Associazione Papillon

 

Violenza e stupidità del carcere all’origine della riforma del 1975

 

Associazione Papillon, 2 agosto 2005

 

Un articolo di Vittorio Antonini, coordinatore nazionale della Papillon, pubblicato mercoledì 27 luglio sul quotidiano "Liberazione". Per evitare di compartecipare alla strana voglia di rendere omaggio all’Ordinamento Penitenziario del 1975, provo a parlarne iniziando da un racconto. Una domenica del 1973, davanti al cinema "Farnese" di Campo De Fiori un cartello avvisava che era in corso una rivolta nel carcere di Rebibbia. Insieme ad altri compagni con i quali condividevo la militanza nel quartiere di S. Basilio, adiacente a Rebibbia e "serbatoio" continuo delle sue celle, arrivammo davanti al carcere dal lato della Tiburtina e prendemmo una bella carica delle polizia che non gradiva la presenza di persone che salutavano da lontano i detenuti saliti sui tetti di uno dei più moderni istituti penitenziari.

Il giorno dopo, con migliaia di compagni e tantissimi cittadini delle diverse borgate di Roma, tornammo sotto il carcere per sostenere quei detenuti che anche qui a Roma avevano osato sfidare la più totalizzante delle Istituzioni per chiedere niente altro che dei provvedimenti realmente riformatori contro la violenza e la stupidità del carcere. Anche in quell’occasione le forze dell’ordine provarono a caricare ma il risultato fu esattamente opposto alla sera precedente.

Con la loro protesta, parte integrante di un mix di proteste pacifiche e non pacifiche che da quattro anni si succedevano nelle carceri maschili e femminili, quei detenuti ponevano fine ad un estenuante dibattito sul Diritto penale, la pena, la loro funzione, ecc. che in Italia andava avanti da almeno settant’anni senza risultati significativi sul piano della reale difesa della vita e della dignità delle persone detenute. E, cosa ancora più importante, con le loro proteste "i dannati della terra" italiani finivano di essere considerati esclusivamente come "sottoproletariato" ed entravano nei fatti in quell’ampio e variegato conflitto di classe che da anni attraversava il paese e dal quale emergevano richieste di mutamenti radicali in ogni ambito della vita sociale e politica.

Questo legame costituì la principale spinta propulsiva che impose la riforma dell’Ordinamento penitenziario del luglio 1975. I detenuti pagarono veramente con il sangue (nel senso letterale del termine) le loro aspirazioni e soltanto grazie al loro sacrificio fu valorizzato anche il decennale impegno di tante intelligenze sinceramente riformiste.

Come molte riforme, anche quella del luglio 1975 fu appunto "un sottoprodotto" di un più ampio movimento di lotta generale, ma non di meno costituì la nuova base di partenza per tutti (conservatori, reazionari, progressisti e rivoluzionari compresi) per ragionare di Diritto penale e Diritto penitenziario.

Per i conservatori e i reazionari si trattava di riaffermare al più presto la piena natura di classe del Diritto e del carcere; per i rivoluzionari e per tanti proletari si trattava di proseguire sulla strada della critica alle tante ingiustizie del presente (compresa l’ingiustizia e la violenza del Diritto e del carcere) per la costruzione di relazioni sociali più ricche e di forme di Democrazia più alte ed estese.

È da questo conflitto che nasce la storia della lotta di classe nelle carceri italiane della seconda metà degli anni ‘70 e dei primi anni ‘80 e che soltanto la cattiva coscienza di qualcuno vorrebbe liquidare come "scontro tra i terroristi prigionieri e lo Stato", ostacolando così qualsiasi riflessione sulle continue regressioni del Diritto penale e del Diritto penitenziario imposte in quegli anni da tutta la classe politica e pagate anch’esse con il sangue versato da una parte e dall’altra.

Ma per tornare a noi, credo che nella necessaria odierna critica al carcere sia utile sottolineare uno dei lati contenuti nella riforma del 1975 che più di altri contiene un’ambiguità di fondo.

Mi riferisco a quel concetto di "osservazione scientifica della personalità" che fu immesso nel sistema penale italiano dal fascismo (applicandolo al trattamento dei minori) e che si fonda su quella stessa concezione che ha sempre bisogno di fornire una ipocrita cornice pseudo-scientifica alle sue scelte in campo sociale e politico.

Dall’idea che una situazione "innaturale" (o "desocializzante") permetta l’osservazione scientifica della personalità ne discende che la modifica dei comportamenti, sia quelli immediati che quelli futuri, esterni al carcere, non è il frutto di un elevamento della coscienza, ossia il frutto delle più alte forme della ricchezza umana che sono appunto la quantità e la qualità delle relazioni sociali che ognuno vive, bensì tali comportamenti si dovrebbero modificare in positivo attraverso l’applicazione di un sistema pedagogico premiale, fondato sul rapporto premio/punizione, appunto quello che si utilizza per l’addestramento degli animali e in particolare quelli considerati selvaggi.

Comunque la si giri e la si rivolti, la sostanza è questa: il carcere è un’istituzione stupida e violenta che considera i detenuti alla stregua di animali ed al contempo ha l’ipocrita pretesa di far credere ai liberi cittadini che sia possibile "risocializzare recludendo". Essendo ciò impossibile, è inevitabile che ancora oggi ciclicamente dalle carceri si levino grida pacifiche che lo mettono in discussione, pretendendo la difesa dei Diritti e della Dignità dei cittadini detenuti e interrogando l’intera società sulla possibilità di creare già oggi un sistema penale che non sia più fondato sul carcere. Come sempre la lotta, anche quando rinuncia alla violenza, alla fin fine riesce a volare più in alto della violenza e dell’ipocrisia del carcere.

Forse è il caso che anche la odierna sinistra, dentro e fuori dalle istituzioni, inizi a rendersi conto che quei "dannati della terra" (e le loro aspirazioni) gli appartengono sia per storia che per collocazione di classe, e si impegni un po’ di più nel sostenere la loro difficile ma importante battaglia di civiltà.

 

 

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