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A tu per tu con Giotto
(Realizzata nel mese di ottobre 2002)
A cura della Redazione
Dalla manutenzione del verde, alla gestione notturna della Cappella degli Scrovegni, alla produzione di raffinati manichini in carcere: tanta strada fatta e tanta fantasia nel lavoro della cooperativa Giotto
L’attività più recente della cooperativa "Giotto" è la produzione, nei capannoni della Casa di Reclusione di Padova, di manichini per negozi di moda, belli, eleganti, con certificato di qualità, ma sono tanti i settori nei quali la cooperativa è impegnata. Ne abbiamo parlato in redazione con Nicola Boscoletto, Presidente della "Giotto", e Sandra Boscarato, psicologa.
Avete un’infinità di risorse, qui dentro, allora perché non utilizzare i detenuti per questo lavoro?
Com’è nata la cooperativa e di cosa si occupa? Nicola Boscoletto: La cooperativa "Giotto" nasce nel 1986, su iniziativa di un gruppo di laureandi e neo laureati in scienze forestali e in agraria e di qualche perito agrario. Dal 1986 al 1990-91 abbiamo lavorato nel settore del verde progettando, realizzando e facendo manutenzione di parchi e giardini. Nel 1990-91 c’è il primo incontro con il mondo del carcere e, parallelamente, anche con quello dell’handicap: da allora il carcere e l’handicap (inteso come invalidità fisica o psicofisica) si sono, in qualche modo, sempre incrociati con la nostra storia. Nel 1991 partecipiamo infatti ad una gara, indetta dall’Amministrazione penitenziaria, per la pulizia e la manutenzione delle aree verdi interne alla Casa di Reclusione di Padova. Passano alcune settimane e non abbiamo notizie dell’esito della gara. Per noi sarebbe stato soltanto uno dei tanti lavoretti, ma in quelle settimane ci viene un’idea: in carcere ci sono centinaia di persone che non fanno niente, e lavorare sul verde è una cosa talmente semplice… ma perché non se lo fanno loro? Abbiamo bussato, siamo venuti in carcere ed abbiamo detto al direttore: "Questo va anche contro il nostro interesse, perché se vinciamo la gara, veniamo, facciamo il lavoro e ci pagate. Ma voi avete un’infinità di risorse, qui dentro, allora perché non utilizzare i detenuti per questo lavoro?". Abbiamo così organizzato un corso di giardinaggio, coinvolto i detenuti e siamo riusciti a portarlo a termine, poi abbiamo presentato l’elenco delle attrezzature indispensabili per svolgere il lavoro di manutenzione del verde e l’amministrazione le ha acquistate. Così cominciò questa esperienza, che è una goccia nel mare, perché è vero che non ha dato da lavorare a chissà quante persone, però a partire da quel corso di giardinaggio l’attenzione e la sensibilità rispetto al carcere sono cresciute: abbiamo inserito nella cooperativa persone in articolo 21, in semilibertà ed in affidamento, principalmente con lo scopo di fungere da rompighiaccio, perché la cosa più difficile, per un detenuto che si accinge ad uscire, è di iniziare a svolgere un primo lavoro. Questa fase dell’inserimento è quella più difficile: il lavoro bisogna trovarlo, certificarlo, avere il libretto di lavoro, dei soldi, insomma formarsi una base solida, in modo che dopo due-tre anni la persona abbia il necessario per potersi avvicinare alla libertà con sufficiente sicurezza. Il nostro scopo è, una volta rotto il ghiaccio per alcuni detenuti, l’anno dopo cercare di aiutarne altri, permettendo loro di presentarsi sul mercato del lavoro con delle referenze, che noi forniamo, ovviamente, se hanno saputo sfruttare questa occasione nel miglior modo possibile. Poi una persona è stipendiata e, quindi, attraverso quelle economie che ognuno può fare, è in grado di non dover partire proprio da zero, e non è poco.
Rendere possibile a più persone un percorso di inserimento
Quindi la vostra cooperativa non dà un’occupazione definitiva, ma un lavoro che rappresenta un po’ il passaggio verso altre soluzioni? Noi abbiamo, come mission specifica, proprio quella di rendere possibile a più persone un percorso di inserimento. E questo è il primo motivo. Poi ce n’è un altro, più di tipo psicologico: se una persona ha finito la pena, ma la mattina arriva al lavoro e si trova in squadra con altri detenuti, continua a restare in quel contesto lì, si sente sempre legata alla sua esperienza di detenzione. Invece, esaurito un certo periodo, ha bisogno di essere in un contesto completamente nomale, ha bisogno di giocare la propria immagine, di rilanciarsi rispetto al mondo, all’impresa, alle attività. Riteniamo utile che ci sia un distacco, insomma.
