Bollettino n° 4

 

Osservatorio Calamandrana sul carcere di San Vittore

"per la trasparenza e l’umanizzazione in carcere"

 

Bollettino n° 4 – aprile 2002

 

Continuiamo l’osservazione sul carcere di San Vittore con scritti di detenuti.

 

A las cinco de la tarde

 

E poi arriva la sera e infine la notte; arrivano i lamenti e le grida. Le chiamate provenienti dai diversi stanzini, rivolte agli agenti con lo scopo di poter accedere alla stanza chiamata Pronto soccorso, sembrano non finire mai. E gli agenti, spesso, sembra non ci siano proprio. Anche questo sarebbe un argomento da approfondire.

Approfondiamolo allora, o meglio, parliamo di ciò che è accaduto ad uno dei tanti detenuti di San Vittore (circostanza che succede per altro sovente) quando, sentendosi male di sera, ha chiesto di potersi recare al così detto Pronto Soccorso. Ma questo recluso è stato vittima dell'ennesimo pestaggio da parte di alcuni agenti di custodia, con la complicità tacita di chi era di servizio quella sera. Mi riferisco non soltanto agli agenti, che hanno assistito a questa "vergognosa primitiva azione" , ma anche ai dottori e agli infermieri che hanno il dovere di riportare l'accaduto (oltre che la visita, eventuali medicazioni e terapie) su un registro che, se eventualmente la cosa si aggravasse, servirebbe per il medico montante del giorno dopo.

Dottori ed infermieri che hanno visitato e medicato il giovane malcapitato di turno hanno giustificato i segni che aveva sul corpo affermando che questo "dichiarava" di essere scivolato.

A parer mio questo è un grosso errore (errore che a suo tempo feci anche io, ma di questo parleremo più avanti).

Torniamo ai fatti: un detenuto (extracomunitario) alle ore ventuno si è presentato alla "rotonda", che è il fulcro dove si incontrano tutti i sei raggi di San Vittore, chiedendo agli agenti di servizio se poteva recarsi al Pronto Soccorso. Premetto che nel pomeriggio questo detenuto aveva avuto una discussione con altri detenuti, e di conseguenza anche con gli agenti. Quando poi il detenuto in questione ha chiesto del pronto soccorso, gli agenti (non si sa per quale motivo) lo hanno preso a schiaffi. Dopo di che è stato fatto entrare nel locale adibito al primo soccorso, e da lì trasferito al reparto C.O.M.P. (Centro Osservazione Neuro Psichiatrico). Tutti sanno che appena si giunge in quel reparto, gli agenti di servizio "ti accarezzano un po’" prima di assegnarti una cella.

Questo è quello che è successo, ma facciamo un passo indietro.

Il detenuto qui a San Vittore viene sistematicamente maltrattato, picchiato, preso a calci, umiliato e deriso da altri "uomini" con la divisa; divisa che loro stessi ritengono di portare con orgoglio e rispetto; quella stessa divisa che se insultata scatena chissà quali ire.

Ma voglio chiarire una cosa molto importante: noi non insultiamo mai la divisa, semmai chi la indossa, ed anche quando questo accade, c'è sempre un motivo più che valido.

Chi indossa questa divisa spesso è un uomo, se un uomo si può chiamare colui che usa questa uniforme come paravento per sfogare quei bassi istinti da "bestia" (chiedo scusa agli animali per aver usato questo termine), istinti che ha dentro, e che non sono altro che il risultato di una vita inutile e repressa.

Ma c'è anche il rovescio della medaglia. Personalmente conosco agenti che quando passano per la conta, ci danno la "buonanotte" o in alcuni casi anche il "buon appetito", e in quelle occasioni io mi sento un uomo, non un numero o un delinquente, mi sento semplicemente un uomo. E rispetto quell'agente, lo rispetto perché è un uomo che sta facendo il suo lavoro, niente di più.

A questo punto mi chiedo, cosa hanno di diverso il primo agente dal secondo ?

Le risposte potrebbero essere tante, ma non ci interessano. Ci interessano invece gli effetti e le conseguenze che tutto questo provoca su di noi. E il risultato è un accumulo di frustrazioni e di rabbia, rabbia che poi ci teniamo e ci portiamo dentro. Sentimenti che si sommano ad altri sentimenti causati dalla privazione degli affetti, dalla privazione della libertà, dall'inutilità di un tempo che ci sfugge. E alla fine uno si ritrova che è molto più arrabbiato di quando è entrato.

