Intervista Don Ricca

 

  “I nostri sono ragazzi che vanno seguiti passo passo”

Un’affermazione semplice ma efficace, quella di don Domenico Ricca, cappellano dell’Istituto penale per i minorenni “Ferrante Aporti” di Torino. Che in una lunga intervista ci spiega le dinamiche della giustizia minorile, ci racconta il “suo” carcere e non fa sconti ai media che lanciano falsi allarmi sulla criminalità dei ragazzi

(Realizzata nel novembre 2004)

 

A cura di Marino Occhipinti

 

«Conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e come sia pericolosa, quando non è inutile. E tuttavia non “vediamo” con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno». Cita Michel Foucault il cappellano del carcere minorile di Torino, don Domenica Ricca. Ne ha conosciuti, di giovani criminali, e ha visto con i suoi occhi quanti danni possa provocare una pena inutile, appunto, priva di progetti di reinserimento e di uno sguardo verso il futuro. «Ma proprio non siamo in grado di trovare soluzioni diverse?» si chiede don Ricca ribattendo alle parole del filosofo francese. Poi ci regala un pezzetto della sua esperienza. Raccontandoci la “sua” giustizia minorile.

 

Don Ricca, com’è la situazione, dal suo personale - e ormai lunghissimo nel tempo - osservatorio torinese?

La giustizia minorile comprende tante realtà diverse: le procure e i tribunali per i minorenni, che seguono i ragazzi in difficoltà con provvedimenti di tutela; gli interventi penali per chi è in un’età imputabile - da quattordici a diciotto anni - e commette dei reati; il Dipartimento della giustizia minorile e le sedi periferiche dei Centri per la giustizia minorile, che coordinano i Servizi minorili, vale a dire i Centri di prima accoglienza, gli Istituti penali per i minorenni (I.p.m.), le comunità, i Servizi sociali. Difficile, dunque, esprimersi sullo stato della giustizia minorile in generale. Posso però dire con certezza che in questi venticinque anni da cappellano ho osservato notevoli cambiamenti dovuti a fattori politici, al graduale calo delle risorse a disposizione, ma soprattutto al mutare della popolazione minorile in Italia. C’è un’evoluzione continua, come è naturale che sia per una giustizia che si occupa proprio di persone in età evolutiva. E una giustizia – lo ripeto da anni –, per essere tale, non può essere estranea al mondo, alle città, alla gente.

 

In che cosa si differenziano oggi i problemi di ragazzi italiani e stranieri detenuti?

Non è facile individuare le omogeneità e le differenze dovute a lingua, cultura e religione. Come cappellano ho cercato di lavorare più sui punti comuni che sulle diversità, sul fatto cioè di trovarsi tutti in una situazione di bisogno, di privazione della libertà: giovani e quindi tutti soggetti e oggetti di educazione. Ragazzi che, come diceva don Bosco all’inizio del suo apostolato sacerdotale, visitando le carceri di Torino nell’Ottocento, «hanno veramente bisogno di una mano benefica, che si prenda cura di loro, li coltivi, li guidi alla virtù, li allontani dal vizio». Anche se è vero che, quando si opera in un’ottica educativa, diventa fondamentale un impegno per cogliere la differenza come risorsa e avviare processi di integrazione che non neghino le identità, ma le sostengano nella costruzione di una società interculturale.

 

I mediatori culturali sono numericamente sufficienti?