Tendenzialmente diamo lavoro a detenuti, non a ex detenuti
La cooperativa dà lavoro solo a persone in misura alternativa, non ad ex detenuti? Tendenzialmente diamo lavoro solo a detenuti. Però se ci sono ex detenuti che si trovano in una situazione di disagio particolare, ad esempio perché non trovano lavoro, allora, in qualche maniera, magari per sei mesi, un anno, li possiamo assumere.
Il modello che ci ha descritto è molto centrato sulle esigenze delle persone. Ma le "esigenze dell’azienda", chiamiamole così, non potrebbero essere, invece, di natura diversa? Non potrebbe essere più conveniente, ad esempio, tenere in cooperativa una persona che si è formata professionalmente? Noi, come tutte le cooperative sociali, abbiamo delle spese generali altissime, perché non facciamo in tempo a formare una persona che già dobbiamo ripartire da zero con un’altra. Ma questa, come abbiamo detto prima, è la mission che ci siamo dati, quindi, in linea di massima, non teniamo in cooperativa nemmeno i detenuti più bravi, salvo casi eccezionali.
Gli inserimenti lavorativi di detenuti sono una trentina
Quanti sono, attualmente, i detenuti che lavorano da voi, considerando sia quelli che operano all’interno del carcere, sia quelli all’esterno in misura alternativa? Gli inserimenti lavorativi, tra dentro e fuori, attualmente sono una trentina, 13 dei quali all’interno della Casa di Reclusione.
Contratto Nazionale Collettivo di Lavoro delle Cooperative sociali
Come funziona il lavoro all’interno del carcere: che tipo di assunzioni fate? esiste una selezione del personale? come viene calcolato lo stipendio? Anche qui dobbiamo fare un po’ di storia. Col passare degli anni ci siamo resi conto che tanto era grande la necessità di uno sbocco lavorativo all’esterno, quanto era enorme la necessità di iniziare un lavoro già da dentro, e non era una necessità contingente: solo così si potevano anticipare i tempi per ottenere quel famoso "biglietto da visita" per cui uno, quando esce, lo fa avendo già lavorato e avendo dei soldi per affrontare, in qualche modo, la vita. Per quanto riguarda le assunzioni, anche per l’interno, come del resto per l’esterno, abbiamo sempre optato per una regolare assunzione. Come partenza, d’accordo con l’Amministrazione penitenziaria, siccome non era ancora uscito il regolamento attuativo della legge Smuraglia, abbiamo usato il contratto dei Decreti Interministeriali, quello ufficiale del carcere. In questi ultimi mesi, non appena le cose si sono definite bene, abbiamo applicato il Contratto Nazionale Collettivo di Lavoro delle Cooperative sociali, che vuol dire tutti i contributi, ferie, malattia, tredicesima, infortunio, maternità per le donne.
Quali sono i settori nei quali la "Giotto" svolge le proprie attività? Siamo partiti col verde e fino al 1992 questo è rimasto il settore prevalente. L’incrocio con l’handicap ci ha portato a diversificare l’attività, perché ci trovavamo di fronte a situazioni diverse: magari c’era un ragazzo che poteva fare benissimo la manutenzione del verde e c’era quello che non poteva, ma poteva andare bene nell’inserimento dei dati, nella gestione di un parcheggio, etc. Oggi si parla molto di global service, perché le amministrazioni non vogliono tanti interlocutori ma ne vogliono uno che faccia tante cose e noi, in piccolo, siamo arrivati a questa idea di impresa global service, seppure con un percorso completamente diverso, nel senso che abbiamo cercato nicchie di mercato diverse per combinare le diverse necessità di manodopera con le residue capacità lavorative diverse che ogni ragazzo poteva avere. Alla cura del verde abbiamo aggiunto le pulizie civili ed industriali, il settore ecologico, ci siamo fatti tutte le categorie dei rifiuti ed operiamo anche nell’ambito della raccolta differenziata. Abbiamo personale che svolge i lavori più diversi, dalla semplice apertura, chiusura e custodia dei musei e delle biblioteche, dalla pulizia dell’asilo nido all’ultimo acquisto di quest’anno, che ci ha fatto molto piacere, che è la gestione serale dell’apertura della Cappella degli Scrovegni: dalle 19 alle 22, quindi cassa, guardaroba, entrata, cortile, etc.. La battaglia che abbiamo fatto in tutti questi anni, e che solo oggi comincia a darci più soddisfazioni, è stata l’abbinare all’aspetto sociale anche l’aspetto professionale: perché si trova anche l’amministrazione che ti dà la commessa perché fai del bene, perché inserisci handicappati o comunque persone svantaggiate, però se il lavoro non lo fai bene l’anno dopo ti ringraziano… e basta. Quindi, in questi anni abbiamo cercato di abbinare le due cose con le nuove normative, la "626" (sicurezza sul lavoro n.d.r.) e la qualità (abbiamo avuto la certificazione ISO 9000), e questo è importante perché qualifica chi lavora nella cooperativa. Poi, che sia per scopare un cortile o per restaurare un dipinto, una professionalità occorre, questo è fuori discussione, mentre la dignità del lavoro la fa sempre la persona che lavora, non la fa il tipo di lavoro.
