Carcerizzazione degli emarginati

 

Associazione culturale "Papillon Rebibbia" Onlus

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Considerazioni sulla carcerizzazione dell’emarginazione sociale

 

Associazione Papillon, 24 marzo 2004


Un documento della nostra associazione presentato ad un convegno sulla Giustizia svoltosi giovedì 25 a Roma, in Vicolo Valdina, e al quale hanno partecipato Parlamentari e giuristi. Il contesto politico internazionale è ormai quasi completamente occupato dall’intreccio inestricabile guerra-terrorismo prodotto dalle politiche di rapina di alcune potenze mondiali. Il delirio securitario che in Italia ne è seguito, ha portato, così come negli USA e in Europa, il suo veleno fino agli angoli più remoti della società civile. Mentre in nome della sicurezza i diritti civili vengono drasticamente ristretti, il controllo sociale diviene sempre più asfissiante individuando nelle fasce più deboli della popolazione e nell’emarginazione sociale, che la crisi economica e le politiche neoliberiste producono a ritmo incalzante, il nemico interno da neutralizzare. Lo Stato si comporta come un generale in guerra: - più prigionieri faccio, meno nemici avrò davanti -.
La metafora non ci appare ridondante se sotto la lente d’ingrandimento poniamo il sistema-carcere e il sistema-giustizia. Le carceri scoppiano, la giustizia è alla barbarie. Il dibattito parlamentare sulla proposta Boato in tema di grazia lo dimostra chiaramente, arrivando tra l’altro a sottomettere la concessione della grazia al perdono o meno dei famigliari della vittima. Il che, ci sia consentito, risponde più alle antiche tradizioni tribali che a un moderno Stato di Diritto.
Ma è sulle condizioni in cui versano le carceri e chi le abita che la nostra Associazione vorrebbe portare l’attenzione di questo convegno. Quello che più ci preme in questo momento è il ripristino dei diritti delle cittadine e dei cittadini detenuti e il rispetto della loro dignità. Da più parti sono state avanzate proposte e, più concretamente, alcuni strumenti di tutela come i Garanti si stanno sperimentando.
Pur tuttavia, la Papillon ha detto e ripete che la migliore garanzia dei diritti dei detenuti si avrà soltanto quando ci sarà una Legge nazionale che riconoscerà anche a questa categoria di persone il diritto di associarsi liberamente per confrontarsi sui problemi del carcere con tutti i livelli istituzionali: dai Municipi alle Regioni, dalle Commissioni Parlamentari al Ministero di Grazia e Giustizia.
Esattamente come avviene in tutti i più diversi ambiti comunitari (siano essi posti di lavoro, quartieri, ospedali, caserme, caseggiati, scuole, ecc.), rivendichiamo che anche i cittadini detenuti possano avvalersi di questo diritto senza per ciò essere sottoposti a pressioni, ricatti, trasferimenti forzati e altre punizioni di vario tipo. In definitiva, anche questa è una questione di civiltà giuridica e a nostro avviso commette un errore chi ne sottovaluta l’importanza.
Un ottimo passaggio transitorio in questa direzione sarebbe stato anche l'instaurazione da parte di tutti i Consigli Regionali di Commissioni di controllo sulle carceri di loro competenza territoriale. Commissioni che sarebbero state composte da Consiglieri regionali di tutte le forze politiche e al cui lavoro quotidiano avrebbero potuto partecipare rappresentanti dei funzionari e degli operatori delle carceri, e soprattutto rappresentanti delle più grandi associazioni dei detenuti. Chiunque può ben capire che Commissioni così composte avrebbero potuto moltiplicare il potere ispettivo che già oggi appartiene a ogni Consigliere regionale, ma soprattutto avrebbero potuto moltiplicare la capacità d’individuazione e risoluzione dei reali e più urgenti problemi che affliggono i vari istituti penitenziari, senza rischiare di essere ingannate dai classici "specchietti per le allodole che esistono in ogni carcere.
Purtroppo, a causa di troppe e inutili timidezze politiche anche questo passaggio non si è riusciti ad ottenerlo, ma ad ogni modo la nostra Associazione è comunque favorevole all'insediamento dei Garanti comunali e regionali, pur essendo consapevole che essi, per quanto importanti, sono in un certo senso una goccia nel mare nell’importante battaglia di civiltà portata avanti pacificamente in questi anni dalla Papillon e da migliaia di detenuti e liberi cittadini, sui cui obiettivi e modalità ragioniamo qui di seguito.
Il contesto economico-politico In questa particolare fase politica nella quale sta faticosamente transitando il nostro Paese, dove tutto fa pensare che l’attuale maggioranza parlamentare abbia dichiarato una sorta di guerra alla società civile praticando una particolare sovversione dall’alto, è sotto gli occhi di tutti la sistematica mortificazione della dignità e dei diritti delle cittadine e dei cittadini detenuti. Che tale questione sia da sempre particolarmente problematica (su questo nessun Governo passato è innocente) è un fatto.