Su queste figure sono notevoli gli investimenti. Tuttavia, in alcuni istituti in particolare, il bisogno è grande e la risposta mai adeguata. Dal mio punto d’osservazione, i mediatori devono essere presenti anche nei percorsi formativi del personale penitenziario, affinché il loro apporto non sia ridotto a ruolo di interpreti o di figure di emergenza. Il loro tempo va speso nel dialogo con tutti gli operatori dell’istituto, oltre che a diretto contatto con i ragazzi. Devono essere mediatori di un apprendere interculturale con gli altri operatori, svolgere una funzione di collegamento tra le diverse realtà. È tutta la struttura penale che deve dotarsi di elementi di conoscenza, affinché si sviluppi una sensibilità alle istanze dei ragazzi, ma anche una richiesta di adeguamento degli stranieri alle regole di tutti. Toccherà sempre ai mediatori attivare percorsi di sostegno ai minori stranieri detenuti per un loro graduale inserimento nel territorio. In altri termini, il mediatore ha una funzione “ponte” anche con gli stranieri che sono fuori. Siamo ancora, per molti stranieri, in una fase di prima generazione: dobbiamo interagire con minori non accompagnati. Il futuro apre scenari nuovi di ricongiungimenti familiari con modalità da inventare, per interventi educativi su tutta la rete familiare del minore straniero di seconda generazione.

 

Gli operatori e le altre figure professionali degli I.p.m. sono adeguatamente formati e aggiornati, secondo lei?

Molto si è investito e si investe sulla formazione. Il problema vero sta nella carenza di operatori della polizia penitenziaria, di presenze nel settore educativo e del trattamento. Pare che a un’aumentata richiesta di sicurezza e di controllo non corrisponda un adeguato potenziamento delle figure educative. Non mancano le idee né i progetti per i minori. Mancano le figure necessarie per un accompagnamento educativo nei percorsi interni al carcere e nell’applicazione delle misure alternative. I ragazzi vanno seguiti passo passo. La presenza dell’educatore, dell’assistente sociale, dello psicologo, dell’operatore è indispensabile per qualsiasi processo di crescita. Sono ragazzi di oggi, più fragili, apparentemente maturi ma in realtà insicuri. Hanno bisogno di sperimentare, forse anche di sbagliare, e mancano di senso della realtà: vanno presi sul serio per quello che sono, devono misurarsi con le loro capacità, ma anche con le difficoltà, oggi più di ieri, di un inserimento nella società. Non dobbiamo coccolarli o vezzeggiarli, ma nemmeno abbandonarli a se stessi.

 

La contrazione dei finanziamenti, che ha riguardato tutti i settori pubblici, avrà colpito anche il Dipartimento della giustizia minorile…

Questo è ovvio, almeno da come si constata tutti i giorni. È sempre più presente il rischio di dover interrompere attività e sperimentazioni positive per mancanza di fondi. Eppure educare costa meno che reprimere, se lo si fa con continuità e metodo. Se non si vuole che il tempo passato in carcere diventi per il ragazzo un tempo vuoto, da rimuovere dalla propria vita, allora va ripensata l’offerta di opportunità educative di qualsiasi tipo. È un investimento di persone e iniziative con una progettualità mirata sui tempi lunghi e non sulle emergenze.

 

Ma cosa viene concretamente fatto negli I.p.m. per favorire il reinserimento dei ragazzi?

Da alcuni anni, nella programmazione dell’istituto di Torino si fa riferimento a un impianto teorico secondo cui, in ogni pratica educativa, si mettono in gioco tre mondi vitali: quello della vita, quello della formazione e quello della cognizione. Un’impresa educativa sarà dunque più produttiva quante più connessioni stabilirà fra questi tre mondi, che in un individuo non sono mai separati.

 

Ci spiega meglio, da educatore, cosa significano questi tre mondi?

Il mondo della vita ha a che fare con il tempo del ragazzo. In un’istituzione in cui la sua esperienza soggettiva rischia di “devitalizzarsi”, occorre indirizzarsi su pratiche educative che diano significato ai vari momenti della quotidianità, per riconvertire il tempo dell’attesa e ampliare il campo di esperienza del ragazzo. Attraverso la relazione educativa, l’adolescente sperimenta nuove interpretazioni di sé e del mondo, e scopre un modo diverso di conferire significato alla realtà.

