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Fare il proprio lavoro pensando anche che un giorno potrebbe essere un nostro figlio, un nostro caro, a "cadere" all'interno di un carcere...
Una riflessione importante, soprattutto se a farla è un Agente di Polizia
Quella che segue è una corrispondenza via e-mail, nata dal nostro sito e da un Agente di Polizia che lo ha visitato, ha letto alcune lettere di Agenti di Polizia Penitenziaria pubblicate sul nostro giornale e ci ha scritto. La vogliamo proporre ai nostri lettori perché offre uno spunto di riflessione nuovo sul rapporto detenuti-agenti: lo stato d'animo di un poliziotto che si ritrova, improvvisamente, a essere anche parente di un detenuto. E che, da questo percorso di "sdoppiamento", comincia a vivere con una sensibilità del tutto nuova il suo ruolo. La prima lettera
Poveri Agenti... poveri dentro… a leggere le loro lettere, (sono miei colleghi di lavoro), mi soffermo al solito pensiero che mi viene alla mente, quando leggo le parole di chi si schiera contro i detenuti... contro i loro diritti più "banali". E' triste, ma non c'è peggior condanna che fare un lavoro frustrante, come quello dell'Agente penitenziario, se lo si fa con odio per i detenuti! La vera condanna non è per il detenuto, ma per chi deve stare a fare un lavoro che altro non è che una sofferenza... sofferenza perché si pensa che il detenuto sta "bene"; sofferenza perché il detenuto può vedere i propri figli (a lui non spetterebbe nemmeno quello); sofferenza perché il detenuto non è trattato "abbastanza" da detenuto! Spero solo che tutti i miei colleghi non abbiano anche la frustrazione di non poter "punire" abbastanza i detenuti; di non poterli vedere soffrire la notte, quando magari piangono, all'interno delle loro celle, per ciò che hanno fatto... "magari" pentiti... veramente... perché io non credo che su circa 700 detenuti, mi riferisco a quelli che sono ristretti al Due Palazzi, nessuno abbia un attimo di pentimento sincero... di pentimento vero... di rimpianti. Spero davvero che tutti i miei colleghi Agenti, in futuro, non abbiano tanta voglia di vedere ancor più "puniti" i detenuti. Non dovrebbe stare a noi cercare la Giustizia... quello è già stato fatto dai Giudici che sono pagati per farlo... e magari, con un po' più di umanità, sarebbe bello anche fare l'Agente, senza frustrazioni, senza odio, e senza voglia di farla pagare a chi già sta pagando i propri debiti! Fare il proprio lavoro con dignità... onestamente e con un briciolo in più di umanità sarebbe "normale".... un giorno potrebbe essere un nostro figlio, un nostro caro, a "cadere" all'interno di un carcere... ed allora tutto assumerebbe un significato diverso... fare l'Agente diventerebbe più difficile... diventerebbe forse un pò più "umano"... e si cercherebbe di capire anche le necessità umane, (almeno quelle), di una persona "ristretta"! La risposta di Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti
Il suo messaggio è veramente una boccata di aria buona. Io non appartengo alla categoria di quelli che pensano ai detenuti come a delle vittime, però credo semplicemente che la realtà sia più complessa di come la vorremmo, e che quindi anche in carcere ci sono persone che hanno sbagliato e ne sono consapevoli, ce ne sono che hanno davvero la mentalità da delinquenti e il mito del denaro facile, e ce ne sono con un retroterra culturale e sociale così povero, che forse era inevitabile che, senza un aiuto dalla società, finissero in carcere. Quanto agli agenti, a me piacerebbe che ci fosse una diffidenza minore e una possibilità di scambio più forte: l'unica esperienza che ho avuto, di un corso di aggiornamento che ci ha coinvolti tutti, insegnanti, volontari, operatori, agenti, è stata positiva forse proprio perché, almeno per quegli agenti che hanno "la testa e il cuore" per interessarsi davvero dei problemi del carcere, ha dimostrato che dal confronto e dallo scambio di idee potrebbe derivare anche per loro una vita più decente. Quando lei scrive che potrebbe capitare pure a loro una persona cara che finisce in carcere, mi è venuta in mente una considerazione che faccio spesso: che cosa avrebbe detto e fatto, il padre di Erika, la ragazza che ha ucciso il fratello e la madre, se fosse stato solo il padre delle vittime, e non anche della assassina? Ecco, anch'io cerco sempre di pensare a questo: che potrebbe capitare a ognuno di noi di avere qualcuno "dall'altra parte". Mi piacerebbe pubblicare la sua lettera nel sito e nel giornale, ma naturalmente capisco se mi dice che preferisce di no. La seconda lettera dell'Agente