Che oggi le condizioni di vita all’interno delle carceri siano prossime all’emergenza umanitaria è un altro ancor più drammatico fatto che non puo’ certo essere coperto dalla disinvolta irresponsabilità del Ministro Castelli.
In definitiva, oggi come ieri, il Ministero della Giustizia latita totalmente su tutta la linea dei suoi doveri, primo fra tutti garantire il pieno rispetto dei più elementari diritti umani all’interno delle carceri. Rammentiamo che l’Italia ha già collezionato negli anni diverse condanne e richiami severi da organizzazioni umanitarie come Amnesty International e dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa a causa del trattamento inumano nei confronti dei propri detenuti.
Naturalmente, nel nostro ragionamento, vogliamo andare oltre le performances del Ministro poiché ci appare evidente come egli costituisca soltanto un modesto atomo di cui è formato il gigantesco iceberg della negazione dei diritti. Si tratta di una mostruosità umana e giuridica la cui massa è implementata, giorno dopo giorno, da un paradigma produttivo, oggi globale, che assicura ricchezze inusitate a pochi ricchi e nuove povertà a una sterminata moltitudine di donne e uomini in ogni angolo del pianeta.
Stiamo parlando del neoliberismo, che nel nostro Paese certa sinistra, scrollatasi di dosso le sue origine storiche, pretenderebbe di governare e in più cercando di convincerci circa suoi inesistenti risvolti positivi, e una destra che, con autoritaria arroganza, ne dispiega sull’intera società tutto il potere distruttivo.
Riteniamo che in una società veramente civile e democratica non può essere il profitto d’impresa, l’estrazione di plusvalore ad ogni costo, il valore assoluto, il quale si erge a ideologia egemone e dominante.
Fenomeno ancora più evidente oggi dove il modo di produzione postfordista non mette più a valore soltanto il tempo di lavoro ma l’intera esistenza dell’individuo, in quanto affida un posto importante nella produzione di ricchezza alla messa a valore della sua capacità linguistica, di relazione e di cooperazione sociale. E’ una sorta di produzione di merci a mezzo di linguaggio. E’ il sapere generale sociale ("general intellect") a essere messo in produzione, riducendo così i corpi e le menti a pura merce.
Assistiamo così a una crescente precarizzazione generale delle condizioni di vita dei produttori, in quanto alla discontinuità della prestazione lavorativa corrisponde la discontinuità del reddito. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: impossibile programmare il proprio futuro come accendere mutui-casa, costituire nuovi nuclei famigliari, fare figli qualora lo si desideri, risparmiare per poter affrontare contingenze difficili, e quant’altro sta alla base della materialità indispensabile alla conduzione di una vita anche minimamente dignitosa; le nuove povertà avanzano a ritmo incalzante. Ora, si presume che in una democrazia avanzata lo Stato, nella sua apparente funzione di mediatore, debba farsi carico della difesa della parte più debole dei suoi amministrati. Nel nostro caso sarebbe stato indispensabile, da parte del Parlamento, emanare una serie di provvedimenti volti, da una parte a regolamentare equamente il mercato del lavoro inibendo la sua devastante capacità di sussunzione reale e formale della vita dei produttori, dall’altra a mettere in campo il potenziamento del Welfare portando la sua efficacia all’altezza dei tempi. Sgomenti, assistiamo invece all’esatto contrario: il Welfare (che, non dimentichiamolo, era anche frutto delle lotte dei lavoratori costato lacrime e sangue) è sistematicamente demolito attraverso la privatizzazione selvaggia di ogni servizio al cittadino.
Contestualmente viene emanata una legge per la regolamentazione del mercato del lavoro (Legge 14 febbraio 2003 n. 30) che, fotografando lo stato delle cose presenti, ne fa regola giuridica. I fatti c’illustrano, e con dovizia di particolari, come quest’ultima trovata neoliberista stia portando all’accelerazione il processo di precarizzazione delle condizioni di vita di strati sempre più ampi di popolazione.
Il dominio del mercato sulle istanze vitali e più profonde dell’intera società costituisce un processo di metastatizzazione che, lentamente ma inesorabilmente, porta alla distruzione di quel complesso di relazioni sociali e umane sulle quali la "res publica" è costituita, nonché del sistema ecologico sul quale essa vive.
Da qui derivano, come già detto, nuove povertà, marginalizzazione ed esclusione sociale in preoccupante crescita, pericolosa percezione collettiva del no-future. Impossibile non capire come tutto questo aumenti il rischio di devianza in chi, privato di un reddito anche minimo, ha l’esigenza di sopravvivere. Basterebbe indagare le biografie dei detenuti per comprendere come la marginalizzazione e l’esclusione sociale siano la maggior causa di devianza.