Il mondo della formazione, invece, riguarda le attività educative nell’istituto, che sono una risorsa fondamentale: se vengono svolte nel contesto di un lavoro di rete, permetteranno di cogliere importanti elementi di conoscenza a partire dalla partecipazione attiva dei ragazzi. Metteranno in luce le loro capacità e attitudini, il loro rapporto con le regole, il livello di concentrazione, il progressivo grado di autonomia, le caratteristiche personali legate alle modalità relazionali. Elementi che si sviluppano proprio dalla partecipazione motivata del minore, cui contribuirà l’intervento coerente di tutti gli operatori.

Infine, il mondo della cognizione. Che significa offrire ai ragazzi degli spazi che diventino occasione per “aprire” momenti della loro storia: raccontare, rappresentare fatti ed emozioni a partire da ciò che si vuole condividere con l’altro. L’obiettivo è produrre nuovi saperi su di sé e sul mondo, comunicando nel proprio linguaggio, attivando modalità cognitive sedimentate, esplorando dimensioni diverse.

 

Quali programmi e attività risocializzanti e ricreative vengono sviluppate al Ferrante Aporti?

Nella sezione maschile si passa attraverso quattro fasi. Nella prima l’obiettivo è l’accoglienza, tramite un primo orientamento per i ragazzi che arrivano. Si consegna loro il regolamento e un foglio informativo sugli aspetti organizzativi, scritto in varie lingue. Nella seconda fase, che riguarda un gruppo connotato sulla breve e media permanenza, si intraprendono insieme ai ragazzi azioni educative di conoscenza e orientamento che consentono agli operatori di realizzare l’osservazione di tutti i minori, con particolare attenzione a quelli maggiormente segnati da disagio psicologico e tossicofilia. Tutto questo in vista di sbocchi o all’interno dell’istituto o in percorsi di uscita, attraverso programmi di intervento individuali. In questa seconda fase ci sarà un’analisi approfondita della situazione personale e giuridica del ragazzo per arrivare a un orientamento socio-formativo. I percorsi di educazione alla legalità e alla salute sono tesi a diminuire i conflitti etnici e a prevenire la tossicodipendenza.

La terza fase è invece connotata da un contesto detentivo più stabile, con tempi di permanenza medio-lunghi. Si tende, in questo gruppo, a un accompagnamento verso un percorso alternativo, affinchè i ragazzi affrontino e approfondiscano l’elaborazione del loro reato. Si continuerà nei percorsi di educazione alla legalità, alla salute e promozione del benessere psicofisico. Si deve puntare allo sviluppo dell’autonomia personale in vista di una proiezione esterna. In questa fase si pensa anche all’accompagnamento dei ragazzi da parte di figure educative nel corso di permessi premio o uscite all’esterno; all’accesso facilitato ai mezzi pubblici; ai pasti, alle mostre, agli eventi teatrali, cinematografici e sportivi; all’accoglienza in laboratori, in centri di aggregazione giovanile, in associazioni di volontariato, in centri culturali e sportivi con una presenza educativa adulta e frequentati da adolescenti. È un gruppo di minori e giovani adulti di varia etnia in custodia cautelare con lunghe permanenze, definitivi, appellanti e ricorrenti, con la prospettiva di una permanenza a lungo termine.

Vi è poi il punto finale del percorso svolto dal ragazzo in istituto: il momento in cui il lavoro fin qua svolto si concretizza in un percorso esterno, scolastico o lavorativo. Il primo passo per la prossima, definitiva, uscita dal carcere. La progettazione individuale sul ragazzo prevede il graduale inserimento in attività esterne e lo svolgimento di poche attività all’interno, in un contesto di collaborazione interprofessionale al di fuori degli schemi istituzionali predefiniti (territorio, ufficio stranieri, Ser.T…). È qui fondamentale sviluppare una tensione del ragazzo per un progetto educativo esterno, introducendo elementi di coscienza civile, senza tralasciare il percorso di elaborazione del reato. Per gli stranieri, poi, sarà importante un’acquisizione di abilità per avviarsi a un nuovo status sociale (regolarizzazione e permesso di soggiorno). È questo lo spazio per i minori e giovani adulti maschi di varia etnia, definitivi, semiliberi o lavoranti all’esterno.

