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Osservatorio Calamandrana sul carcere di San Vittore "per la trasparenza e l’umanizzazione in carcere"
Bollettino n° 6 - ottobre 2002 Continuiamo l’osservazione sul carcere. Un gruppo di detenuti protesta contro l’articolo di un noto settimanale
San Vittore, agosto 2002
Gentile giornalista, la ringraziamo per essersi interessata al nostro inferno. Ma le chiediamo: con il suo articolo Lei quale messaggio voleva inviare ai suoi lettori? Voleva far loro sapere che ci sono degli uomini che vivono in una situazione di grande sofferenza, descrivendo queste condizioni di vita, per provocare in loro una giusta indignazione per come si trovano a vivere degli umani? Chi legge di questo inferno prova simpatia verso gli uomini che ci vivono? A noi è sembrato che Lei più che delle condizioni disumane parli della disumanità dei detenuti, perché Lei scrive di "corpi che sporgono dalle sbarre come quelli di animali feroci, facce livide, furia di carne umana, gabbie di travestiti, bolgia dantesca" e, peggio di tutto, di "ombre odiate". Non le sembra che chi legge questo suo reportage provi prima di tutto un senso di disgusto e di rifiuto verso di noi? Inoltre le fotografie che corredano l’articolo colgono gli aspetti più impressionanti, come alcuni corpi pieni di tagli, e braccia che si sporgono dalle sbarre. Tutte cose vere. Ma come mai il fotografo non ha colto anche qualche volto di noi uomini? Forse dall’osservazione dei nostri volti si potrebbe anche avere simpatia per noi, si potrebbe comprendere la nostra umanità insieme alle bruttissime condizioni. I lettori avrebbero potuto considerarci anche come persone e non solo come una massa anonima di corpi. Provi a incontrare qualcuno degli insegnanti o volontari che ogni giorno entrano qui e parlano con noi. Forse la sua visione e quella dei lettori cambierebbe un po’. Perché da questi visitatori noi ci sentiamo accettati e ciò ci dà sollievo. Per loro non siamo ombre odiate. Noi non siamo solo deboli, frustrati e privi di dignità. Noi non siamo così. Noi siamo uomini, nonostante le condizioni difficilissime in cui stiamo vivendo qui. Questa nostra umanità non risulta dal suo articolo. Cordiali saluti da un gruppo di detenuti di San Vittore.
San Vittore, settembre 2002
Gentile giornalista, in riferimento alla nostra lettera, che comunque non ha mai avuto risposta, dopo il suo soggiorno c/o il carcere di San Vittore, la invitiamo a riflettere sulla situazione che si è venuta a creare nelle carceri d’Italia in queste settimane.
(seguono firme)
I detenuti di San Vittore Reportage tra i disperati del carcere milanese
25 luglio 2002 – Panorama
Se questi sono ancora uomini
Carmelo fa lo sciopero della sete. Mohammed si cuce la bocca con la molla. Un ex tenore implora di poter vedere la madre morente: l’inviata di "Panorama" ha trascorso tre giorni a San Víttore. E lo racconta.
di Stella Pende
Mohammed l’egiziano s’è cucito la bocca con la molla della penna biro. Le sue labbra hanno sputato sangue nero per ore. Adesso sta chiuso nella fogna delle anime, in una cella del reparto dove portano quelli col cervello spappolato. "Qui o ti ammazzi o ammazzi quel bastardo del poliziotto. Così ho pensato: la mia bocca è quella del poliziotto. è sua la pelle che sto infilzando, è lui che urla al mio posto, è suo il sangue che mi schizza in gola". San Vittore, prigione immortale. Tomba di vivi. Carcere che da sempre dev’essere demolito, venduto, ma che non si chiude mai. Galera - paese che oggi più che mai assume l’anima e i peccati di tutte le carceri d’Italia: il sovraffollamento, il dolore, il caldo, i suicidi. La speranza. Mohammed parla tra le sbarre, la bocca tumefatta. "Per gli agenti ci sono cuori negri e cuori bianchi. Vedi quello lì? Era uno straccio ieri sera. Ma l’hanno vestito. Io no. Mi lasciano senza mutande per farmi sentire un animale". Una coperta sventola tra due sbarre. È un SOS. Qualcuno rantola, un altro vomita. E d’improvviso l’odore inconfondibile del carcere ti entra nelle vene. Arriva il direttore, Luigi Pagano, uomo libero e liberale. Se è per questo ogni giorno lui incontra bocche cucite, gole tagliate, braccia spezzate. Morti. "Ieri si è impiccato un marocchino: il suicidio rimane la nostra vera sconfitta". "È un uomo che pensa prima agli uomini" mi ha detto di lui Gianni Fumagalli, l’educatore che sarà il regista di questo viaggio dentro il carcere milanese. Ma Pagano parla anche dei suoi successi: "Il sovraffollamento? Oggi ne abbiamo dimessi altri 100. Entro poco dovremmo arrivare a 1.100. Il che