Bollettino n° 5

 

Osservatorio Calamandrana sul carcere di San Vittore

"per la trasparenza e l’umanizzazione in carcere"

 

Bollettino n° 5 - settembre 2002 

Continuiamo l’osservazione sul carcere con tre testimonianze dal carcere di Padova

 

Dire... non dire... dire troppo poco...

Gli impossibili equilibri dell’informazione dal carcere, di Ornella Favero

 

 

I fatti nudi e crudi

 

 

I fatti in realtà sono molto nudi, perché non ne sappiamo un granché, poco abbiamo visto e ancor meno ci hanno detto, ma in compenso ci abbiamo guadagnato una denuncia per favoreggiamento e per ora ci basta.

Lunedì 24 giugno: Abbiamo sentito delle urla forti, siamo usciti dalla redazione a vedere cosa succedeva, morale della favola, non abbiamo visto pressoché nulla, dal momento che i fatti erano già avvenuti, ma abbiamo capito che c’era appena stato un conflitto, o forse un contatto, un’aggressione, uno scontro, un pestaggio, "qualcosa" insomma fra detenuti di ritorno dai passeggi (2 ?) e agenti.

Quello che ho fatto io poi è una sola cosa: invitare ripetutamente i detenuti a rientrare nelle aule, sapendo bene come fanno presto a scattare i rapporti disciplinari e quanto delicata poteva essere la situazione in un luogo in cui è meglio, molto meglio anche per noi "esterni" essere cittadini "prudenti" e passivi, piuttosto che cittadini maturi e consapevoli che non fanno a finta di non sentire se qualcosa di strano sta accadendo. Io da parte mia mi assumo la responsabilità di dire che sono stata abbastanza vigliacca: in un attimo ho avuto solo il tempo di pensare ai detenuti che conoscevo, e che non volevo si cacciassero nei pasticci, e non mi sono affatto interessata di chi urlava e perché: Un comportamento piuttosto deprimente, direi, se fossi stata fuori, per strada, e non mi fossi fermata a vedere se qualcuno per caso stava violando i diritti di qualcun altro. Ma così vanno le cose in carcere.

Alla fine (il fatto è durato qualche minuto) tutti sono rientrati senza nessun disordine, e io e Paola, le sole "esterne" presenti, in aggiunta abbiamo ritenuto corretto passare dal Comandante a riferire quel che era successo.

Martedì 25 giugno: vengo chiamata all’Ufficio Comando, e penso che vogliano sapere più dettagliatamente come sono andati i fatti. Troppo ingenua! Dopo cinque anni di assoluta correttezza nel mio rapporto con l’"Istituzione carcere", mi vengono chieste le generalità e vengo invitata a nominare un difensore di fiducia. Reato contestato: favoreggiamento. La stessa cosa tocca a Paola Soligon e a un detenuto della redazione, Nicola Sansonna.

 

Storia di cinque anni di ragionevolezza

 

Ecco, la questione è tutta lì, nella correttezza. O meglio nella ragionevolezza. Cinque anni di vita di questo giornale, cinque anni di ragionevolezza, ma la ragionevolezza spesso fa a pugni col carcere, e allora è meglio sapere che il carcere prima o poi ti presenta il conto.

La prima reazione, di fronte a una accusa come quella che ci è stata rivolta, è di pentirsi: pentirsi di essere stati troppo sensati, di aver portato avanti per anni battaglie perché il giornale non fosse il luogo delle lamentele e dei vittimismi, ma quello delle discussioni feroci e del coraggio di affrontare, nero su bianco, anche i temi che i detenuti amano meno, i tabù carcerari, quelli che il conformismo della galera tende a far sparire.

Quando ti avventuri sul terreno dell’informazione, ti insegnano sempre che un buon giornalista è quello che scontenta un po’ tutti. In carcere, a differenza di tanti giornali "liberi" che non scontentano mai nessuno, ci abbiamo tentato davvero, di scontentare un po’ tutti, quando ce n’era bisogno: abbiamo scontentato molti detenuti, perché non abbiamo urlato e denunciato abbastanza, ma abbiamo scontentato pure "l’istituzione carcere", nel senso che anche ai direttori e agli operatori più illuminati dà fastidio che si mettano a nudo le cose che non funzionano, figurarsi a quelli non illuminati!