 

E per la sezione femminile, invece?

Per la sezione femminile – un unico gruppo nonostante i numeri, in certi periodi dell’anno, siano rilevanti – rimane valida l’ipotesi di un percorso evolutivo di orientamento, formativo e lavorativo. Anche per le ragazze gli obiettivi sono la promozione della cultura dell’accoglienza, il recupero e la rivalutazione della cultura di appartenenza (qui ancora più importante perché la quasi totalità delle ragazze sono nomadi o straniere), l’elaborazione di percorsi individuali che comprendono sempre un’elaborazione del reato. Infine nella sezione femminile sono peculiari i percorsi di educazione alla salute. È stato anche realizzato uno spazio cucina attraverso una donazione che permette spazi di vivibilità più consoni alla psicologia femminile. Sono essenziali – per le ragazze – interventi mirati al miglioramento della qualità di vita, con attività e spazi per la socialità che abbiano dei contenuti progettuali specifici.

 

È presente il volontariato, tra le ragazze del Ferrante Aporti?

Sì, c’è l’associazione Papa Giovanni XXIII, e poi le volontarie del Servizio civile nazionale hanno attivato il progetto “Pomeriggi tra ragazze”. Si tratta di un incontro bimensile di due ore, la domenica pomeriggio, con attività ludiche, laboratori e momenti di discussione e confronto su tematiche proposte dalle ragazze. Hanno poi una significativa importanza le cene multietniche, soprattutto dopo l’installazione della cucina presso la sezione. Con l’avvio del nuovo anno scolastico, oltre alla scuola e al laboratorio di ceramica, sono previste nella fascia mattutina anche il laboratorio di acconciature e quello di conversazione in lingua inglese e francese, gestito da un’operatrice dell’agenzia “Obiettivo Lavoro”. A breve, per quattro ragazze, verrà avviato anche il laboratorio di informatica. Al pomeriggio ci sono poi i laboratori di multimedialità, musicoterapia, teatro, disegno, e una nuova proposta sulla scrittura creativa. Si stanno inoltre vagliando alcune proposte di volontari per l’attivazione di altri corsi: danza orientale, musica, tango argentino, legatoria…

 

Nell’I.P.M. si stampa anche un giornale?

Sì, da un anno, grazie al Progetto P.A.R.I. dell’agenzia esterna ForCoop finanziato con i fondi della Provincia. Il giornale si chiama Albatros, ed è realizzato con la consulenza di un giornalista e la presenza di un’operatrice dell’agenzia Ati. Raccoglie gli articoli prodotti dai ragazzi e dalle ragazze in alcune attività strutturate, come il laboratorio di informatica e l’attività di orientamento. È frutto anche di un consolidato raccordo fra la redazione e la scuola, che a volte diventa il punto di raccolta del materiale. Il giornale può diventare un utile strumento sia all’interno del sistema dei servizi e sia nell’interazione con la rete esterna.

 

Cosa ne pensa delle varie proposte di legge che vanno verso una giustizia minorile più repressiva (ad esempio sull’abbassamento dell’età imputabile e sulla soppressione dei tribunali per i minorenni)?

Per nostra fortuna il Parlamento ha, al momento, fermato con giudizio di incostituzionalità le proposte di legge di cui si parla. Questo non ci permette di stare fermi, coscienti che le proposte avanzate non sono solo il frutto di posizioni ideologiche, ma esprimono il pensiero di tante persone, che credono di risolvere il difficile impatto con giovani che delinquono non investendo in promozione e prevenzione bensì in più facili misure di restrizione.

