L'opinione dei detenuti

 

Il "diritto agli affetti" per i detenuti non esiste

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 5 marzo 2007

 

Quali sono i desideri più profondi di una persona detenuta? Potersi permettere gesti di affetto più liberi con i propri cari, una carezza non "rubata", lo stare insieme in un luogo che non sia oggetto di costante controllo visivo, passare qualche ora serena con un figlio, avere un pezzetto di intimità con il proprio partner. A raccontare questi desideri c’è, da parte dei detenuti di cui riportiamo le testimonianze, una sorta di pudore, per la consapevolezza che la reazione della gente, fuori, è spesso infastidita: potevate pensarci prima, ai vostri affetti! Ed è vero, nessuno nega le proprie responsabilità, ma comunque non si può dimenticare che la pena è la privazione della libertà, tutto il resto sono pene aggiuntive, che gravano soprattutto sui famigliari, loro sì, vittime.

 

Ma gli incontri intimi non sono un privilegio

 

Ma cosa c’è dietro questa difficoltà ad accettare che sesso, ma soprattutto affetto ed intimità, siano elementi necessari per permettere ad una persona, anche se detenuta, di sentirsi ancora tale? E non si tratta di far sfogare i bollori di quell’impulso che accomuna tutti gli esseri animali, ma di evitare piuttosto che il detenuto finisca per non considerarsi più a tutti gli effetti una persona, proprio perché privato della possibilità fondamentale di sentirsi unito intimamente ad un’altra persona.

Intimità poi è sì il rapporto sessuale, ma è anche passare un pomeriggio a giocare coi figli, e poi riunirsi attorno ad un tavolo a mangiare ritrovandosi a vivere quelle sensazioni positive, che sono le uniche alle quali aggrapparsi quando si è in galera, nella prospettiva prima o poi di uscire e ricominciare a vivere, in famiglia, in coppia, e comunque in relazione. E poi è un fatto di civiltà, perché in qualsiasi caso eliminare le relazioni, o permetterle solo in termini freddi e superalienanti, significa essere ancora legati ad una logica della pena che è quella corporale, dove qualsiasi prossimità fisica viene inibita, proprio perché bisogna punire il corpo, svilirlo, umiliarlo.

Le conseguenze sono note: l’astinenza sessuale e la mancanza di intimità, quando non sono praticate per scelta, deformano il rapporto col proprio corpo e con quello degli altri, alterano ai limiti della patologia le relazioni umane. Ed è difficile anche parlarne, perché non è facile esporsi su questioni così intime: l’immaginario collettivo infatti spesso trasforma la sofferenza con cui viene vissuta l’amputazione della vita sentimentale dei condannati in leggende, dove chi è recluso diventa necessariamente omosessuale, e la vita nelle sezioni dei penitenziari assomiglia a Sodoma e Gomorra.

Ma la realtà è diversa e più scomoda da accettare, perché invece i sentimenti dei criminali detenuti sono gli stessi delle persone libere. Ognuno con la sua storia è marito, moglie, amante, genitore, figlio, o semplicemente amico. Mantenere gli affetti in carcere oggi è veramente difficile, fare sesso è vietato. Tutto questo si scontra con il fatto che le pene dovrebbero preparare le persone a rientrare in modo nuovo nel vivere sociale.

La realtà invece è fatta di famiglie devastate, coppie separate, figli che dimenticano di avere dei genitori, uomini e donne che relegano l’attività sessuale di coppia ai ricordi, fino ad alienarla o a renderla una triste ossessione fatta di masturbazione e basta.

Speriamo allora che il Parlamento lavori su una proposta di legge, che riguarda i colloqui intimi per le persone detenute, anche perché su questioni di questo genere è possibile trovare consensi più vasti di quello che la logica comune può immaginare.

 

Stefano Bentivogli

 

È difficile ricostruire i rapporti con i figli

 

Quante volte ho immaginato come sarebbe stato il mio ritorno a casa, l’abbraccio con mia figlia, come avrebbe reagito, e il percorso che avrei dovuto fare per riprendere quel rapporto affettivo interrotto più di due anni prima: ma la realtà come sarebbe stata? Insomma, dopo qualche anno di galera tante cose possono cambiare e se non ti tieni in contatto anche "dentro" con il "fuori" puoi trovarti disorientata, provare angoscia e terrore.

Sono uscita dal carcere grazie alla legge sulle detenute madri, alla notizia mi è balzato il cuore in gola, la tensione e il nervosismo accumulati nell’attesa della risposta da parte del Tribunale si sono dissolti in un attimo e sono subentrati la felicità, lo stordimento, e in uno stato di agitazione ho cominciato a fare i bagagli. La cosa più difficile? Lasciare le compagne con cui, durante quel lungo periodo, avevo condiviso tantissimo, ma è inevitabile che succeda.

