Considerazioni
sulla carcerizzazione
dell’emarginazione sociale
Associazione
Papillon, 24 marzo 2004
Un documento della nostra associazione
presentato ad un convegno sulla Giustizia svoltosi giovedì 25 a Roma, in Vicolo
Valdina, e al quale hanno partecipato Parlamentari e giuristi. Il
contesto politico internazionale è ormai quasi completamente occupato
dall’intreccio inestricabile guerra-terrorismo prodotto dalle politiche di
rapina di alcune potenze mondiali. Il delirio securitario che in Italia ne è
seguito, ha portato, così come negli USA e in Europa, il suo veleno fino agli
angoli più remoti della società civile. Mentre in nome della sicurezza i
diritti civili vengono drasticamente ristretti, il controllo sociale diviene
sempre più asfissiante individuando nelle fasce più deboli della popolazione e
nell’emarginazione sociale, che la crisi economica e le politiche neoliberiste
producono a ritmo incalzante, il nemico interno da neutralizzare. Lo Stato si
comporta come un generale in guerra: - più prigionieri faccio, meno nemici avrò
davanti -.
La metafora non ci appare ridondante se sotto la lente d’ingrandimento poniamo
il sistema-carcere e il sistema-giustizia. Le carceri scoppiano, la giustizia è
alla barbarie. Il dibattito parlamentare sulla proposta Boato in tema di grazia
lo dimostra chiaramente, arrivando tra l’altro a sottomettere la concessione
della grazia al perdono o meno dei famigliari della vittima. Il che, ci sia
consentito, risponde più alle antiche tradizioni tribali che a un moderno Stato
di Diritto.
Ma è sulle condizioni in cui versano le carceri e chi le abita che la nostra
Associazione vorrebbe portare l’attenzione di questo convegno. Quello che più
ci preme in questo momento è il ripristino dei diritti delle cittadine e dei
cittadini detenuti e il rispetto della loro dignità. Da più parti sono state
avanzate proposte e, più concretamente, alcuni strumenti di tutela come i
Garanti si stanno sperimentando.
Pur tuttavia, la Papillon ha detto e ripete che la migliore garanzia dei diritti
dei detenuti si avrà soltanto quando ci sarà una Legge nazionale che
riconoscerà anche a questa categoria di persone il diritto di associarsi
liberamente per confrontarsi sui problemi del carcere con tutti i livelli
istituzionali: dai Municipi alle Regioni, dalle Commissioni Parlamentari al
Ministero di Grazia e Giustizia.
Esattamente come avviene in tutti i più diversi ambiti comunitari (siano essi
posti di lavoro, quartieri, ospedali, caserme, caseggiati, scuole, ecc.),
rivendichiamo che anche i cittadini detenuti possano avvalersi di questo diritto
senza per ciò essere sottoposti a pressioni, ricatti, trasferimenti forzati e
altre punizioni di vario tipo. In definitiva, anche questa è una questione di
civiltà giuridica e a nostro avviso commette un errore chi ne sottovaluta
l’importanza.
Un ottimo passaggio transitorio in questa direzione sarebbe stato anche
l'instaurazione da parte di tutti i Consigli Regionali di Commissioni di
controllo sulle carceri di loro competenza territoriale. Commissioni che
sarebbero state composte da Consiglieri regionali di tutte le forze politiche e
al cui lavoro quotidiano avrebbero potuto partecipare rappresentanti dei
funzionari e degli operatori delle carceri, e soprattutto rappresentanti delle
più grandi associazioni dei detenuti. Chiunque può ben capire che Commissioni
così composte avrebbero potuto moltiplicare il potere ispettivo che già oggi
appartiene a ogni Consigliere regionale, ma soprattutto avrebbero potuto
moltiplicare la capacità d’individuazione e risoluzione dei reali e più
urgenti problemi che affliggono i vari istituti penitenziari, senza rischiare di
essere ingannate dai classici "specchietti per le allodole che esistono in
ogni carcere.
Purtroppo, a causa di troppe e inutili timidezze politiche anche questo
passaggio non si è riusciti ad ottenerlo, ma ad ogni modo la nostra
Associazione è comunque favorevole all'insediamento dei Garanti comunali e
regionali, pur essendo consapevole che essi, per quanto importanti, sono in un
certo senso una goccia nel mare nell’importante battaglia di civiltà portata
avanti pacificamente in questi anni dalla Papillon e da migliaia di detenuti e
liberi cittadini, sui cui obiettivi e modalità ragioniamo qui di seguito.
