|
"Per favore, non giudicate i ragazzi con le categorie degli adulti" Intervista a Franco Occhiogrosso, Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari. Che rilancia l’idea delle "strutture per giovani adulti", ripercorre a freddo la riforma Castelli sulla giustizia minorile, racconta com’è cambiata la devianza degli adolescenti nei suoi venticinque anni sul campo. E rivela: "A volte i ragazzi finiscono in carcere invece che in comunità solo perché al Ministero mancano i soldi".
(Realizzata nel mese di maggio 2004)
di Marino Occhipinti e Emanuela Zuccalà
A diciott’anni non si diventa grandi di colpo. E nemmeno a ventuno, in molti casi. Eppure le rigide gabbie della giustizia separano nettamente adolescenza e piena maturità: istituti penali minorili da un lato, carceri per adulti dall’altro. "La fascia d’età tra diciotto e venticinque anni dovrebbe invece ricevere un trattamento autonomo: la fase evolutiva non finisce a diciotto anni. Perché non costruire un terzo genere di strutture, simili agli istituti per i minorenni, che accolgano giovani adulti, sia quelli puniti per reati commessi da minorenni, sia quelli che delinquono dai diciotto ai venticinque anni? Gioverebbe anche ai ragazzi più piccoli, che spesso dietro le sbarre convivono con giovani che già hanno lunghe storie di criminalità alle spalle". La proposta arriva da Franco Occhiogrosso, Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari e tra i più fermi oppositori della riforma Castelli sulla giustizia minorile.
Lei è giudice minorile da venticinque anni. Come ha visto cambiare la criminalità fra i più giovani? Profondamente, così com’è cambiato il Paese. Ma in Italia la criminalità minorile non è clamorosa nei numeri. Una ricerca di qualche anno fa faceva un confronto europeo: su mille ragazzi da quattordici a diciott’anni, in Francia la devianza ne riguardava 43,5, in Germania 81,9, in Inghilterra 33 e in Italia solo 9,7. Vent’anni fa la devianza minorile riguardava le periferie, i ragazzi con famiglie inadeguate. Oggi è diverso: non si parla più di devianza ma di devianze.
C’entra quello che qualcuno definisce il "malessere del benessere"? Per certi reati sì, ma sono state individuate sei categorie di devianze minorili. Accanto a quella "tradizionale", dei giovani di periferia, ci sono i ragazzi della mafia, soprattutto al Sud. Non sono necessariamente inseriti in gruppi criminali, basta che vivano la subcultura mafiosa: stare dalla parte del violento, seguire i principi dell’omertà e negare quelli del vivere sociale. Un modo di ragionare che si diffonde nella media borghesia. La terza categoria è quella dei ragazzi stranieri, arrivati in Italia negli anni 90: nomadi specializzati in furti d’appartamento e nordafricani, albanesi e dell’Est che spacciano droga. Il quarto modello di devianza minorile, invece, non è sociopatico (non nasce cioè da contesti disagiati): si sviluppa dal "malessere del benessere", appunto, da una società opulenta che si scopre povera di valori, da una media borghesia che ha smarrito il senso dei legami familiari. Oggi l’alto numero dei divorzi contribuisce alla perdita dell’identità familiare, mentre il consumismo e la cultura del lavoro-lavoro-lavoro tolgono attenzione ai figli. A un certo punto si scopre che i nostri ragazzi hanno profanato un cimitero in una serata brava (è un caso che mi è capitato): loro non sanno spiegare perché, e i genitori cadono dalle nuvole. Le ultime due categorie riguardano il bullismo nelle scuole e le violenze negli stadi: devianze intermedie tra le prime e il "malessere del benessere".
Ma i "bravi ragazzi" che delinquono fanno più paura degli altri… È lo stesso disagio da cui nascono vicende come quella Novi Ligure, o le ragazze di Chiavenna che uccisero una suora, o quelli che tirano massi dai cavalcavia. Fatti che spaventano perché non si arriva a capirne il perché. Dal punto di vista numerico questa nuova devianza non è consistente come quella tradizionale, ma è così clamorosa che un solo episodio crea più allarme di mille furti o scippi. Lo scippo ha una logica, quella del guadagno; quei delitti sono invece l’altra faccia della società opulenta. E questo si collega alla riforma proposta dal ministro Castelli: lui dice che i tribunali minorili, nelle loro competenze civili, sono invasivi per la famiglia. In realtà è il contrario: la famiglia oggi non ha sostegni. Per prevenire le crisi e quindi una certa devianza minorile, occorrono programmi seri di preparazione e aiuto per gestire i rapporti nei casi di separazione.
Cosa si potrebbe fare per migliorare la giustizia minorile, affinché non sia non solo repressiva ma vada verso un reale recupero sociale? La prevenzione è fondamentale e non si fa: inserire équipe psicologiche e sociologiche nelle scuole, oltre a insegnanti più preparati a cogliere i segni del disagio. Prendiamo gli abusi sessuali, che nell’ottanta per cento dei casi avvengono in famiglia: se gli insegnanti fossero in grado di intercettare certi segnali, si farebbe vera prevenzione. La scuola invece ignora per non aver fastidi, per non denunciare. Ci vorrebbe un forte collegamento dei servizi sociali con la pubblica istruzione.
