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I detenuti "interrogano" il magistrato-scrittore Gianrico Carofiglio A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 12 marzo 2007
Un pubblico ministero che nel tempo libero si diverte a scrivere. Dei delinquenti che passano il tempo libero – imposto dalla galera – scrivendo. Condannati e giudici seduti intorno ad un tavolo, e non per un interrogatorio, o forse anche questa volta è successo davvero per un interrogatorio, soltanto che era diverso dal solito, eseguito in un modo più civile, umano. È successo qualche giorno fa nel carcere di Padova, nella redazione della rivista "Ristretti Orizzonti", dove i detenuti hanno incontrato e "interrogato" Gianrico Carofiglio, il magistrato diventato famoso come autore di gialli, dove il protagonista è un avvocato.
Nel carcere di Padova i detenuti hanno "interrogato" il magistrato-scrittore Gianrico Carofiglio
Marino Occhipinti: La sua scrittura ci pare che nasca anche dalla sua vita professionale, perché la competenza di magistrato nei suoi romanzi lei la trasmette all’avvocato, che ne è il protagonista. Ma le sue sono storie in parte capitate realmente, oppure è tutta fantasia? Giancarlo Carofiglio: Intanto avete colto bene, come posso dire, il background professionale che consente di raccontare storie plausibili, perché non c’è niente di peggio che scrivere storie che hanno un’ambientazione tecnica, e fare degli errori grossolani. Le storie non sono storie realmente accadute, ma si nutrono di esperienze personali, delle aule di giustizia, delle indagini, del lavoro dei tribunali, visto però in modo diverso da quello con cui lo vedo normalmente da magistrato, cioè immedesimandomi nel ruolo dell’antagonista processuale, l’avvocato. Però devo dire che, soprattutto per i primi due romanzi, "Testimone inconsapevole" e "Ad occhi chiusi", dopo molto tempo mi sono accorto che c’erano delle storie, realmente accadute nel mio lavoro, che mi avevano ispirato nascostamente, e tutte e due sono storie che in qualche modo sono sconfitte giudiziarie, anche se in maniera diversa. La prima è la vicenda di una bambina Rom che fu sequestrata e poi ritrovata morta nascosta da qualche parte in campagna. Con la polizia, lavorammo giorno e notte per mesi, facendo tutto quello che era umanamente possibile per riuscire a scoprire chi avesse commesso questa cosa terribile, senza riuscirci. Credo che questo fatto mi sia rimasto dentro, nel profondo, e in qualche modo abbia contribuito ad ispirare la storia di "Testimone inconsapevole", il bambino che viene ucciso, e che poi non si sa chi è stato. Per il secondo libro, invece, sono certo di essere stato suggestionato ed ispirato a scrivere la storia di queste molestie, che poi finiscono in maniera tragica, da un processo in cui c’era quest’uomo, marito di una donna che lo aveva lasciato, che aveva cercato di riconquistarla in modo patologico, e per il suo rifiuto ripetuto l’aveva uccisa. Ci fu il processo d’Assise, di cui mi occupai io, un processo duro, anche perché a volte il processo finisce per processare la vittima, ed in questo caso accadde una cosa del genere. E quindi credo che queste due vicende processuali abbiano costituito la premessa per raccontare storie inventate che sono contenute nei libri. Insomma, la narrazione di storie nasce sempre dalla mescolanza di suggestioni di provenienza dalla vita reale e dalla fantasia, altrimenti non sarebbe divertente.