Il contesto economico-politico In questa particolare fase politica nella quale
sta faticosamente transitando il nostro Paese, dove tutto fa pensare che
l’attuale maggioranza parlamentare abbia dichiarato una sorta di guerra alla
società civile praticando una particolare sovversione dall’alto, è sotto gli
occhi di tutti la sistematica mortificazione della dignità e dei diritti delle
cittadine e dei cittadini detenuti. Che tale questione sia da sempre
particolarmente problematica (su questo nessun Governo passato è innocente) è
un fatto.
Che oggi le condizioni di vita all’interno delle carceri siano prossime
all’emergenza umanitaria è un altro ancor più drammatico fatto che non
puo’ certo essere coperto dalla disinvolta irresponsabilità del Ministro
Castelli.
In definitiva, oggi come ieri, il Ministero della Giustizia latita totalmente su
tutta la linea dei suoi doveri, primo fra tutti garantire il pieno rispetto dei
più elementari diritti umani all’interno delle carceri. Rammentiamo che
l’Italia ha già collezionato negli anni diverse condanne e richiami severi da
organizzazioni umanitarie come Amnesty International e dal Comitato per la
prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa a causa del trattamento inumano
nei confronti dei propri detenuti.
Naturalmente, nel nostro ragionamento, vogliamo andare oltre le performances del
Ministro poiché ci appare evidente come egli costituisca soltanto un modesto
atomo di cui è formato il gigantesco iceberg della negazione dei diritti. Si
tratta di una mostruosità umana e giuridica la cui massa è implementata,
giorno dopo giorno, da un paradigma produttivo, oggi globale, che assicura
ricchezze inusitate a pochi ricchi e nuove povertà a una sterminata moltitudine
di donne e uomini in ogni angolo del pianeta.
Stiamo parlando del neoliberismo, che nel nostro Paese certa sinistra,
scrollatasi di dosso le sue origine storiche, pretenderebbe di governare e in più
cercando di convincerci circa suoi inesistenti risvolti positivi, e una destra
che, con autoritaria arroganza, ne dispiega sull’intera società tutto il
potere distruttivo.
Riteniamo che in una società veramente civile e democratica non può essere il
profitto d’impresa, l’estrazione di plusvalore ad ogni costo, il valore
assoluto, il quale si erge a ideologia egemone e dominante.
Fenomeno ancora più evidente oggi dove il modo di produzione postfordista non
mette più a valore soltanto il tempo di lavoro ma l’intera esistenza
dell’individuo, in quanto affida un posto importante nella produzione di
ricchezza alla messa a valore della sua capacità linguistica, di relazione e di
cooperazione sociale. E’ una sorta di produzione di merci a mezzo di
linguaggio. E’ il sapere generale sociale ("general intellect") a
essere messo in produzione, riducendo così i corpi e le menti a pura merce.
Assistiamo così a una crescente precarizzazione generale delle condizioni di
vita dei produttori, in quanto alla discontinuità della prestazione lavorativa
corrisponde la discontinuità del reddito. Le conseguenze sono sotto gli occhi
di tutti: impossibile programmare il proprio futuro come accendere mutui-casa,
costituire nuovi nuclei famigliari, fare figli qualora lo si desideri,
risparmiare per poter affrontare contingenze difficili, e quant’altro sta alla
base della materialità indispensabile alla conduzione di una vita anche
minimamente dignitosa; le nuove povertà avanzano a ritmo incalzante. Ora, si
presume che in una democrazia avanzata lo Stato, nella sua apparente funzione di
mediatore, debba farsi carico della difesa della parte più debole dei suoi
amministrati. Nel nostro caso sarebbe stato indispensabile, da parte del
Parlamento, emanare una serie di provvedimenti volti, da una parte a
regolamentare equamente il mercato del lavoro inibendo la sua devastante capacità
di sussunzione reale e formale della vita dei produttori, dall’altra a mettere
in campo il potenziamento del Welfare portando la sua efficacia all’altezza
dei tempi. Sgomenti, assistiamo invece all’esatto contrario: il Welfare (che,
non dimentichiamolo, era anche frutto delle lotte dei lavoratori costato lacrime
e sangue) è sistematicamente demolito attraverso la privatizzazione selvaggia
di ogni servizio al cittadino.