E a posteriori, quando il disagio è già esploso attraverso un reato, qual è la strada da seguire? Le carceri minorili riescono nel reinserimento sociale? Ci vorrebbe una riforma del diritto penitenziario minorile, è un problema di volontà politica. Con la legge del 1975 sul carcere per adulti, si era detto che le norme sarebbero valse per i minorenni fino a un codice specialistico per loro. Lo aspettiamo da trent’anni. Per certi ragazzi il carcere non serve. In alcuni casi, quando la pena diventa definitiva, il servizio sociale dovrebbe poter chiedere al Pubblico Ministero di sospenderne l’esecuzione per un mese, così da elaborare un progetto di messa alla prova. E se questo va a buon fine, il giudice potrebbe poi prevedere un affidamento con un programma di recupero, oppure una semi-detenzione in casa. Tenendo il carcere solo per i casi estremi, il sistema funzionerebbe meglio. Ma voi saprete che il ministero della Giustizia dice agli uffici periferici di non disporre troppi collocamenti in comunità perché non ci sono soldi. Non è l’esecutivo al servizio della realizzazione della giustizia, è la mancanza di soldi che frena le misure a tutela dei minori…
Dopo il delitto di Novi Ligure, nel febbraio del 2001, l’opinione pubblica si indignò di fronte alla possibilità che ai due imputati – invece di una condanna dura ed esemplare – fosse concessa la messa alla prova. Di che cosa di tratta e quale percentuale di successo registra? La percentuale di fallimenti è modesta, anche perché si applica in pochi casi e con ragazzi che davvero abbiano dimostrato un cambiamento. Prima che l’imputato o il suo avvocato chiedano la messa alla prova, i servizi sociali valutano sia il contesto familiare del ragazzo, sia l’autenticità della sua volontà di maturare. Una volontà non solo dichiarata ma oggetto di comportamenti coerenti.
Come funziona esattamente la messa alla prova? Si valuta la personalità per un periodo da uno a tre anni, a seconda della gravità del reato, durante i quali il ragazzo sta a casa e segue un progetto di recupero che può comprendere la scuola, il lavoro e alcune prescrizioni. La messa alla prova è prevista anche per gli omicidi, perché si presuppone che un ragazzo in età evolutiva sia in grado di cambiare qualunque cosa abbia commesso. Il giudice ha un’ampia discrezionalità: se non vede ragioni per escludere la messa alla prova, incarica i servizi – che non l’abbiano già fatto prima – di svolgere una relazione psicosociale. E quando il processo si celebra a distanza di anni dal reato, l’evoluzione può essere già stata profonda: se da tempo il ragazzo non commette reati, oppure lavora, ha trovato la ragazza, ha avuto un figlio, la messa alla prova è quasi obbligata per realizzare il suo recupero. Ad altri giovani, al contrario, capita di inserirsi in gruppi criminali e di commettere ulteriori reati: qui mancano le condizioni per una messa alla prova. Ma non è mai un campo dai contorni così definiti: alcuni ragazzi, pur gravati da diversi reati, a un certo punto invertono la rotta. Basta un evento, un incontro, una riflessione. Concedendo loro la messa alla prova, e ottenendo buoni risultati, si può richiederla anche negli altri processi pendenti.
Per gli adulti, seppure per certi tipi di reati, sarebbe un’utopia pensare a una misura simile? Io non vedrei controindicazioni. Già oggi, per i reati di competenza dei giudici di pace, è previsto che si possa sospendere il processo e tentare una conciliazione, avvalendosi di una mediazione. L’imputato può impegnarsi in una riparazione del danno e, se la vittima si dichiara soddisfatta, si estingue il processo. Si potrebbe allargare questa prospettiva ad altri reati, ma ci vorrebbe un atto di coraggio. Pensate alla vicenda di Erika e Omar e al clamore dei media: si minacciava il rischio che, con una messa alla prova, i due venissero subito liberati. È vero che i giudici devono prescindere dal sentire dell’opinione pubblica, ma è anche vero che certi fatti possono suonare così gravi da spingere perfino il legislatore a cambiare le cose. Quello era uno dei momenti in cui la giustizia minorile avrebbe potuto mutare. E infatti la riforma Castelli è arrivata di lì a poco.
Perché, secondo lei, i delitti commessi dai minori scatenano sconcerto e morbosità nei media e nella gente più dei reati degli adulti? Perché da sempre l’adolescente suscita curiosità, paura e diffidenza. In passato non c’era differenza di sanzioni tra maggiorenni e minorenni: un secolo fa il ragazzino sorpreso a rubare poteva essere impiccato. L’imputabilità a partire dai quattordici anni, e la diversa applicazione delle sanzioni per i minori, sono conquiste del Novecento che nascono dallo sviluppo del sapere minorile (la neuropsichiatria infantile, la psicologia dell’età evolutiva). È un sapere colto, delle scienze, che non coinvolge l’opinione pubblica. Ecco perché la gente, e la stampa, partono dallo stereotipo del bambino buono e innocente, che quando sbaglia dà maggiore scandalo. Negli ultimi anni, quello di Novi Ligure è stato l’unico matricidio-fratricidio commesso da un minore. Nello stesso periodo, ogni due mesi, un adulto uccideva il figlio o il coniuge: notizie sparate per un giorno e subito sepolte. Fossero state delle nuove Erika, si sarebbe gridato allo scandalo a lungo.