Arrivo a casa, non sento nemmeno il peso della valigia, cammino ma mi sembra di stare ferma, cerco di capire se chi mi aspetta a casa sta notando tutte queste mie sensazioni, mi sento persa e mi chiedo: "Cosa ci faccio io qui?". Ho voglia di piangere... ma c’è lei, mia figlia, che mi osserva dalla finestra, io però non me ne sono accorta, lo dirà lei più tardi alla nonna che mi ha vista arrivare. Salgo in casa e la vedo, un groppo in gola e gli occhi che bruciano, ci abbracciamo senza dire niente, non è molto a suo agio e per questo nemmeno io, mi osserva moltissimo ma non dice niente, io la guardo, le faccio qualche complimento, cerco di sciogliere quel misto di tensione e imbarazzo ma ho paura di dire o fare qualcosa di sbagliato, per fortuna che ci sono i miei suoceri…

Ho cominciato subito a sistemare casa perché non volevo pensare, avevo bisogno di un po’ di tempo, poi tra una cosa e l’altra è cominciato il dialogo tra me e lei, adesso va abbastanza bene e, sono sicura, andrà sempre meglio. Ma è stato faticoso ricostruire il nostro rapporto, perché due anni e mezzo di lontananza non sono pochi, soprattutto se in carcere non c’è modo di avere degli spazi e delle condizioni decenti per i colloqui con i figli.

 

Patrizia

 

Il primo colloquio non arriva mai

 

Non basta essere detenuto, chiuso, ristretto nei propri diritti, c’è anche il pensiero sofferente che mi accompagna quotidianamente per i miei genitori, mia moglie e mio figlio, unici fili che come un cordone ombelicale mi tengono legato all’esterno.

La legge prevede che sia un diritto del detenuto mantenere vivi i rapporti con la famiglia e permette di usufruire di sei ore di colloqui al mese. Quei colloqui che aspetto con ansia, per passare un’ora in compagnia di mia moglie e mia sorella. Un’ora che non arriva mai, e poi in un batter d’occhio se ne va, lasciandomi con l’ansia fino al colloquio successivo.

Mia moglie e mia sorella non sono mai mancate a nessun colloquio e sono le uniche che ho fatto entrare in carcere, i miei genitori non ho mai voluto che venissero. Per mio figlio invece ci sono voluti quattro mesi di dubbi, per decidere di farlo venire.

Ogni volta, a colloquio con mia moglie, c’erano le solite domande: lo portiamo o non lo portiamo, facciamo bene o facciamo male, un bimbo cosi piccolo può ugualmente "immagazzinare" le immagini del carcere e faticare poi a liberarsene? E alla fine abbiamo deciso di farlo venire.

È arrivato il sabato fatidico, dopo quattro mesi rivedo mio figlio, che ora ha due anni e due mesi, come sarà? Si apre la porta, entra in braccio alla mamma. Lo abbraccio e lo copro di baci, la commozione mi crea un nodo alla gola e gli occhi lucidi, mia moglie mi vede e mi dice: "Mi raccomando, non piangere davanti a lui!". Mi trattengo perché non voglio creargli una curiosità negativa.

Mia moglie allora mi suggerisce: "Chiedigli qualcosa, sai che adesso parla!". Qui ho capito che in questi mesi ha fatto passi da gigante, e io continuo a perdere quei momenti di meraviglia che un bimbo piccolo produce mentre è alla scoperta di tutte le cose per lui nuove.

Non mi sembra vero averlo lì, poterlo abbracciare, fargli le coccole. Tra una chiacchiera e l’altra, siamo arrivati quasi alla fine del colloquio. Io non me ne sono nemmeno accorto, il tempo è volato. Lui ha mangiato cioccolatini e biscotti, è soddisfatto, ora ha sonno, così va verso una delle porte rosse e dice: "Papi, apri!" In questo momento mi prende in contropiede e con un sospiro per l’imbarazzo gli dico: "La chiave ce l’ha lo zio che ti aspetta fuori, fra un po’ viene e ti apre!". Ma mentre dico questo, sento un clic - clac, c’è l’agente che apre la porta, lui fa per andarsene, ma non posso fare a meno di prenderlo al volo e prima di metterlo in braccio a mia moglie, dargli un altro bacio e un’ultima carezza. È finito il Primo incontro con mio figlio in carcere.

 

Gianni

 

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