 

Come risponde lo Stato a questa situazione in caduta libera?


Esclusivamente con politiche penali, carcerizzazione, stravolgimento del Codice Penale con nuove fattispecie di reato o riesumandone altre oggi anacronistici residui del ventennio fascista, aumento delle pene anche per i reati minori, restringimento delle misure alternative alla detenzione. Il neoliberismo ha una precisa politica di controllo sociale: l'esclusione. I poveri, gli uomini e le donne espulsi dal mercato del lavoro vanno tolti dalla vista e relegati ai margini. Lo Stato, di conseguenza, usando il circuito carcerario come una discarica sociale, s’illude di nascondere "lo sporco" sotto il tappeto.
Mentre le soluzioni, a nostro avviso, sarebbero ben altre: per prima cosa occorre una radicale inversione di tendenza che sostituisca le politiche penali con politiche sociali di prevenzione, di cui alcuni punti insostituibili sono il reddito di cittadinanza (diretto e indiretto) e una sostanziale modifica della regolamentazione del mercato del lavoro con l’abolizione della Legge 30, in favore di un provvedimento che porti a un equilibrio equo la dialettica tra lavoro vivo e capitale.

 

Il Carcere


Ma ora vorremmo estrarre dal contesto generale succintamente descritto sopra un frammento, al quale la nostra Associazione, per sua genesi, dedica il proprio lavoro: il carcere; con l’intento di dimostrarne l’inutilità e il danno sociale. Chiunque conosce il carcere sa che è impossibile una sua pur latente valenza educativa. Basterebbe leggere "Sorvegliare e punire" di Foucault per rendersi conto che dal’800 a oggi poco è cambiato circa la metodologia trattamentale volta a considerare il deviante come un animale da ri/addestrare.
Nel 1975 e nel 1986 sono state realizzate leggi di riforma dell’Ordinamento Penitenziario che, se pienamente applicate, avrebbero cambiato non di poco il sistema carcerario italiano. Ma essendo state in gran parte disattese, dentro al carcere il sistema pedagogico rimane fondato sul rapporto premio-punizione. Se anche i benefici della legge Gozzini (L.10 ottobre 1986 n° 663), già di per sé oggetto di gravi disparità di applicazione da una regione all’altra da parte della Magistratura di Sorveglianza, vengono utilizzati come premi, è chiaro che si sta praticando esattamente lo stesso tipo di metodologia con cui si addestrano gli animali. Mentre sarebbe necessario, per i cittadini detenuti, elaborare la propria esperienza e usare questo come base per modificare i propri comportamenti.
Al contrario, gli unici elementi che fornisce il carcere per smettere di delinquere sono la paura della punizione e la ricerca del premio. E questo meccanismo è del tutto controproducente: nessuno matura una coscienza critica e autocritica attraverso il carcere. È difficilissimo che questo accada.
In più, dato lo stato di illegalità diffusa che vige in quei luoghi di sovraffollamento inumano, le continue vessazioni e spesso le violenze fisiche e psicologiche che i detenuti subiscono da parte di chi, per legge, dovrebbe invece limitarsi alla custodia in base all’art. 27 della Costituzione, crea nei detenuti stessi un sostanziale passaggio percettivo da custoditi a vittime. E il sentirsi vittima non porta certo il detenuto a intraprendere un percorso critico volto a considerare la devianza come disvalore da rifiutare; al contrario lo conduce a generare soltanto un profondo rancore contro le istituzioni e la società che, una volta libero dopo aver scontato la pena, lo spinge a commettere reati ancora maggiori di quelli già compiuti.
Siamo convinti che in ogni detenuto ci sia il sovrapporsi di due condizioni negative pregresse alla carcerazione: una è quella dell’esclusione sociale che tutti quanti, specie nelle grandi città, conoscono. L’altra è, in generale, l’ideologia indotta da un paradigma produttivo e dal modello sociale che esso ha creato, che porta le persone a rincorrere l’arricchimento ad ogni costo. Anche attraverso la commissione di reati.
Se non interviene un meccanismo che spezzi questo corto circuito che noi chiamiamo feticismo del denaro, è chiaro che le persone, anche dopo l’uscita dal carcere, continueranno a reiterare i reati. La recidiva, infatti, in Italia, è uno dei maggiori fattori di entrata in carcere (rientro).
Il carcere provoca solo regressione psico-fisica, disperazione e rabbia. Il carcere è una fabbrica di criminalità. Questo e solo questo è il punto cardine sul quale il Parlamento e l’intera società civile dovrebbero interrogarsi.