Torniamo alla riforma proposta dal ministro Castelli che, prima del no del Parlamento, ha provocato proteste e vasti movimenti di opinione. Cosa sarebbe successo se fossero stati aboliti i tribunali minorili per sostituirli con apposite sezioni presso i tribunali ordinari? Inizialmente si voleva abolire solo la competenza civile dei tribunali minorili, accorpandola ai tribunali ordinari e lasciando ai primi solo il penale. Noi ci siamo opposti drasticamente: non si può scindere la sfera dei minorenni nelle categorie degli adulti, civile e penale. Per loro, il disagio rappresenta spesso l’altra faccia delle problematiche familiari: la mancanza di cure nell’infanzia può produrre devianza nell’adolescenza. Attribuire il civile a un giudice e il penale a un altro, significava applicare un canone adultocentrico al mondo minorile. Così si giunse alla seconda fase della riforma, quando Castelli propose che alle sezioni ordinarie della famiglia si accorpasse tutta la competenza minorile, penale e civile. Era grave la pretesa di attuare la riforma a costo zero: i 29 tribunali minorili si sarebbero trasferiti non si capiva presso quali tribunali ordinari, che sono 150; il personale del minorile sarebbe stato forse azzerato; i giudici non sarebbero stati specializzati, contrariamente a quanto da sempre suggerisce la Corte Costituzionale. Uno scempio. Ecco perché ci siamo opposti. Siamo pronti a pensare a un accorpamento dei temi famiglia e minori, ma su un altro piano, con una riforma che preveda fondi per sedi adeguate e la formazione del personale.
Tra i cambiamenti proposti c’era anche l’abolizione dei giudici onorari, gli esperti presenti nei collegi giudicanti per i minori. Che ruolo svolgono queste figure "laiche" e perché sono importanti? Sarebbe stato un altro scempio. La logica dovrebbe portare all’esatto contrario: inserire i giudici onorari anche in tema di separazione e divorzi. Io credo che ogni materia attinente al vissuto familiare, dove non si cercano colpe ma si tentano nuovi assetti per il futuro, debba essere nelle mani di professionalità interdisciplinari. Il giudice interpreta e applica le norme; l’integrazione di saperi pedagogici, psicologici e sociologici permette una decisione matura. Ecco a cosa servono i giudici onorari.
Tempo fa si dibatteva della possibilità di abbassare a dodici anni la soglia di punibilità. Cosa pensa di questa ipotesi? La nostra contrarietà su questo punto deriva dalle ricerche: una in particolare, condotta dal Centro nazionale per l’infanzia e l’adolescenza di Firenze, attesta che i reati commessi dagli infraquattordicenni sono sciocchezze in termini numerici. Reati ripetitivi, commessi soprattutto da ragazzi nomadi. Il problema è sociale, non penale: l’integrazione di queste minoranze e dell’inserimento scolastico dei loro figli.
È vero che la recidiva minorile è piuttosto alta? Da che cosa è determinata, secondo lei, un’elevata percentuale di fallimento dei programmi di reinserimento, tenuto conto delle discrete risorse umane ed economiche degli Istituti penali per i minorenni? La recidiva del minorenne è più alta per una caratteristica che, di nuovo, lo distingue dall’adulto: l’adolescente è inserito nel gruppo dei pari, difficilmente commette il reato da solo. Quelli che noi consideriamo i suoi correi sono gli amici di quartiere. Alcuni ragazzi che lasciano la scuola passano la giornata nell’ozio, e i loro riferimenti diventano i coetanei nella stessa situazione: emarginati dalla scuola, non ancora inseribili in un’attività lavorativa per questioni di età, che vivono come sospesi, senza spazi né possibilità di inserimento. Diventano potenzialmente devianti. Il reato è il sintomo di un disagio dal quale non è l’imposizione di un giudice che può tirarli fuori. Mentre gli adulti, essendo maturi, hanno una volontà specifica per ogni singolo reato, la prospettiva esistenziale dei minori è diversa: si influenzano a vicenda e si oppongono ai grandi. Anni fa mi è capitato un episodio sintomatico: un ragazzo aveva commesso vari reati di una certa consistenza e all’udienza, nella logica di fare una messa alla prova, io gli dissi che avrebbe dovuto lavorare, stare bene con la sua famiglia e non incontrare i suoi correi. Lui aveva accettato tutto, ma arrivati qui mi disse: "Giudice, ma tu mi vuoi togliere tutti gli amici?". Per lui erano i compagni con cui si era divertito ed era andato anche a rubare. E io ero il cattivo che voleva limitargli la socializzazione. È un altro esempio di quanto sia scorretto giudicare gli adolescenti con le categorie degli adulti.
|