Ecco perché il recupero del detenuto è limitato e scarso. E in più ci si mettono anche gli agenti di custodia, il cui compito è "vigilando redimere".

Qui invece è un continuo istigare e provocare. E' una cosa riprovevole e pericolosa, dico pericolosa perché fino a quando lasceremo correre e quando ci limiteremo a rispondere con scritti e parole, tutto andrà "bene"; ma quando il "vaso" sarà pieno e quando anche l'ultima goccia sarà entrata, allora saranno guai, guai seri per tutti (questa non vuole essere una minaccia, è soltanto una lettura di quello che potrebbe succedere). E allora non ci saranno più i "sei colloqui con i familiari", e le quattro telefonate mensili, non ci saranno più i quarantacinque giorni ogni sei mesi di liberazione anticipata, o le licenze premio. Non ci sarà più la paura, per alcuni, di un trasferimento per chissà dove. Non ci sarà più nulla che riuscirà a fermare, ad arginare tutta la violenza accumulata per queste situazioni. Ma noi detenuti non vogliamo arrivare a questo comportamento rivoluzionario, anzi è l'opposto, vogliamo poter dire al dottore che ci ha visitato nel pronto soccorso, che ci hanno picchiato, insultato e che le "escoriazioni" e le costole "incrinate" sono dovute ai calci che ci hanno dato gli agenti di custodia, e non giustificarle con la solita frase "sono scivolato", perché non è vero che sono scivolato, non è onesto e non è giusto. Come non è giusto che oltre alle botte un detenuto debba essere perseguito anche legalmente con un processo, e perdere di conseguenza i sei colloqui con i familiari, le quattro telefonate mensili, i giorni di liberazione anticipata, un lavoro se è riuscito ad ottenerlo, o una licenza premio per poter stare un po’ con i propri bambini.

Tutto questo non è giusto, non è giusto perché in un paese "civile", perché siamo nel 2002, e perché oltre che essere un "ladro", sono principalmente un uomo con tutto quello che comporta.

Personalmente penso che se dobbiamo dire basta, dobbiamo dirlo principalmente a noi stessi, perché per le situazioni sopra elencate, siamo noi i primi ad autorizzare tutto questo.

Nella mia storia c'è stato un episodio in cui mi sono risvegliato sotto la T.A.C. e al dottore che mi visitò dissi che ero caduto, ma non era vero, ero stato picchiato, massacrato fino al punto di svenire per le botte prese dagli agenti. E tutto questo perché ? ….. Per l'idea di omertà, ma quale omertà? questa non è omertà. La realtà fu che io presi le botte (come alla maggior parte di noi è capitato) e stetti zitto per paura di prenderne altre, e perché sapevo che se avessi detto la verità non sarebbe cambiato nulla, anzi ci avrei rimesso ancora di più.

E ora di dire "basta".

 

Testo firmato

 

Sono transessuale

 

Ogni volta che vado al tribunale magari per una camera di consiglio devo sopportare troppe umiliazioni.

Prima di tutto devo fare uno spogliarello quasi del tipo strip. Dopo mi mettono le manette e quando entro dentro nel furgone gli sbirri viziosi cominciano con le domande schifose:

  1. Sei trans?

  2. Di dove sei?

  3. Sei siliconato?

  4. Ti piace andare a letto con le donne ?

  5. Quanto guadagni in una sera ?

Quando ritorno devo fare lo stesso spogliarello e dopo mi mettono giù dietro a un cancello per due oppure tre ore senza acqua, eccetera…

E' una vera umiliazione.

Per informazioni, segnalazioni e adesioni rivolgersi a Gruppo Calamandrana:

 

Presso Lega dei Popoli

Via Bagutta 12 Milano

tel 02780811

e-mail lidlip@ciaoweb.it 

 

Maria Elena Belli, Nunzio Ferrante, Augusto Magnone, Maria Vittoria Mora, Mario Napoleoni, Dajana Pennacchietti, Gabriella Sacchetti, Sandro Sessa, Rosanna Tognon

 

 

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