riporta San Vittore a carcere circondariale con detenuti solo appellanti. Gli altri li mandiamo a Opera e Bollate". Il direttore è il primo cittadino di San Vittore. Ci abita perfino, prigioniero dei suoi prigionieri e di una grande contraddizione. È con passione furente il direttore di un carcere che trova inutile e ingiusto. "Ci vorrebbero pene più utili: l’uomo del delitto non è mai quello della pena. Una soluzione? La nuova legge Smuraglia. Oggi regala sgravi fiscali agli imprenditori che impiegano detenuti". A scortarci è una giovane psicologa, Daniela Antonucci. Si arriva alla famosa rotonda: ha una cupola e un altare in mezzo. Di domenica è una chiesa per la messa, adesso è il cuore del carcere. Babele di agenti, di neri, di facce livide, di stampelle, di passi, di dolore. La dottoressa cammina dentro questa bolgia dantesca come un piccolo Virgilio invisibile. Niente può più stupirla. Nemmeno Rachid. Un agente strizza il braccio del somalo, scalzo e quasi nudo. Il busto innaffiato di sangue. "Ho anche bevuto varechina: voglio infermeria". Poche parole e il ragazzo scompare con la testa bassa. Nel quarto raggio ci sono l’infermeria e le celle di quelli a rischio. Ecco l’assalto dei disperati. "Ho un tumore al midollo: mi hanno dichiarato incompatibile col carcere…". Carmelo ha gli occhi pesti. Fa salassi, flebo, ma sta qui. Il magistrato è in ferie. Pietro, diabetico, si aggrappa alla sua stampella. "Faccio lo sciopero della sete, della fame, dell’insulina da mesi. Posso morire adesso davanti a lei, lo sa? Qui entri sano ed esci malato, entri ammalato ed esci morto". L’ultimo è un signore cortese. Era tenore nell’orchestra della Rai. "Mi chiamo Serpedonti, mia madre ha novant’anni, vorrei vederla. È il suo ultimo desiderio e il mio. Il magistrato dice no: per lei è un’emozione troppo grande. Mi aiuti!". Risponde una voce senza nome. "Come fanno i giudici senza emozioni a capire quando uno si emoziona?". Il Coc (Centro osservazione criminale) è il recinto dei tossici. Parla un ragazzo con le labbra viola: "Ci tengono al guinzaglio con tonnellate di psicofarmaci: l’anno scorso c’è stato perfino un morto per overdose". Una delle dottoresse, Mara Gonevi, ribatte: "Abbiamo ridotto le dosi. C’è il metadone, questo sì: è per continuare il programma all’esterno". La "polverina", cioè la droga, a San Vittore continua a viaggiare nei desideri di questi disgraziati. Ma anche nelle loro celle. Entra comunque: sciolta sotto i francobolli, nelle polaroid, nelle capsule dei detenuti, sotto le unghie. Sotto le croste. "Sappiamo tutto, ma qualche volta ci fregano ancora. È normale, è la galera". Gianfranco Jezzi, ispettore delle guardie, occhi cerulei e capello ondulato, sembra un divo dei telefilm polizieschi, ma in realtà sa bene che una delle micce accese della galera è la rabbia che brucia insieme agenti e carcerati: "Chi sono i veri carnefici? Loro si danno fuoco e noi entriamo nelle fiamme. Si tagliano e si sgozzano e noi li salviamo. Certo, poi devi anche difenderti". La paura? "È il nostro secondo nome". Per arrivare al secondo piano del quarto raggio l’ispettore ci scorta per "la Svizzera", le scale del carcere, il luogo dove si fanno agguati e si regolano conti. Il secondo e il terzo piano del quinto raggio sono i più affollati. Celle come formicai, televisioni che urlano, corpi che sporgono dalle sbarre, come quelli di animali feroci. Occhi perduti. "Una furia di carne disumana" scriveva Indro Montanelli. Dodici in una cella. Il buco della turca, dal fetore preistorico, sta di fianco alla cucina. Padre Pio vicino ai capezzoli di Moana Pozzi. Uno, cento specchietti brillano nelle mani che sventolano fuori dalle celle. È così che si vede chi arriva. Una voce: "Quello di sopra mi vomita addosso, faccia qualcosa". Un altro sbatte la testa al muro. Qualcuno mi ha chiesto di non chiamarlo inferno. Ma cos’è? Secondo piano del sesto raggio: condannati per violenze sessuali. Gianni Fumagalli, cicerone paziente, chiede: niente nomi. Bene. Tanto sono ombre odiate. Augusto ha violentato la moglie. Un vecchietto coi baffetti trascina le pantofole. Sembra un angelo in pensione: ha violentato nove bambini. La gabbia dei travestiti è un piccolo brandello di carnevale brasiliano. Tacchi, bandane, paillettes, bocche amaranto e spalle da lottatore. Usano spray addormentanti e rapinano il cliente. Uno di loro, Valdimar Andrade Silva, scrive poesie: "Vorrei morire in un giorno di pioggia per avere le lacrime del cielo". Poi d’improvviso, ondulando, appare Alessandro. È immenso, il gigante dei travesta, ma ha hot pant