Lei avrà notato sicuramente che ho scritto "a tutti potrebbe capitare di avere un proprio caro che "cade" all'interno di un carcere"... ecco, per l'appunto, a me è capitato. Non sono un Agente della Polizia Penitenziaria, ma sono comunque un Agente di Polizia. Se una settimana prima che incominciasse la mia "doppia" vita (da poliziotto e da parente di un detenuto) qualcuno mi avesse chiesto che cosa avrei fatto, se mi fosse accaduto quanto poi è accaduto, gli avrei risposto che quel parente "avrei dimenticato" di averlo. Fortunatamente, invece, ho cominciato da subito a correre contro corrente; ho avuto la fortuna di iniziare a crescere ed arricchirmi ("poveri" quelli che non hanno la fortuna di capire!) di un'esperienza non comune: capire che la vita non è scontata... capire tante cose che non avresti mai accettato... capire che una persona, "normale", può sbagliare... capire che fare il tuo lavoro diventa ancora più significante, se lo vedi con un po' più di umanità e se vedi tutti i lati delle persone. Non è stato facile... ci sono voluti anni perché io giungessi a capire quanto era accaduto... purtroppo e per fortuna non è una esperienza che capita a tutti, e non è semplice accettare le cose che non hai scelto di vivere... è sempre facile dire "io avrei fatto così, io mi sarei comportato cosi"... ma quando capita a te, è veramente tutto diverso... è veramente un altro mondo, un mondo parallelo, e solo chi lo vive e lo affronta dalla parte ed a fianco del detenuto, può capire. Ma per fugare ogni dubbio, comunque, Le voglio dire che non ho affrontato il mio lavoro in modo diverso da prima, ma semplicemente l'ho fatto con più serenità... anch'io come tutti i miei colleghi, nei primi anni del mio lavoro, ero convinto di avere la possibilità di giudicare, il dovere di "punire" chi sbagliava... ma non era così... era solo un'illusione ed una debolezza del mio carattere, che si nascondeva, a volte, dietro una divisa, perché diversamente forse non hai abbastanza "soddisfazioni" e sicurezze nella vita. So per esperienza che la divisa, se portata con un po' di arroganza, e tanti altri piccoli difetti, non rispecchia proprio quello che dovrebbe essere il tuo lavoro... rispecchia solamente, purtroppo, una persona frustrata che cerca le sue sicurezze utilizzando l'abito che indossa. Ecco, ma voglio precisare che quello che ho voluto dire l'ho fatto solo per cercare di far capire ai miei colleghi che anch'io ero come loro... conoscendo l'ambiente del mio lavoro so per certo che i commenti, da parte di molti, saranno i "soliti" commenti "poveri" di gente "povera"... e non lo dico perché mi ritengo al di sopra degli altri, ma solo perché vorrei far capire che si giudica sempre in fretta, (lo faccio ancora anch'io), solamente con le impressioni che si hanno a prima vista... e ciò non è corretto; non si può conoscere una persona solo guardandola e conoscendola superficialmente. Preciso che le mie riflessioni le ho scritte senza offesa nei confronti di alcuno, e senza la presunzione di giudicare uno per tutti, o al contrario, credere che tutti siano superficiali... anzi, mi auguro veramente che tanti siano i miei colleghi "ricchi dentro", di persona e nell'animo. La risposta di Ornella Favero, per Ristretti Orizzonti
La sua è davvero una gran bella lettera. Il fatto è che io credo che le persone in grado di capire meglio quanto è complicata la vita siano proprio quelle come lei, che si sono trovate a dovere per forza fare i conti con una realtà in forte contraddizione con le loro aspettative, con il loro modo di essere. Mi ha colpito l'onestà e la lucidità con cui lei analizza se stesso: il fatto di dire, per esempio, le sicurezze che aveva prima di assumere la doppia identità di poliziotto e di parente di un detenuto ("quel parente l'avrei dimenticato") e di raccontare poi come si può cambiare quando ti crollano le certezze che prima avevano protetto la tua vita. Io non le ho chiesto di pubblicare le sue lettere per una specie di "morbosità" giornalistica (il poliziotto col parente detenuto naturalmente attira l'attenzione). Glielo ho chiesto perché ci sono delle testimonianze dalle quali si ha l'impressione di poter veramente imparare qualcosa: la sua è una di queste. E poi mi sono piaciuti l'equilibrio e la sobrietà, che sono doti difficili da avere e da usare nella scrittura. Non so quanto lei abbia letto del nostro giornale, ma le assicuro che non è un giornale "tipico" da detenuti, con lamentele, vittimismi e simili. Mi sono battuta fin dall'inizio per uno stile asciutto e sobrio, perché solo così, io credo, si può parlare di carcere e cercare di farsi capire e accettare all'esterno. I toni urlati servono molto meno di uno stile pulito, privo di forzature, e sono infinitamente meno efficaci. Quello che lei ha scritto, da questo punto di vista, è così sincero, onesto e diretto, che non può non raggiungere davvero il suo scopo: quello di far riflettere.
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