Contestualmente viene emanata una legge per la regolamentazione del mercato del
lavoro (Legge 14 febbraio 2003 n. 30) che, fotografando lo stato delle cose
presenti, ne fa regola giuridica. I fatti c’illustrano, e con dovizia di
particolari, come quest’ultima trovata neoliberista stia portando
all’accelerazione il processo di precarizzazione delle condizioni di vita di
strati sempre più ampi di popolazione.
Il dominio del mercato sulle istanze vitali e più profonde dell’intera società
costituisce un processo di metastatizzazione che, lentamente ma inesorabilmente,
porta alla distruzione di quel complesso di relazioni sociali e umane sulle
quali la "res publica" è costituita, nonché del sistema ecologico
sul quale essa vive.
Da qui derivano, come già detto, nuove povertà, marginalizzazione ed
esclusione sociale in preoccupante crescita, pericolosa percezione collettiva
del no-future. Impossibile non capire come tutto questo aumenti il rischio di
devianza in chi, privato di un reddito anche minimo, ha l’esigenza di
sopravvivere. Basterebbe indagare le biografie dei detenuti per comprendere come
la marginalizzazione e l’esclusione sociale siano la maggior causa di
devianza.
Come
risponde lo Stato a questa situazione in caduta libera?
Esclusivamente con politiche penali, carcerizzazione, stravolgimento del Codice
Penale con nuove fattispecie di reato o riesumandone altre oggi anacronistici
residui del ventennio fascista, aumento delle pene anche per i reati minori,
restringimento delle misure alternative alla detenzione. Il neoliberismo ha una
precisa politica di controllo sociale: l'esclusione. I poveri, gli uomini e le
donne espulsi dal mercato del lavoro vanno tolti dalla vista e relegati ai
margini. Lo Stato, di conseguenza, usando il circuito carcerario come una
discarica sociale, s’illude di nascondere "lo sporco" sotto il
tappeto.
Mentre le soluzioni, a nostro avviso, sarebbero ben altre: per prima cosa
occorre una radicale inversione di tendenza che sostituisca le politiche penali
con politiche sociali di prevenzione, di cui alcuni punti insostituibili sono il
reddito di cittadinanza (diretto e indiretto) e una sostanziale modifica della
regolamentazione del mercato del lavoro con l’abolizione della Legge 30, in
favore di un provvedimento che porti a un equilibrio equo la dialettica tra
lavoro vivo e capitale.
Il
Carcere
Ma ora vorremmo estrarre dal contesto generale succintamente descritto sopra un
frammento, al quale la nostra Associazione, per sua genesi, dedica il proprio
lavoro: il carcere; con l’intento di dimostrarne l’inutilità e il danno
sociale. Chiunque conosce il carcere sa che è impossibile una sua pur latente
valenza educativa. Basterebbe leggere "Sorvegliare e punire" di
Foucault per rendersi conto che dal’800 a oggi poco è cambiato circa la
metodologia trattamentale volta a considerare il deviante come un animale da ri/addestrare.
Nel 1975 e nel 1986 sono state realizzate leggi di riforma dell’Ordinamento
Penitenziario che, se pienamente applicate, avrebbero cambiato non di poco il
sistema carcerario italiano. Ma essendo state in gran parte disattese, dentro al
carcere il sistema pedagogico rimane fondato sul rapporto premio-punizione. Se
anche i benefici della legge Gozzini (L.10 ottobre 1986 n° 663), già di per sé
oggetto di gravi disparità di applicazione da una regione all’altra da parte
della Magistratura di Sorveglianza, vengono utilizzati come premi, è chiaro che
si sta praticando esattamente lo stesso tipo di metodologia con cui si
addestrano gli animali. Mentre sarebbe necessario, per i cittadini detenuti,
elaborare la propria esperienza e usare questo come base per modificare i propri
comportamenti.
Al contrario, gli unici elementi che fornisce il carcere per smettere di
delinquere sono la paura della punizione e la ricerca del premio. E questo
meccanismo è del tutto controproducente: nessuno matura una coscienza critica e
autocritica attraverso il carcere. È difficilissimo che questo accada.