Bisogna rispondere anche con un supporto e un aiuto
I detenuti che inserite diventano soci della cooperativa? Hanno un contratto di formazione? Insomma, qual è il rapporto che si stabilisce tra il lavoratore-detenuto e "l’azienda"? Gli inserimenti all’esterno partono con un periodo di pre-inserimento lavorativo, che non è un contratto, è un accordo che vuol garantire il detenuto: oltre a tutti gli oneri assicurativi, gli vengono dati circa 500 euro, più un pasto giornaliero, che equivale ad altri 100-150 euro. Questo, pur tenendo conto che i primi mesi sono di formazione, cioè è più quel che la persona riceve di quel che può dare. In altri casi, con situazioni analoghe, vengono dati 150 euro al mese, o un rimborso spese, ma noi abbiamo voluto dare più garanzie della norma, perché per un detenuto fare tre mesi con 150 euro vuol dire una cosa, farli con 500, oltre all’assicurazione, al pasto pagato, etc., è un’altra cosa. Noi diciamo sempre che la persona non sta facendo volontariato ma, siccome prende i soldi per quel che fa, deve rispondere lavorando: in maniera diversa, nel periodo di pre-inserimento, in maniera più precisa dal momento in cui si è ambientato, ha preso un po’ di misure, ha imparato. Abbiamo cercato di dare sempre di più, perché per noi il principio base è sempre stato quello per cui la persona, in qualsiasi periodo della propria esistenza, ha tutto il diritto di poter ripartire e rifarsi una vita. Questa non deve essere solo un’enunciazione teorica, ma bisogna rispondere anche con un supporto e un aiuto, perché senza una lira non vai da nessuna parte. Non poniamo come condizione di partenza il fatto di essere soci della cooperativa, perché l’essere soci vuol dire condividere tutto quanto, soprattutto lo scopo sociale che ci si dà, e noi vogliamo invece che questo sia preservato, ce lo consente proprio lo Statuto: se poi qualcuno comincia a condividere la nostra mission e, in qualche maniera, vuol farsi portatore di uno spirito sociale di questo tipo, si può fare socio senza alcun problema.
L’inserimento viene programmato sulla base delle caratteristiche del lavoro, e tutto questo si deve incontrare con le caratteristiche delle persone da inserire
Ci piacerebbe sapere come siete strutturati. Qui con noi oggi, per esempio, c’è la vostra psicologa, Alessandra Boscarato, ma noi sappiamo che non tutte le cooperative hanno uno psicologo per seguire meglio il personale… ci potete spiegare quali professionalità sono coinvolte nella vostra attività? Nicola Boscoletto: Un’impresa normale se ne frega dell’Ufficio sociale, se ne frega a volte anche della qualità… a meno che non sia finalizzata solo ed esclusivamente ad un ritorno economico; se ne frega di un certo controllo di gestione, di analisi, di valutazione, etc.. Nella nostra cooperativa, complessivamente, siamo 150 - 160 persone e, di queste, circa una ventina sono coinvolte a vario titolo nella cura di questi aspetti, dal responsabile tecnico, al capo cantiere, alla parte amministrativa, all’Ufficio sociale.
Alessandra Boscarato (psicologa della cooperativa Giotto): La direzione della cooperativa Giotto aveva da tempo pensato di individuare uno spazio e una figura specifica deputata ad occuparsi del personale cosiddetto svantaggiato. L’Ufficio sociale è composto da me - che ho la qualifica in psicologia del lavoro, come formazione di base - ma cosa ancora più importante è che io sono in stretto contatto con le figure tecniche, perché l’inserimento viene programmato sulla base delle caratteristiche del lavoro e, dall’altra parte, tutto questo si deve incontrare con le caratteristiche delle persone da inserire. E le caratteristiche individuali sono le più eterogenee. Prima si parlava del settore dell’handicap, ma è in costante aumento la malattia psichica: noi lavoriamo coi servizi territoriali per cui molti inserimenti di persone - e persone giovani - con disturbi psichiatrici, vengono fatti concordandoli in équipe, con i tecnici, con la direzione, con gli uffici amministrativi.