Ma noi non vogliamo affatto pentirci della nostra ragionevolezza, sarebbe come "dargliela vinta" a chi pensa che i detenuti siano poco più che bestie, e come tali vorrebbe trattarli. La ragionevolezza, la pacatezza, la sobrietà sono qualità della nostra scrittura alle quali non vogliamo rinunciare, nemmeno ora che a tutti noi, me compresa, che vado predicando da anni noiosamente l’importanza di "raffreddare i toni", verrebbe voglia di dare un calcio a tutto ed essere sinceri fino in fondo, cioè rabbiosamente indignati per come siamo stati trattati.

 

Mi viene da dire: in questa storia sono stata trattata come un detenuto

 

Questa frase merita però una spiegazione. Un famoso giornalista tedesco un bel giorno decise di capire cosa si prova a vivere da immigrato in Germania e passò un anno travestito da lavoratore turco: fu un’esperienza sconvolgente. Io ho vissuto una piccolissima esperienza che mi ha dato però, per un attimo, la sensazione precisa di cosa vuol dire essere detenuto. Voglio prima precisare una cosa: non credo affatto a chi ama troppo le formule tipo "poveri detenuti", non ignoro i livelli di violenza e sopraffazione che certi detenuti esercitano, non penso neppure lontanamente che gli agenti stiano tutti a fare il loro lavoro con l’idea di umiliare i detenuti. Però credo che, non essendoci nessun tipo di tutela di chi sta in carcere e pochissima trasparenza su quello che succede all’interno delle galere, un detenuto che voglia tenere un percorso "regolare" per arrivare ai benefici debba sottostare, a volte, a forme di umiliazione e autorepressione che lentamente distruggerebbero chiunque. È difficile pensare che uno non esca alla fine logorato, incattivito, malato.

Io da parte mia ho capito sulla mia pelle cosa vuol dire venire a sapere, dopo e da persone che non hanno assistito ai fatti, di essere stata accusata di qualcosa che non capisco neppure, ma che mi costringe a pagarmi un avvocato e sentirmi presa in giro, umiliata e privata di quel rispetto, a cui ritengo di avere diritto.

 

Volontari e "accamosciati"

 

Bisogna dirselo francamente: i volontari in carcere spesso sono in balia degli eventi, vivono alla giornata e hanno pochissime garanzie nel loro lavoro. E nessuno gli spiega i pericoli che sono "in agguato" in questo tipo di volontariato. L’articolo 17, quello che ti dà diritto a fare volontariato in carcere, gli può venir tolto in qualsiasi momento se ritenuti "inidonei". Io non mi considero una volontaria per vocazione, lo sono perché per entrare in carcere a occuparsi di informazione altri modi non ne conosco, eppure mi sento di difendere il volontariato perché sono stufa di vedere certe meschinità dell’ambiente carcerario e stare zitta. Ho visto togliere l’articolo 17 "senza diritto di replica", ho visto (e vissuto a volte in prima persona) cosa vuol dire sentirsi dei questuanti nelle richieste avanzata al carcere per le proprie attività. Ho capito cosa vuol dire lavorare con serietà e passione per anni, e poi scoprire che tutto quello che si costruisce in carcere è costruito sulle sabbie mobili. E si rischia di proprio. Qualcuno mi pagherà l’avvocato difensore? Qualcuno mi ridarà il tempo e le energie persi per difendermi da una accusa ingiusta? Qualcuno è venuto a dirmi: sono cinque anni che lei lavora con serietà ed equilibrio, può spiegarci cosa è successo?

Il fatto è che ci sono agenti, spero pochi, che pensano che i volontari sono "accamosciati", orribile parola per dire che sono "troppo amici" dei detenuti, che nel gergo carcerario sono chiamati appunto "camosci". Rifiuto questa parola, non sopporto che qualcuno si senta in diritto di giudicarmi perché, invece di fare volontariato coi malati o gli anziani, lo faccio coi detenuti. Ritengo che ogni persona, a questo mondo, meriti qualche attenzione, e scelgo io a chi dare le mie, di attenzioni. L’ho sempre fatto nel pieno rispetto della complessità di un luogo come il carcere, e sfido chiunque a negarlo. Penso però anche che sia ora che chi non crede nella nostra Costituzione, e nell’articolo 27 in particolare, là dove dice che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità", e va quindi ben più di me contro la legge e il Regolamento penitenziario, debba rispondere di questa sua scelta. Io, da parte mia, ci credo e sto lavorando in carcere per questo.