In più, dato lo stato di illegalità diffusa che vige in quei luoghi di
sovraffollamento inumano, le continue vessazioni e spesso le violenze fisiche e
psicologiche che i detenuti subiscono da parte di chi, per legge, dovrebbe
invece limitarsi alla custodia in base all’art. 27 della Costituzione, crea
nei detenuti stessi un sostanziale passaggio percettivo da custoditi a vittime.
E il sentirsi vittima non porta certo il detenuto a intraprendere un percorso
critico volto a considerare la devianza come disvalore da rifiutare; al
contrario lo conduce a generare soltanto un profondo rancore contro le
istituzioni e la società che, una volta libero dopo aver scontato la pena, lo
spinge a commettere reati ancora maggiori di quelli già compiuti.
Siamo convinti che in ogni detenuto ci sia il sovrapporsi di due condizioni
negative pregresse alla carcerazione: una è quella dell’esclusione sociale
che tutti quanti, specie nelle grandi città, conoscono. L’altra è, in
generale, l’ideologia indotta da un paradigma produttivo e dal modello sociale
che esso ha creato, che porta le persone a rincorrere l’arricchimento ad ogni
costo. Anche attraverso la commissione di reati.
Se non interviene un meccanismo che spezzi questo corto circuito che noi
chiamiamo feticismo del denaro, è chiaro che le persone, anche dopo l’uscita
dal carcere, continueranno a reiterare i reati. La recidiva, infatti, in Italia,
è uno dei maggiori fattori di entrata in carcere (rientro).
Il carcere provoca solo regressione psico-fisica, disperazione e rabbia. Il
carcere è una fabbrica di criminalità. Questo e solo questo è il punto
cardine sul quale il Parlamento e l’intera società civile dovrebbero
interrogarsi.
Morire
di carcere
Non stupisce, detto ciò, che i suicidi all’interno delle carceri siano 19
volte più numerosi che all’esterno. Il 2001 è stato l’anno peggiore, con
70 suicidi. Nel 2002 ne sono stati registrati 52. Fino a luglio del 2003 ce ne
sono stati 23. Ma molto spesso si nasconde un suicidio anche dietro molti altri
episodi, come le overdose. E non bisogna dimenticare che vengono classificati
come suicidi solo quelli che vanno a "buon fine" dentro le mura del
carcere. I tentati suicidi sono una media di 900 all’anno, gli atti di
autolesionismo arrivano a 6.000.
Da qui a parlare di sanità in carcere il passo è breve: si tratta, come non
tutti sanno, a partire dal Centro Clinico di Parma, escludendo decisamente
quello di Bologna, di un vero e proprio circuito infernale che vede
all’interno delle infermerie degrado, violenza, abbandono, sporcizia, mancanza
di farmaci (compresi i salva-vita), insufficienza strutturale di personale
medico e paramedico. Detto altrimenti: una pena aggiuntiva.
E come se non bastasse, l’ultima Finanziaria ha tagliato ulteriormente i fondi
destinati annualmente a una Sanità Carceraria che da sempre naviga nella più
piena e conclamata illegalità in spregio all’art. 32 della Carta
Costituzionale, il quale individua il diritto alla salute e alla cura come uno
dei diritti fondamentali del cittadino, quindi senza distinzione alcuna tra
liberi e privati della libertà personale.
Un capitolo della riforma Bindi del ’99 prevedeva che la Sanità Carceraria
venisse affidata alle Asl, ma purtroppo non ha avuto seguito principalmente
perché lo Stato non ha mai trasferito i fondi necessari alle Regioni, condicio
sine qua non perché le Asl potessero entrare nelle carceri.
In particolare chiunque può comprendere come i presidi Ser.T. in ogni Istituto
di Pena sarebbero stati fondamentali perché i tossicodipendenti in entrata non
fossero costretti a interrompere le terapie metadoniche già iniziate in libertà.
Si preferisce, perciò, continuare a tenere chiuse in cella persone in crisi di
astinenza, che per le loro condizione psico-fisiche disastrate non dovrebbero
stare in prigione, imbottendole di psicofarmaci dannosi per la salute ma utili
poiché uno zombie (così viene chiamato il "tossico" nel gergo
carcerario) non crea problemi in quanto fortemente limitato, nelle sue capacità
cognitive e motorie, dalla "terapia" carceraria. E questo, per quanto
riguarda la custodia, è ciò che conta.