Anche in carcere si possono portare lavori che abbiano un po’ di creatività
Come si è avviata la produzione dei manichini? Ci fa un po’ di storia di com’è nata l’idea e come si è sviluppata? Il primo obiettivo che ci siamo posti è stato quello di lanciare una sfida, cercando un lavoro che non fosse la semplice catena di montaggio, ma che avesse una creatività e che fosse un lavoro di nicchia: abbiamo provato con questa attività, che originariamente all’esterno era portata avanti a livello artigianale e che praticamente era morta, perché i costi erano più dei ricavi. Abbiamo fatto due conti e abbiamo pensato: "Se finiamo in pareggio e avanzano mille lire, il nostro scopo è raggiunto. L’importante è che il lavoro possa continuare". Così abbiamo sviluppato questo progetto e siamo partiti, cercando di sfondare con questo prodotto: per noi è stato importante, perché ha dimostrato che anche in carcere si possono portare certi tipi di lavoro e trovare le risorse umane adatte. Abbiamo poi voluto certificare con l’ISO 9000 il manichino prodotto dai detenuti, e ce l’abbiamo fatta: a giugno abbiamo ottenuto la certificazione, credo sia fra le prime, a livello nazionale, per un articolo prodotto da detenuti all’interno di un carcere. I manichini vengono affidati ad un rivenditore che li piazza in tutto il settore dell’alta moda e nelle boutique di maggior grido, sia a livello nazionale sia internazionale, perché è un prodotto molto particolare, che si può prestare a mille variabili, cosa che un manichino fatto in serie non consente.
Il nostro obiettivo era quello di coinvolgere più persone possibili
Il fatto che i detenuti del reparto manichini lavorino part time, tre - quattro ore, cosa positiva per noi, perché permette di impiegare più persone e lascia loro il tempo di dedicarsi anche a una attività di tipo culturale, rappresenta per voi dei costi aggiuntivi, o va bene lo stesso? A livello di costi aggiuntivi direi di no, sono solo marginali, anche se più un dipendente lavora e meno costa, però il nostro obiettivo era quello di coinvolgere più persone possibili e non appiattirle solo sul lavoro.
Quello tra la cooperativa e i detenuti che ci lavorano deve essere un rapporto leale e sincero, e la battaglia dovete farla voi
Rispetto al lavoro dei detenuti, quali sono stati, in questi anni, i punti critici, le cose che non hanno funzionato: sarebbe importante inquadrare le problematiche che nascono nel dare lavoro ai detenuti… Tranne casi eccezionali, a una persona che esce in misura alternativa va bene tutto: non guarda il tipo di lavoro, né quanto guadagna. È concentrata sul fatto di passare da una condizione detentiva ad una condizione chiaramente migliore, e questo pesa, nel senso positivo del termine. Dopo un primo periodo, c’è un allentamento di questa novità del cambiamento, quasi che uno si lasciasse tutto alle spalle. Io dico sempre che bisogna lasciare alle spalle quel che è giusto lasciare, però non bisogna commettere l’errore di dimenticare il percorso, il tipo di condizione dal quale si arriva e ciò che si è ottenuto. Purtroppo questo, ad un certo punto, comincia a venire meno: uno inizia a sentirsi meno soddisfatto di quello che ha, subentrano anche altre urgenze e bisogni. Allora c’è chi si arrangia da sé, magari consultandosi con altri detenuti, che sono usciti prima di lui, per cose banali: la macchina, l’allargamento del permesso, vedere la fidanzata, andare in piscina e, rispetto a tutte queste cose, c’è come una non fiducia di fondo, per cui uno mette in moto dei meccanismi che poi gli nuocciono. Noi gli diciamo di stare calmo: "Siamo arrivati qui, è un bel passaggio, qual è il tuo desiderio adesso? Poter vedere la fidanzata, stare un po’ assieme a lei, poter avere il motorino, coltivare qualche relazione e magari andare in palestra la sera? Parliamone o, meglio, ci sono degli strumenti: gli educatori, se sei in articolo 21, dalla semilibertà in poi c’è il CSSA, e c’è l’Ufficio sociale nostro che ti dà qualche indicazione, insomma, mettiamo ordine rispetto alle esigenze giuste che tu hai". Quello tra la cooperativa e i detenuti che ci lavorano deve essere un rapporto leale e sincero, e la battaglia dovete farla voi, perché ogni volta che qualcuno spreca una possibilità e crea un disagio, a parte noi che dobbiamo perdere tempo e ripartire, crea un danno agli altri detenuti: a volte sono state rinchiuse persone che non c’entravano niente. È una battaglia culturale da fare.
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