Franco Garaffoni: Spesso le persone detenute faticano a capire il linguaggio usato dai giudici. Una volta abbiamo fatto questa osservazione a un magistrato, Giancarlo Caselli, che ha accettato questa critica e anzi ha raccontato che la sua prima sentenza l’ha fatta leggere a sua moglie, e lei gli ha detto: "Ma che mostruosità hai scritto?". E allora ci piacerebbe fare un ragionamento sulla lingua: mentre i suoi romanzi hanno questa scrittura molto pulita, nel suo lavoro come si comporta? Gianrico Carofiglio: Io ho un ricordo molto nitido di un giorno in cui mi fermò un agente di polizia penitenziaria e mi disse: "Dottore, si ricorda di me? Io facevo la scorta in occasione di un maxiprocesso in cui lei è stato pubblico ministero, ho sentito tutta la sua requisitoria, durata cinque giorni, ed è stato bellissimo perché ho capito tutto dall’inizio alla fine". Questo è uno dei complimenti che nella mia vita ricordo con più piacere, perché significava che lo sforzo di essere comprensibili, che è uno sforzo di pulizia intellettuale, in qualche modo aveva funzionato. È una battaglia significativa ma poco sentita: quando un magistrato scrive una sentenza, deve far capire, non soltanto agli addetti ai lavori ma in teoria al mondo intero, perché ha deciso in un certo modo.
Elton Kalica: Nel lavoro del pubblico ministero si ha sempre a che fare con degli uomini, però si ha un occhio di osservazione abbastanza superficiale, nel senso che il magistrato si limita ai fatti, le prove da raccogliere, mentre invece, quando uno si mette a scrivere un libro, una storia, deve andare a scavare all’interno del personaggio che si è costruito. Deve riuscire a tirare fuori, a raccontare cose che vanno al di là di quello che il magistrato di solito fa nel corso del suo lavoro, quindi a mio avviso c’è una differenza forte. Lei è d’accordo? Gianrico Carofiglio: È vero che spesso il lavoro del magistrato inquirente si mantiene in una dimensione superficiale, nel senso della mancata indagine dell’interiorità della persona con cui viene in rapporto, o che ha a che fare con delle prove che dimostrano o meno che certi fatti siano stati commessi da qualcuno. Non necessariamente è il modo migliore di farlo, nel senso cioè che l’altro modo di fare il lavoro del pubblico ministero è percepire il fatto che comunque si ha a che fare con delle persone, il che naturalmente non cambia la natura del compito, beninteso, che è sempre quello di cercare di scoprire da chi è stato commesso un reato. Personalmente io preferisco questa impostazione, e devo dire che l’ho preferita molto prima di cominciare a scrivere e ad accedere poi a quell’approccio di cui diceva lei prima. Rischio di essere retorico, ma vi prego di credere a quello che vi sto dicendo, però per uno che fa il mio lavoro, è importante non dimenticarsi – indipendentemente dalla gravità dei fatti di cui si occupa – di avere a che fare con delle persone. Che significa avere rispetto nei confronti di chiunque entra in rapporto con noi. Non c’è dubbio che nel momento in cui ho cominciato a raccontare delle storie, questa che comunque era già una attitudine che avevo – che tra l’altro migliora anche il modo di lavorare, perché per chi deve interrogare una persona è molto più facile, senza che questo implichi nessuna manipolazione, che si ottengano le risposte giuste se la tratti da persona e non da puro contenitore di informazioni - si è "affinata". Spesso vado a fare dei corsi sulle tecniche di interrogatorio di testimoni e di indagati e dico che il primo passaggio è che devi rispettare l’interlocutore, anche se dall’interlocutore vuoi ottenere che ti dica cose che all’inizio non vuole dire. Perché c’è un modo, che è un modo non morale, di ottenere una confessione, che è quello di manipolare l’interlocutore, e c’è invece un modo morale, che implica come premessa il rispetto dell’interlocutore, chiunque esso sia. È ovvio che questo tipo di sensibilità si è acuita nel momento in cui mi è toccato raccontare storie, quindi approfondire questioni diverse dai puri fatti, che erano quelle della psicologia, dell’interiorità dei soggetti. Qualcuno mi dice: "Ma è cambiato per te il modo di vedere gli indagati, gli imputati e gli avvocati, dopo che hai scritto delle storie con un avvocato protagonista, e quindi dopo che hai visto le cose dall’altra parte, anche se solo con la fantasia?". Io dico che probabilmente era già cambiato in parte prima, ed è stato questo uno dei motivi per cui nei mie romanzi è comparso questo avvocato, che era l’espressione di una sensibilità mutata.
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