Mi accorgo però che il clima, l’atmosfera, gli atteggiamenti che ho raccontato sono diffusi in molte carceri, ma non lo erano a Padova fino a poco tempo fa. A Padova avevamo costruito davvero insieme, volontari, operatori, insegnanti, agenti, detenuti, qualcosa che faceva dire a tutti quelli che arrivavano all’area delle attività culturali: non sembra neanche di essere in un carcere. E non perché non ci fosse nessun tipo di ordine e disciplina, al contrario le cose funzionavano con precisione notevole per un carcere, e quindi in modo disciplinato, ma era una convivenza basata su regole condivise dettate da anni di discussioni, confronti, di studio, di fiducia. In fondo, in un carcere provare a spiegare certe regole, invece di imporle e basta, è una battaglia importante, perché crea dei margini di responsabilità e di libertà che aiutano le persone a crescere. Tutti sanno che prima o poi quelle persone usciranno: noi abbiamo lavorato, in questi anni, nell’area delle attività culturali e di informazione, perché escano, appunto, delle persone, con un po’ più di capacità critica e un po’ meno di rabbia repressa. È quanto speriamo di continuare a fare, perché se invece prevale la voglia di affrontare i problemi con le denunce, i conflitti e le contrapposizioni, l’aria rischia di diventare ben presto irrespirabile per tutti

 

"Abbiamo parlato con i direttori, gli educatori, i medici e i poliziotti, abbiamo incrociato gli sguardi sorpresi o incuriositi dei detenuti!"

 

Questa frase viene dal secondo rapporto sulle carceri italiane dell’Associazione Antigone, un rapporto importante, che fotografa il disastro delle carceri oggi e porta un po’ di luce nelle tante zone d’ombra della vita dei detenuti. Io però, che con i detenuti faccio faticosamente un giornale, penso che si possa e si debba fare insieme un passo avanti, rispetto a questa immagine dei detenuti con gli sguardi sorpresi o incuriositi di fronte agli "osservatori" che arrivano dall’esterno. Un passo che significa lavorare in modo che si allarghino le esperienze nelle quali non siamo solo noi esterni a parlare dei detenuti, perché finché siamo solo noi a farlo, rischiamo di "abitare" sempre più lontano dal carcere, fino a farci sbattere del tutto fuori. La capacità nostra dovrebbe essere invece di lavorare insieme per fare informazione, in un confronto onesto e serrato che metta in gioco la nostra competenza e la loro voglia di assumersi delle responsabilità.

Il senso di isolamento che vivono oggi realtà come quella di Ristretti Orizzonti è forte: è come se ognuno volesse fare un suo discorso sul carcere, occupare un suo spazio, e nessuno avesse voglia di "restringersi" un po’ per allargare un’esperienza comune di informazione. Questo però ci rende tutti più deboli, più ricattabili, e ricaccia il carcere in una zona d’ombra sempre più impenetrabile.

Ma davvero non c’è modo di uscire da questo vicolo cieco? 

Ripensando alla mia esperienza in carcere
dopo una denuncia per favoreggiamento

di Paola Soligon

 

Non mi soffermo a raccontare i fatti come li abbiamo vissuti, perché, anche se da punti di osservazione diversi, penso che li racconteremmo tutti allo stesso modo: urla, gente che esce dalle stanze a vedere cosa sta succedendo, qualche attimo per realizzare che c’è stato un conflitto e che nessuno di noi è in grado di ricostruirlo nei dettagli. Ma sicuramente molti di noi erano consapevoli che da quella situazione, del tutto anomala rispetto al tranquillo tran-tran di quella sezione, poteva arrivare qualche rapporto disciplinare.

 

Preferisco soffermarmi allora proprio sui rapporti, perché in carcere la prima cosa che impari al tuo ingresso da detenuto o da esterno è che devi muoverti con cautela, che ci sono molte regole, spesso non scritte, da rispettare e che se le trasgredisci viene scritto un verbale.

In 5 anni di volontariato io non ne ho avuto neanche uno, non perché sia particolarmente attenta, ma perché spesso chi in carcere ci vive o lo frequenta da più tempo mi ha aiutato ad evitarli.

Prima regola: Vietato portare qualsiasi cosa non autorizzata! Come l’ho saputo? La prima volta che ho portato delle graffette dentro, un volontario "veterano" mi ha detto che non lo potevo fare.

A Padova non si possono avere con sé soldi all’interno dell’istituto (ma altrove pare di sì).

Un detenuto ti chiede di portare fuori una lettera, non perché lui sia sottoposto a censura, ma solo perché all’interno del carcere la posta è più lenta. Devi subito insospettirti: cosa ci sarà al suo interno? Se ingenuamente non lo fai e vieni scoperto, ti viene revocato il permesso di ingresso, anche se il tuo progetto era innovativo e aveva risolto delle belle tensioni interne. In carcere non puoi semplicemente giustificarti, devi aspettarti la punizione.

