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Quei 352 detenuti già condannati dall’Aids
Il Foglio Quotidiano, 17 febbraio 2001
Mi scrive un detenuto dal carcere di Sulmona: “Sono ammalato di Aids, ho 35 anni, di cui 13 trascorsi in carcere a causa di piccoli reati contro il patrimonio (sono un ex tossicodipendente). Mi restano da scontare ancora 11 anni, quindi è normalissimo capire che sto aspettando la mia fine di condannato a morte. La legge prevede che un malato in fase terminale, come testimonia la diagnosi fattami dal dirigente sanitario del carcere, va messo fuori. Spero soltanto che qualcuno di animo o di cuore sensibile mi garantisca la prerogativa di poter morire accanto ai miei cari, diritto sacrosanto sancito dalla legge. Ringrazio prima l’uomo e poi l’istituzione che vorrà dare il giusto contributo di buon cristiano a queste mie urla di disperazione”. La lettera è regolarmente firmata e accompagnata da quello che il detenuto chiama il suo “potenziale certificato di morte”. In quest’ultimo il responsabile sanitario e quello per le tossicodipendenze certificano che il detenuto in questione “rientra nella definizione ampliata di Aids”. Nel luglio del 1999, la legge n° 231 ha introdotto una nuova disciplina in materia di “esecuzione della pena, di misure di sicurezza e di misure cautelari nei confronti dei soggetti affetti da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente grave”. Grazie alle nuove norme è stato superato il vuoto legislativo prodotto, nel 1999, dalla sentenza con cui la Corte Costituzionale stabiliva che non potesse perdurare l’applicazione del principio, fino ad allora vigente, di automatismo rispetto all’incompatibilità tra detenzione e sindrome da immunodeficienza acquisita. Cinque mesi dopo l’approvazione della legge, il ministero della Sanità, di concerto con quello della Giustizia ha adottato il decreto con cui sono stati indicati i criteri e le procedure diagnostiche e medico legali per l’accertamento dei casi di Aids conclamata e di grave deficienza immunitaria Da allora, tuttavia la situazione dei detenuti sieropositivi e malati di Aids all’interno delle carceri italiane non è particolarmente migliorata. La vicenda sopra esposta, infatti, non rappresenta un caso isolato. Sono molte le persone che stanno scontando una pena e che trovano enormi difficoltà nell’ottenere quanto la legge prevede, ovvero l’applicazione delle misure alternative quali l’affidamento ai servizi sociali e la detenzione domiciliare. Secondo dati riferiti ai primi sei mesi del 2000, sono 151 i detenuti ai quali è stato riconosciuto lo stato di Aids conclamato, 51 i sieropositivi con deficit immunitario grave (T/CD4 inferiore a 100) e 150 i sieropositivi con deficit immunitario rilevante (T/CD4 maggiore di 100 e inferiore a 2OO). A ben 352 persone, dunque, la magistratura di
sorveglianza non ha riconosciuto il diritto di accedere alle misure previste
dalla legge. Per molti di loro, come per il detenuto che mi ha scritto, tale
diniego rappresenta la conferma non già di una pena da scontare, ma di una
agonia senza conforto. Quella legge del 1999 intendeva conciliare domanda di
sicurezza (in presenza di un numero irrisorio di detenuti, dichiarati
“incompatibili”, tornati a delinquere) ed esigenza di umanizzazione della
pena. Ma quel punto di equilibrio risulta precario se, poi, la scelta
discrezionale del magistrato non si nutre di sensibilità e di capacità
d’ascolto.
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