Altro fattore di fortissima resistenza alla riforma Bindi proviene dalla
corporazione dei medici penitenziari dai quali viene percepita come un pericolo
mortale per quanto riguarda il loro potere decisionale assoluto, privilegi,
baronie. Se poi aggiungiamo che la selezione di questo personale avviene a
livello locale, cioè nei singoli istituti, attraverso una procedura di
valutazione di titoli e prova attitudinale effettuata da commissioni presiedute
dai direttori delle carceri; che questo meccanismo di selezione assicura alle
direzioni la più assoluta aderenza dei medici e degli infermieri penitenziari
alle ragioni della sicurezza, per loro prioritarie rispetto a quelle della cura
e prevenzione, non rimangono dubbi circa le reali ragioni della guerra mossa da
questa potente lobby contro il previsto (ma non applicato) passaggio di consegne
alle ASL.
Di nuovo la Costituzione recita all’art. 27: "Le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato". Ma nessuno o quasi si occupa di
quest’aspetto. A parte alcuni parlamentari, che per pura coscienza si sono
presi a cuore il problema, e alcune meritevoli cooperative sociali e
associazioni di volontariato che si occupano di svolgere attività dentro al
carcere o del reinserimento degli ex detenuti.
Dal
basso qualcosa sta cambiando
"La grande riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 è stata
scritta con il sangue dei detenuti".
Se citiamo questa frase non è per facile retorica, né per attirare indebita
compassione o pietas. Lo facciamo perché essa, ai tempi, fu quasi un luogo
comune; appariva in ogni commento fatto a proposito delle lotte dei carcerati
dei primi anni ’70, che circolava tra tutte le componenti dell’allora
sinistra extraparlamentare. La quale, sola, quelle lotte aveva tenacemente
sostenuto dall’esterno.
La citiamo perché quel conflitto rimane scritto, nella storia sociale del
nostro Paese, come uno dei più sanguinosi del dopoguerra. Per chi ha vissuto
quel periodo è impossibile dimenticare i filmati dei telegiornali e le foto
della stampa che ritraevano centinaia di detenuti disperati seminudi sui tetti
delle carceri in rivolta mentre lanciavano tegole sugli uomini in divisa di
sotto.
Tra i rivoltosi vi furono alcune morti a causa di cadute dai tetti e ferite
provocate dalle forze dell’ordine. Centinaia furono i feriti gravi, alcuni
riportarono danni permanenti a causa dei pestaggi inusitati subiti dalla
custodia come punizione a rivolte finite.
Oggi, a tanti anni di distanza, le insostenibili condizioni di vita e la
richiesta di giustizia che allora furono causa delle sanguinose rivolte dei
detenuti non solo non sono cambiate per niente, ma si sono fortemente aggravate.
Un semplice dato: nel 1970 le carceri ospitavano 21.379 persone. Oggi, sono
intorno alle 56.000.
E’ vero che alcune altre carceri nel frattempo sono state costruite, ma rimane
il fatto che attualmente il massimo contenibile dichiarato dallo stesso
Ministero competente è di 42.000 unità. E chi ha esperienza di carcere sa che
quest’ultima cifra è demagogicamente sovrastimata. Non aggiungiamo altro.
Naturalmente viene spontaneo chiedersi per quali ragioni oggi non sono ancora
deflagrate rivolte. A nostro avviso,non si può fare un parallelo col passato:
dagli anni ’70 è cambiata la società e con essa la composizione sociale e il
tipo di attività prevalenti nell'illegalità. L'unità con l'opposizione
sociale esterna alle carceri è molto più difficile da realizzarsi.
Vediamo inoltre che dal complesso magma delle lotte di massa esterne, da Seattle
in poi, inizia a muoversi un movimento globale, che oggi presidia e ridefinisce
la sfera pubblica, capace di porre la più radicale istanza etica ("buona
vita") sul terreno del conflitto sociale, abbandonando, così pare,
l’opzione dell’uso della forza; patrimonio invece egemone nella classe
durante tutto il ciclo di lotte che nel nostro Paese si espressero
indicativamente dal ’68 all’84. Allo stesso modo, evidentemente, sono
cambiate le modalità di lotta dei reclusi.
La rabbia e le istanze radicali per il miglioramento delle condizioni di vita
permangono immutate, ma la novità rispetto al passato sta nel fatto che i
detenuti stanno imparando a organizzarsi stabilmente, e organizzandosi, scelgono
scientemente di farlo in forma pacifica.