Per fortuna non succede sempre così, se per esempio ti soffermi qualche minuto oltre l’orario consentito, probabilmente perché non te ne sei accorto, o hai qualcosa di urgente da terminare, può venir fatto un verbale ma, per fortuna, in quel caso è ammessa la giustificazione.

Libri con copertina rigida, assolutamente vietati a Padova (altrove pare che non sia così), e se porti dentro un vocabolario o simili, ti viene sventrato prima di essere dato in uso ai detenuti.

Questi sono solo alcuni esempi di contestazioni fatte ai volontari, i rapporti disciplinari che riguardano i detenuti sono ben più numerosi in quantità e varietà, ma se ne conoscono molto pochi, perché non c’è nessun obbligo di trasparenza, il magistrato può rinviare o revocare un beneficio in base ad un rapporto di cui l’interessato stesso ignora i dettagli, e conosce al massimo solo l’esistenza.

È dentro a questa atmosfera che impari a muoverti in carcere. A volte mi sono chiesta se ne valeva la pena: lavorare (perché il progetto culturale e informativo di "Ristretti Orizzonti" assomiglia molto di più a un’attività lavorativa che a un progetto "ricreativo") all’interno di una istituzione così poco trasparente, così facilmente punitiva, è difficile.

Come scrive Ornella, impari a muoverti con ragionevolezza, perché credi in quello che stai facendo, perché vorresti che questo tipo di informazione dall’interno fosse presente in tutte le carceri, che le informazioni fossero in rete, e che chi scrive sul carcere avesse maggiore consapevolezza del significato della parola reclusione.

È per questo motivo che in questi anni abbiamo lavorato tutti, come volontari, per realizzare un progetto ambizioso, un’esperienza che Nicola Sansonna definisce straordinaria dentro un carcere, possibile anche perché abbiamo trovato una direzione aperta e molti operatori, compresi alcuni agenti, che condividevano le attività proposte. Ma anche possibile perché abbiamo imparato assieme a chiedere finanziamenti ai vari enti e li abbiamo investiti tutti per fare formazione. Ci siamo impegnati in progetti che per molti di noi erano nuovi: organizzare convegni dentro al carcere con centinaia di invitati, sperimentare buffet multietnici, contattare esperti in tutti i settori del disagio, allacciare una rete di rapporti su tutto il territorio nazionale e non da ultimo creare un sito sul carcere ed aggiornarlo ogni 15 giorni, per rendere un servizio utile a tutte le persone che se ne occupano.

Ora, dopo gli ultimi episodi, verrebbe voglia di lasciar perdere tutto, di dire: non ne vale la pena! Di essere d’accordo con quelli che sostengono che "in carcere ci impieghi anni a costruire e pochi istanti a distruggere tutto", e mollare davvero. Ma noi non lo possiamo fare, per lo meno non ora che l’agenda politica non ha in scadenza discussioni sul carcere (se non per confermare le situazioni peggiori, come il 41 bis), in questo momento in cui quasi nessun politico se ne occupa da vicino, e la stampa ufficiale è completamente assente.

Anche se siamo definiti un "giornalino", continueremo a parlare e far parlare di carcere.

Episodi come quelli che ci vedono coinvolti mi amareggiano molto, e in un altro luogo di lavoro me ne sarei già andata, ma in carcere devi anche fare i conti con le persone con cui collabori e essere consapevole che, se ti viene ritirato l’art. 17 o se rinunci di tua iniziativa, l’attività a cui tu partecipi può andare seriamente in crisi o addirittura essere interrotta.

Concludo con un suggerimento a chi mi ritiene forse "indesiderata": ci sono modi più garbati, meno costosi e più civili per dire a una persona che non si è d’accordo con il suo operato. 

Un fulmine a ciel sereno

 

Cinque anni di volontariato in redazione, un’esperienza straordinaria, ma in carcere basta un minuto per distruggere un lavoro di anni

 

di Nicola Sansonna

 

Sono sempre stato un uomo fortunato, infatti tra parecchie decine di detenuti, presenti ai fatti accaduti il 24 giugno, risulto l’unico detenuto denunciato. Ma non voglio credere che si tratti di un tentativo di attacco al nostro giornale. Se volessero farci chiudere, hanno tutti i mezzi per farlo, non hanno bisogno di sotterfugi. Sta di fatto però che siamo stati denunciati noi tre di Ristretti Orizzonti.