Anche i cappellani degli I.p.m. hanno espresso in modo chiaro il loro dissenso facendo notare, tra l’altro, che «un sano approccio educativo o rieducativo se non esclude la punizione, è tuttavia ben consapevole della realtà e delle possibilità del carcere e perciò non mette l’enfasi su tempi lunghi di carcerazione, quanto piuttosto su un più corposo intervento educativo all’interno degli istituti. Ma soprattutto nel sostegno alla famiglia del minore, nell’opera delle comunità e nel rinforzo dei servizi sociali ed educativi dedicati ai minori presenti nei territori». Tuttavia a volte – leggendo alcune sentenze – mi viene spontanea una domanda: non è che il nuovo corso ampiamente proclamato sui media sta sfondando con prepotenza nelle aule dei tribunali? Eppure il dibattito tra i giudici minorili pare manifestare un’aperta contrarietà a una proposta di legge che «si basa sul tentativo di prevenire spaventando e di punire con la necessaria durezza ragazzi che già si comportano da adulti».

 

Ma davvero c’è un’emergenza legata alla cosiddetta criminalità minorile o sono solamente falsi allarmi amplificati dagli organi di informazione?

Anche qui la complessità del fenomeno non ammette semplificazioni. Tuttavia i numeri paiono contraddire chi parla di emergenza sulla criminalità minorile. L’altra sensazione è sul potere della piazza e dei media di fronte agli efferati delitti compiuti da adolescenti. Alcuni delitti familiari, o compiuti tra coetanei, hanno allertato un po’ tutti. Ma ci si è trovati soprattutto di fronte a una tendenziosità di certa informazione: la creazione ad arte di ruoli, la puntualizzazione e la scansione temporanea di alcune notizie piuttosto che altre… Si è avuta la netta sensazione di trovarsi di fronte a un progetto nemmeno troppo nascosto di cercare di condizionare, in qualche modo, le aule dei tribunali. Si è affermato che il processo avviene prima in piazza, alla televisione, sui giornali e poi nelle sedi costituite per diritto. Questo potrà magari essere quello che chiede la “gente” perché non si stufa di guardare, è curiosa, vuol sapere. Il nome degli imputati è sulla bocca di tutti, se ne parla come se si fossero instaurati con loro dei legami di familiarità. Tutti, in ogni caso, si sentono in diritto di emettere un giudizio.In effetti io mi chiedo spesso: dove può condurci la grancassa dell’allarmismo e la superficiale generalizzazione? Esattamente allo scopo opposto che pare prefiggersi: parlare di emergenza significa distogliere l’attenzione dal disagio dei giovani, dallo studio e dalla proposta di un intervento efficace a contrastarlo. La risposta di un’opinione pubblica influenzata pare sollecitare il politico a studiare e approntare misure più rigide di controllo sociale: si propone di abbassare l’età dell’imputabilità, oggi stabilita a 14 anni, ridurre lo sconto di pena che la legge prevede per gli autori di reato tra i 14 e i 18 anni, trasferire i minorenni detenuti nelle carceri per adulti al compimento del diciottesimo anno di età…

 

Quanti sono mediamente, ogni anno, i minori che hanno problemi con la giustizia e quanti di loro transitano nelle strutture detentive.

Solo uno studio comparato tra le denunce e gli ingressi negli I.p.m. permetterebbe una risposta esauriente. I dati del Ministero della Giustizia evidenziano che in Italia, nel primo semestre 2004, gli ingressi nelle strutture detentive per minorenni sono stati 838: 344 italiani (327 maschi e 17 femmine) e 494 stranieri (345 maschi e 149 femmine).

 

Quanti sono i ragazzi ristretti negli Ipm.

Al 30 giugno 2004, c’erano 227 italiani (218 maschi e nove femmine) e 287 stranieri (232 maschi e 55 femmine): un totale di 514 persone. Un’altra suddivisione fa riferimento ai minori in custodia cautelare a fine semestre 2004: 334, mentre in espiazione pena sono 180. Un ultimo dato rileva che, a fronte di 227 italiani, erano presenti due francesi, 118 ragazzi provenienti dall’Est europeo, ottanta dall’Africa, sette dall’America e dieci dall’Asia. Una comparazione di presenze nelle diverse regioni d’Italia conferma poi una tendenza costante negli anni, vale a dire una presenza rilevante di stranieri al nord, al contrario di quanto si verifica al sud e nelle isole.

 

 

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