 

Morire di carcere


Non stupisce, detto ciò, che i suicidi all’interno delle carceri siano 19 volte più numerosi che all’esterno. Il 2001 è stato l’anno peggiore, con 70 suicidi. Nel 2002 ne sono stati registrati 52. Fino a luglio del 2003 ce ne sono stati 23. Ma molto spesso si nasconde un suicidio anche dietro molti altri episodi, come le overdose. E non bisogna dimenticare che vengono classificati come suicidi solo quelli che vanno a "buon fine" dentro le mura del carcere. I tentati suicidi sono una media di 900 all’anno, gli atti di autolesionismo arrivano a 6.000.
Da qui a parlare di sanità in carcere il passo è breve: si tratta, come non tutti sanno, a partire dal Centro Clinico di Parma, escludendo decisamente quello di Bologna, di un vero e proprio circuito infernale che vede all’interno delle infermerie degrado, violenza, abbandono, sporcizia, mancanza di farmaci (compresi i salva-vita), insufficienza strutturale di personale medico e paramedico. Detto altrimenti: una pena aggiuntiva.
E come se non bastasse, l’ultima Finanziaria ha tagliato ulteriormente i fondi destinati annualmente a una Sanità Carceraria che da sempre naviga nella più piena e conclamata illegalità in spregio all’art. 32 della Carta Costituzionale, il quale individua il diritto alla salute e alla cura come uno dei diritti fondamentali del cittadino, quindi senza distinzione alcuna tra liberi e privati della libertà personale.
Un capitolo della riforma Bindi del ’99 prevedeva che la Sanità Carceraria venisse affidata alle Asl, ma purtroppo non ha avuto seguito principalmente perché lo Stato non ha mai trasferito i fondi necessari alle Regioni, condicio sine qua non perché le Asl potessero entrare nelle carceri.
In particolare chiunque può comprendere come i presidi Ser.T. in ogni Istituto di Pena sarebbero stati fondamentali perché i tossicodipendenti in entrata non fossero costretti a interrompere le terapie metadoniche già iniziate in libertà. Si preferisce, perciò, continuare a tenere chiuse in cella persone in crisi di astinenza, che per le loro condizione psico-fisiche disastrate non dovrebbero stare in prigione, imbottendole di psicofarmaci dannosi per la salute ma utili poiché uno zombie (così viene chiamato il "tossico" nel gergo carcerario) non crea problemi in quanto fortemente limitato, nelle sue capacità cognitive e motorie, dalla "terapia" carceraria. E questo, per quanto riguarda la custodia, è ciò che conta.
Altro fattore di fortissima resistenza alla riforma Bindi proviene dalla corporazione dei medici penitenziari dai quali viene percepita come un pericolo mortale per quanto riguarda il loro potere decisionale assoluto, privilegi, baronie. Se poi aggiungiamo che la selezione di questo personale avviene a livello locale, cioè nei singoli istituti, attraverso una procedura di valutazione di titoli e prova attitudinale effettuata da commissioni presiedute dai direttori delle carceri; che questo meccanismo di selezione assicura alle direzioni la più assoluta aderenza dei medici e degli infermieri penitenziari alle ragioni della sicurezza, per loro prioritarie rispetto a quelle della cura e prevenzione, non rimangono dubbi circa le reali ragioni della guerra mossa da questa potente lobby contro il previsto (ma non applicato) passaggio di consegne alle ASL.
Di nuovo la Costituzione recita all’art. 27: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Ma nessuno o quasi si occupa di quest’aspetto. A parte alcuni parlamentari, che per pura coscienza si sono presi a cuore il problema, e alcune meritevoli cooperative sociali e associazioni di volontariato che si occupano di svolgere attività dentro al carcere o del reinserimento degli ex detenuti.