Il 25 giugno infatti mi hanno chiamato e mi hanno comunicato che ero stato imputato di reato, invitandomi a nominare un avvocato e a rilasciare le mie generalità. Ho avuto una reazione di totale incredulità: non poteva essere vero! Ho un permesso in corso, ho una liberazione anticipata in discussione, ho presentato una istanza per la semilibertà. Ho già scontato 24 anni di galera, non sono un novellino, conosco sin dove posso spingermi.

Personalmente sono stato lì lì per lasciare tutto! Abbandonare il volontariato che faccio da 5 anni, dal settembre ‘97, quando con Ornella e pochi altri amici demmo vita a questa stupenda realtà editoriale che è Ristretti Orizzonti. Stavo lasciando perché ero amareggiato.

La storia dell’esistenza umana, quindi anche la nostra, non è quasi mai un poema eroico. È piuttosto una novella modesta e volgare, intessuta di avvenimenti insignificanti, equivoci; sacrifici ignorati, gioie non sempre purissime, dolori, grandi delusioni, soddisfazioni spesso effimere. Ma è questo miscuglio di sensazioni, questo continuo rincorrersi tra bene e male che dà un senso alla vita.

Qui in carcere questa è la normalità, come lo è anche nella vita delle persone non detenute. La differenza è che, di fronte agli eventi, in carcere sei spettatore, sei impotente, non ti puoi permettere di reagire. Quando pensi di aver raggiunto un equilibrio, un avvenimento anche estraneo al tuo "piccolo universo" può creare un cataclisma. Tutto il lavoro fatto sembra crollarti addosso. Le cose perdono di senso, di interesse. E ti domandi semplicemente: ma perché accade tutto ciò?

Non so come finirà la questione perché è ormai di competenza della Magistratura, ma certo lascerà un segno, perché è indice della fragilità di realtà apparentemente solide. In carcere non c’è niente di sicuro, di duraturo, di certo, l’unica cosa certa è il fine pena, ma anche quello può variare.

In questo momento mi viene in mente il senso di un mio intervento, fatto al convegno su Volontariato e informazione, che si è svolto qui nel carcere di Padova: "Spesso per il detenuto paradossalmente conviene di più starsene sdraiato in branda a rincoglionirsi con la televisione. Perché così non rischia rapporti, e quando è nei termini può godere di tutte le misure alternative. Se poi si prende 30 gocce per dormire tanto meglio, e se la mattina si sente carico di energie, no problem, ancora 20 gocce di tranquillanti". Questo molto cinicamente è il detenuto modello, quello che difficilmente prende denunce, rapporti. Ed in questo modo molti scontano la loro carcerazione. Sono stato tentato di chiedere di farmi mettere in terapia, forse è l’unico modo per uscire di galera! Forse ha ragione chi fa così e sono tanti. Ma sono altresì convinto che ciò che facciamo, le informazioni che riusciamo a fornire a chi ne ha bisogno, meritano di continuare ad esistere, sino a che ci consentiranno di fare il nostro lavoro. Sotto questo punto di vista, allo stato delle cose non ci dovrebbero essere timori (o almeno così ci hanno assicurato…).

Mi chiedo cos’è l’informazione in carcere, cosa rappresenta, e soprattutto, com’è vista e percepita dalle diverse componenti che operano qui dentro. Per noi innanzitutto è una grossa garanzia di democrazia e trasparenza. Non è facile realizzarla, non è facile dare un servizio che soddisfi tutti. Ma lo abbiamo fatto, cercando l’equilibrio, cercando i toni giusti, a volte smussando gli angoli più acuti. O perlomeno ci abbiamo provato. Esponendoci a critiche anche feroci, ma ci abbiamo provato veramente convinti.

Anch’io naturalmente guardo un po’ di televisione, uno dei miei programmi preferiti è: Il Mondo di Quark, adoro i servizi sulle grandi distese africane, il parco del Serengheti, il Masai Mara; documentaristi che osservano la natura selvaggia fare il suo corso, il leone che sbrana la gazzella, e loro filmano, documentano, non devono intervenire perché non devono rompere il naturale corso delle cose. Ma non credo che la gazzella sia felice di questa neutralità.

Certo siamo detenuti, certo siamo in galera, ma quando sentiamo un grido d’aiuto disperato, è nell’istinto dell’essere umano alzare il culo dalla sedia e cercare di essere utile. È giusto! Ma non in carcere. In carcere è preferibile non avere reazioni da esseri umani.

 

 

Precedente Home Su Successiva