Stanno capendo che bisogna evitare di dare l’opportunità a tutti coloro i
quali non vedono l’ora che succeda qualche atto di violenza collettiva dentro
al carcere, per poi fare tabula rasa di tutto quello che i detenuti hanno
conquistato in questi anni.
Ciò non vuol dire che i detenuti ignorino che il carcere è una delle
istituzioni più violente dello Stato. E proprio perché siamo consapevoli di
questa sua natura,oggi possiamo dire che soltanto la più completa
irresponsabilità del mondo politico potrebbe riuscire a cancellare questa
maturità da noi raggiunta.
Con queste modalità pacifiche, che potremmo definire di natura sindacale, dal
settembre 2002 è iniziato un lungo ciclo di lotte, ondivago ma continuo, che si
basa su una piattaforma rivendicativa di cui riportiamo i punti salienti:
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Indulto
generalizzato di tre anni.
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Passaggio
della Sanità Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale.
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Riforma
del Codice Penale, a partire dall’abolizione dell’ergastolo e dalla
depenalizzazione dei reati minori.
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Abolizione
delle prescrizioni contenute nell’art. 4 bis.
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Abolizione
dell’anticostituzionale art. 41 bis.
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Aumento
della liberazione anticipata a 4 mesi.
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Aumento
delle concessioni delle misure alternative al carcere.
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Espulsione
dei detenuti stranieri che ne facciano richiesta.
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Diritto
di associazione ai cittadini detenuti per rappresentare in forma collettiva
le proprie istanze generali nei confronti delle varie Istituzioni locali e
nazionali.
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Istituzione
di una Commissione Parlamentare d’Inchiesta sull’applicazione della
Legge 10 ottobre 1986 n° 663 cd. Gozzini.
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Decarcerizzazione
dei malati gravi e psichici, dei tossicodipendenti, dei sieropositivi.
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Storicamente,
nelle carceri italiane, non si è mai verificato l’emergere di una tale spinta
dal basso così matura e organizzata. Essa, disinteressandosi delle tante
inutili lamentele sui rapporti di forza sfavorevoli, pare fondare il suo
orizzonte strategico su una drastica ridefinizione della dialettica tra
Istituzioni Totali e popolazione detenuta, laddove, di quelle Istituzioni nega a
gran voce la legittimità. E lo fa portando il conflitto, in forma pacifica, sul
terreno stesso dell’avversario: la giustizia.
Facendo proprio il concetto etico di "buona vita", il
"movimento" dei detenuti, il quale pare avviarsi così a congiungersi
con la già dispiegata opposizione sociale, scoperchia e disvela, al cospetto
dell’intera società civile, la menzogna sulla quale si regge l’intera
architettura del potere nel carcere: con la Costituzione Repubblicana sotto il
braccio i detenuti pretendono giustizia e il rispetto delle leggi, mettendo così
in grave contraddizione uno Stato, titolare del monopolio della violenza, che, a
garanzia dell’esistenza del sistema-carcere, quelle sue stesse leggi non può
rispettare.
In una parola il sistema-carcere è fondato su un paradosso giuridico:
l’illegalità legale. In particolare, se quanto detto non bastasse, è sotto
gli occhi di tutti come questo Governo stia operando una sovversione
dall’alto, emanando in continuazione leggi che sottraggono ai cittadini
diritti acquisiti in campo sociale e giuridico e altre, ad personam, che
garantiscono l’impunità a tanti affaristi e faccendieri dell'attuale
maggioranza.
Ecco perché oggi sostenere le lotte pacifiche dei detenuti significa
abbracciare una battaglia di libertà e di civiltà che riguarda tutti e tutte.
Occorre quindi che chi fa parte del mondo sindacale, delle realtà dell’autorganizzazione,
della Chiesa di base, del mondo della cooperazione sociale, del volontariato e
di ogni singolarità o collettività sensibile ai valori più profondi della
vita, lavori insieme per una società dove la giustizia non significhi vendetta
e afflizione sui più deboli e impunità dei più forti.
Per una società dove l’affermazione del diritto universale di cittadinanza
per chiunque si trovi sul suo territorio stia alla base di qualsiasi legge
emanata.
Per una società che attraverso un sistema di regole della convivenza
orizzontalmente condivise, sappia liberarsi dalla necessità del carcere.
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