 

Dal basso qualcosa sta cambiando


"La grande riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 è stata scritta con il sangue dei detenuti".
Se citiamo questa frase non è per facile retorica, né per attirare indebita compassione o pietas. Lo facciamo perché essa, ai tempi, fu quasi un luogo comune; appariva in ogni commento fatto a proposito delle lotte dei carcerati dei primi anni ’70, che circolava tra tutte le componenti dell’allora sinistra extraparlamentare. La quale, sola, quelle lotte aveva tenacemente sostenuto dall’esterno.
La citiamo perché quel conflitto rimane scritto, nella storia sociale del nostro Paese, come uno dei più sanguinosi del dopoguerra. Per chi ha vissuto quel periodo è impossibile dimenticare i filmati dei telegiornali e le foto della stampa che ritraevano centinaia di detenuti disperati seminudi sui tetti delle carceri in rivolta mentre lanciavano tegole sugli uomini in divisa di sotto.
Tra i rivoltosi vi furono alcune morti a causa di cadute dai tetti e ferite provocate dalle forze dell’ordine. Centinaia furono i feriti gravi, alcuni riportarono danni permanenti a causa dei pestaggi inusitati subiti dalla custodia come punizione a rivolte finite.
Oggi, a tanti anni di distanza, le insostenibili condizioni di vita e la richiesta di giustizia che allora furono causa delle sanguinose rivolte dei detenuti non solo non sono cambiate per niente, ma si sono fortemente aggravate. Un semplice dato: nel 1970 le carceri ospitavano 21.379 persone. Oggi, sono intorno alle 56.000.
E’ vero che alcune altre carceri nel frattempo sono state costruite, ma rimane il fatto che attualmente il massimo contenibile dichiarato dallo stesso Ministero competente è di 42.000 unità. E chi ha esperienza di carcere sa che quest’ultima cifra è demagogicamente sovrastimata. Non aggiungiamo altro.
Naturalmente viene spontaneo chiedersi per quali ragioni oggi non sono ancora deflagrate rivolte. A nostro avviso,non si può fare un parallelo col passato: dagli anni ’70 è cambiata la società e con essa la composizione sociale e il tipo di attività prevalenti nell'illegalità. L'unità con l'opposizione sociale esterna alle carceri è molto più difficile da realizzarsi.
Vediamo inoltre che dal complesso magma delle lotte di massa esterne, da Seattle in poi, inizia a muoversi un movimento globale, che oggi presidia e ridefinisce la sfera pubblica, capace di porre la più radicale istanza etica ("buona vita") sul terreno del conflitto sociale, abbandonando, così pare, l’opzione dell’uso della forza; patrimonio invece egemone nella classe durante tutto il ciclo di lotte che nel nostro Paese si espressero indicativamente dal ’68 all’84. Allo stesso modo, evidentemente, sono cambiate le modalità di lotta dei reclusi.
La rabbia e le istanze radicali per il miglioramento delle condizioni di vita permangono immutate, ma la novità rispetto al passato sta nel fatto che i detenuti stanno imparando a organizzarsi stabilmente, e organizzandosi, scelgono scientemente di farlo in forma pacifica.
Stanno capendo che bisogna evitare di dare l’opportunità a tutti coloro i quali non vedono l’ora che succeda qualche atto di violenza collettiva dentro al carcere, per poi fare tabula rasa di tutto quello che i detenuti hanno conquistato in questi anni.
Ciò non vuol dire che i detenuti ignorino che il carcere è una delle istituzioni più violente dello Stato. E proprio perché siamo consapevoli di questa sua natura,oggi possiamo dire che soltanto la più completa irresponsabilità del mondo politico potrebbe riuscire a cancellare questa maturità da noi raggiunta.
Con queste modalità pacifiche, che potremmo definire di natura sindacale, dal settembre 2002 è iniziato un lungo ciclo di lotte, ondivago ma continuo, che si basa su una piattaforma rivendicativa di cui riportiamo i punti salienti:

Indulto generalizzato di tre anni.

Passaggio della Sanità Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale.

Riforma del Codice Penale, a partire dall’abolizione dell’ergastolo e dalla depenalizzazione dei reati minori.

Abolizione delle prescrizioni contenute nell’art. 4 bis.

Abolizione dell’anticostituzionale art. 41 bis.

Aumento della liberazione anticipata a 4 mesi.

Aumento delle concessioni delle misure alternative al carcere.

Espulsione dei detenuti stranieri che ne facciano richiesta.

Diritto di associazione ai cittadini detenuti per rappresentare in forma collettiva le proprie istanze generali nei confronti delle varie Istituzioni locali e nazionali.

Istituzione di una Commissione Parlamentare d’Inchiesta sull’applicazione della Legge 10 ottobre 1986 n° 663 cd. Gozzini.

Decarcerizzazione dei malati gravi e psichici, dei tossicodipendenti, dei sieropositivi.

Storicamente, nelle carceri italiane, non si è mai verificato l’emergere di una tale spinta dal basso così matura e organizzata. Essa, disinteressandosi delle tante inutili lamentele sui rapporti di forza sfavorevoli, pare fondare il suo orizzonte strategico su una drastica ridefinizione della dialettica tra Istituzioni Totali e popolazione detenuta, laddove, di quelle Istituzioni nega a gran voce la legittimità. E lo fa portando il conflitto, in forma pacifica, sul terreno stesso dell’avversario: la giustizia.
Facendo proprio il concetto etico di "buona vita", il "movimento" dei detenuti, il quale pare avviarsi così a congiungersi con la già dispiegata opposizione sociale, scoperchia e disvela, al cospetto dell’intera società civile, la menzogna sulla quale si regge l’intera architettura del potere nel carcere: con la Costituzione Repubblicana sotto il braccio i detenuti pretendono giustizia e il rispetto delle leggi, mettendo così in grave contraddizione uno Stato, titolare del monopolio della violenza, che, a garanzia dell’esistenza del sistema-carcere, quelle sue stesse leggi non può rispettare.
In una parola il sistema-carcere è fondato su un paradosso giuridico: l’illegalità legale. In particolare, se quanto detto non bastasse, è sotto gli occhi di tutti come questo Governo stia operando una sovversione dall’alto, emanando in continuazione leggi che sottraggono ai cittadini diritti acquisiti in campo sociale e giuridico e altre, ad personam, che garantiscono l’impunità a tanti affaristi e faccendieri dell'attuale maggioranza.
Ecco perché oggi sostenere le lotte pacifiche dei detenuti significa abbracciare una battaglia di libertà e di civiltà che riguarda tutti e tutte.
Occorre quindi che chi fa parte del mondo sindacale, delle realtà dell’autorganizzazione, della Chiesa di base, del mondo della cooperazione sociale, del volontariato e di ogni singolarità o collettività sensibile ai valori più profondi della vita, lavori insieme per una società dove la giustizia non significhi vendetta e afflizione sui più deboli e impunità dei più forti.
Per una società dove l’affermazione del diritto universale di cittadinanza per chiunque si trovi sul suo territorio stia alla base di qualsiasi legge emanata.
Per una società che attraverso un sistema di regole della convivenza orizzontalmente condivise, sappia liberarsi dalla necessità del carcere.

 

 

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