svasati, voce da fata e braccia affettate dalle spalle ai polsi. "Che ho fatto? Di tutto. Marciapiede, rapine, ho stangato e chiuso un cliente nell’armadio. L’avranno trovato? Sono gli agenti i miei mostri. Ne ho perfino tagliato uno con la lametta. Oggi sono buono. Quelli pelosi mi piacciono addirittura". Un desiderio? Alessandro sorride: "Tornare bambino". Nella sezione delle femmine vere c’è un’altra aria. Quella delle donne. Non sarà un caso che in galera ce ne sono 140 contro duemila carcerati maschi. Dentro il laboratorio dei costumi Paola Mazzoni, condannata per droga, parla di emozioni: "La galera amplifica il dolore e la rabbia, ma anche l’amicizia. e l’amore". Fra stoffe, fiocchi e sete Maria ha un criceto che le passeggia sulle spalle e Fernanda fa la cuoca di sezione dopo aver ingoiato una ventina di ovuli di cocaina arrivando dalla Colombia. Da una cella fa capolino una signora incipriata. È un’aliena caduta dal cielo? "No, è la signora Patrizia Gucci". Davanti al nido c’è il via vai dei bambini. E dei passeggini. In un posto dove non ci sono passeggiate. Secondo la nuova legge Finocchiaro dopo i tre anni non dovrebbero stare in carcere, ma fuori con le loro mamme agli arresti domiciliari. Le leggi buone fanno fatica a esistere. "Il bambino ce l’ho qui perché tutta la mia famiglia è in carcere: mia madre, i miei quattro fratelli e le mie cognate". Angela ha una faccia fresca ma la sua è la famiglia mafiosa più importante della Calabria. La madre, una vecchina col respiro corto, pare la nonna di Cappuccetto rosso. Ma il lupo lo ha mangiato lei. Anzi, deve averne mangiati cinque e sei.. Il penale, luogo di detenuti definitivi, è il regno della vecchia e mitica guardia. Intorno a un tavolo un vero gentiluomo: camicia Ralph Lauren, mocassini Tod’s, una quasi laurea in scienze politiche, due diplomi in informatica: più di vent’anni per spaccio internazionale. È Maurizio Agosta. "Ho usato bene il mio tempo, ma quando uscirò la parte più bella della mia vita sarà andata". Stessa colpa per Santino Stefanini, uno dei pezzi forti della banda Vallanzasca passato dal Beccaria alla galera vera. Per sempre. "Sono evaso due volte e due volte mi hanno beccato". Pino dipinge donne e furori che si ammirano sulle pareti dell’atelier di San Vittore. Proprio come Marco Medda, l’ergastolano mito. Qualche omicidio di cui l’ultimo in galera. Tra loro una faccia familiare. Troppo. "Come sta De Bortoli?". Panico. È proprio Diego, vent’anni fa tipografo al Corriere. Scriveva poesie, poi un giorno ha accoltellato la moglie. Diego era un angelo. Così sembra rimasto. Come si fa a condannare un uomo per cinque minuti di follia? O a non condannarlo? Di fianco al penale la redazione de Il due notizie. Qualcosa che ogni carcere vorrebbe avere. "Prima c’era Magazine due, il periodico che si è conquistato perfino un premio nobile come Il Premiolino. Adesso c’è questo foglio che raccoglie tutte le news del carcere. Qui con la tivù si sa tutto del fuori e niente del nostro dentro. Chi voglia sapere del nostro dentro può cercare sul sito www.ildue.it. Emilia Patruno, giornalista di Famiglia Cristiana, è direttore volontario di un drappello originale di giornalisti. Francesco Ghiringhelli, ex brigatista, Sisto Rossi, autore fra l’altro di "Piccole celle in legno". Ivano Longo dichiarato, inutilmente, incompatibile col carcere per sieropositività e per intelligenza. E molti. altri. In preparazione il cd con le ricette e la cucina del carcere. Titolo: Avanzi di galera. A pochi metri dalla redazione, il laboratorio di pelletteria dove il direttore Luigi Pagano e la cooperativa Ecolab hanno fatto davvero l’impossibile: 12 detenuti artigiani e pagati in busta paga. Quindicimila pezzi ordinati solo dal gennaio all’aprile del 2002. Clienti di lusso. Da Armani jeans all’Inter di Massimo Moratti. Ad altri. Ma di luci l’inferno di San Vittore è pieno. C’è il laboratorio del vetro che Santo Tucci e Tihomir Lozzina hanno fondato con la piccola cooperativa Alì; c’è la bottega di falegnameria, ci sono 280 volontari. C’è il terzo raggio completamente restaurato con docce nelle camere e biblioteche e sale computer. C’è il sogno di Pagano. E di molti come lui: un carcere senza il carcere. Per informazioni, segnalazioni e adesioni rivolgersi a Gruppo Calamandrana, presso Lega dei Popoli, via Bagutta 12 Milano tel 02780811 e-mail lidlip@libero.it
Maria Elena Belli, Nunzio Ferrante, Augusto Magnone, Maria Vittoria Mora, Mario Napoleoni, Dajana Pennacchietti, Gabriella Sacchetti, Sandro Sessa
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