggi dal reparto di Alta Sicurezza, non avrei trovato una situazione tanto diversa da quella che lasciavo. Con le modifiche di legge avvenute negli ultimi anni, anche nelle sezioni comuni sono sempre di più le persone che non possono sperare in una misura alternativa, e questa mancanza di prospettive si può vedere nella frustrazione dei detenuti, che invece di darsi da fare per cercare un lavoro fuori pensano a litigare e a far casino. Il carcere dovrebbe fare in modo che le persone imparino ad osservare la legge e a controllare i propri istinti, ma io vedo intorno a me sempre più persone schiacciate da un sistema puramente punitivo, e questo sicuramente non aiuta la nostra rieducazione. Oggi il clima che si respira è quello di una violenza fuori controllo, e le grida che quotidianamente echeggiano per i corridoi denunciano malcontento, frustrazione e disagio. La paura è che questo clima finisca per produrre un vortice di violenza in grado di trascinarsi dietro tutti, detenuti e agenti.
Elton Kalica
Chi vuole cancellare la speranza dal carcere?
Dopo aver passato i primi due anni di carcerazione a Rovigo, nel 1997 sono stato trasferito nella Casa di Reclusione di Padova. Appena messo piede in cella ho sentito urla e insulti. Si trattava di due ragazzi che se le davano di santa ragione, tanto che uno dei due è finito all’ospedale. I miei compagni mi spiegarono che i due litigavano per il posto in doccia e che episodi simili si ripetevano spesso. Io, che arrivavo da un piccolo Istituto in cui fatti di quel genere non ne avevo mai visti, non potevo credere a quelle parole e pensavo si trattasse delle solite esagerazioni. Invece, alcuni giorni più tardi, un Agente di Polizia penitenziaria fu aggredito da tre detenuti. Nella stessa settimana scoppiò una megarissa tra detenuti nell’area dei passeggi. Il rapporto tra detenuti e agenti nella maggior parte dei casi era basato sulla mancanza di rispetto, e ogni pretesto era buono per far sì che anche una piccola questione finisse in violenza, verbale, ma spesso anche fisica. Quello che accomunava gran parte della popolazione detenuta era l’assenza totale di speranza. L’unica cosa certa era la data del fine pena, che al massimo poteva essere un po’ più ravvicinato con l’applicazione della Liberazione anticipata, 45 giorni di sconto di pena ogni sei mesi di carcerazione, che per essere concessi richiedevano un comportamento ineccepibile. Dalla fine del 1997 però le cose hanno iniziato a cambiare. Prima di tutto la direzione dell’Istituto ha dato modo ai volontari di avviare diverse attività culturali e ricreative. Questo ha fatto sì che noi detenuti potessimo entrare in contatto con l’esterno, e confrontarci ogni giorno con persone "normali". Più o meno nello stesso periodo, l’Ufficio di Sorveglianza di Padova ha iniziato a concedere di più i permessi premio. Questo, oltre a dar modo alle persone che usufruivano di questo beneficio di iniziare davvero un graduale percorso di reinserimento, ha creato una sorta di aspettativa per tutte le altre persone che in permesso non andavano ancora. Vedere gente nelle tue stesse condizioni, che inizia a uscire dal carcere e ha la possibilità di ricrearsi una parvenza di vita normale… beh, questa dimostrazione di fiducia da parte delle Istituzioni ha fatto sì che nel giro di poco tempo questo Istituto diventasse un carcere vivibile, fatto anche di speranza. Oggi però le cose stanno cambiando e si ha l’impressione che quelle speranze stiano pian piano scomparendo. Le misure alternative vengono applicate molto meno, e sembra che pure i permessi premio siano concessi con il contagocce. Così, se fino ad un paio d’anni fa succedeva spesso che a sedar litigi e risse fossero gli stessi detenuti, per evitare casini a se stessi e agli altri, oggi si rischia che quelle stesse persone quando vedono qualcosa che non va si limitino a far finta di niente e si girino dall’altra parte.
Andrea
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