Incontro con Riccardo Rebuzzini

 

Incontro con Riccardo Rebuzzini, Presidente 

del Consorzio "Nova Spes", che dà lavoro 

a circa 200 detenuti nelle carceri della Lombardia

 

(Realizzato nel mese di luglio 2001)

 

Ristretti

Quello che ci interessa è fare un po’ il punto sulla situazione del lavoro nelle carceri. Quella della Nuova Spes è una delle esperienze più importanti in questo campo, e noi vorremmo avere più informazioni possibile, ma conoscerne anche i punti critici. In carcere si tende infatti a fare dei santini di quello che viene fatto e che funziona, ma questo non è molto d’aiuto per gli altri che vogliono tentare la stessa strada, perché se non sai i punti critici e le difficoltà ripeti errori che, forse, potresti evitare. Per cui, quando noi parliamo di realtà particolarmente significative, ci piace avere degli interlocutori che ci raccontano le loro attività e nello stesso tempo ci fanno notare le difficoltà e i punti critici, in modo da fare tesoro della loro esperienza.

Volevamo poi fare il punto anche sulla legge Smuraglia che prevede sgravi fiscali per il lavoro in carcere, e sapere se ci sono prospettive di sviluppo della Nova Spes: se stanno nascendo altre esperienze analoghe e anche il percorso da seguire per lavorare in quel senso.

Riccardo Rebuzzini

Per quello che riguarda la prima domanda (cosa c’è e cosa conosco del lavoro nelle carceri) conosco abbastanza bene la realtà lombarda, perché Nova Spes lavora in quasi tutte le carceri della Lombardia, a parte Brescia. Che cosa ci sia di lavoro e, quando parlo di lavoro, non parlo del lavoro "classico", la manutenzione, lo "scopino", ma di lavoro portato dall’esterno. Lavoro inteso, quindi, come rapporto di lavoro regolare, con contratto di lavoro regolare, con stipendio regolare e puntualmente pagato. Di queste cose credo ce ne siano poche, i numeri che conosco sono questi: sono circa 1.200, in tutta Italia, le persone detenute che lavorano per imprese esterne.

Noi rappresentiamo circa il 10% del lavoro e siamo l’azienda più grossa. Questo non è un merito, purtroppo è una constatazione. Dentro le carceri lavorano per noi in 120, il resto è fuori: in tutto siamo più di 200, comprese 37 persone in semilibertà. In più, abbiamo all’esterno una rete di cooperative: questa scelta è stata dettata dalla necessità di avere un polmone che potesse far fronte agli eventi particolari (l’anno scorso, per esempio, c’è stato un periodo di fermo nel lavoro in carcere).

In estate poi ci sono spesso situazioni d’incertezza: quando cominciano le vacanze, non sappiamo mai se potremo lavorare, perché ci sono i turni degli agenti. Un lavoro come il nostro, che è continuo, ha bisogno di essere svolto anche durante il mese di agosto e, se non ha polmoni all’esterno, rischia di perdere i clienti: non possiamo certo dire che ci fermiamo perché gli agenti vanno in ferie.

Ristretti

È un po’ assurdo che non riescano a garantire la continuità di un lavoro così importante; qui a Padova almeno siamo riusciti ad ottenere che quest’area, dove si svolgono le attività culturali e di informazione, rimanga aperta tutta l’estate.

Riccardo Rebuzzini

Questo è uno dei più critici, tra i nodi critici. Da quello che ho visto poi in fatto di lavoro in carcere, in Lombardia so che ci sono delle esperienze piccole, non tanto in termine di significato, ma forse in termini numerici. Non c’è molta voglia, da parte dell’imprenditoria privata, di entrare dentro le carceri. Non credo sia solo un problema di soldi. La Smuraglia è una legge senza decreti applicativi, non può essere applicata dall’INPS quindi è come se non ci fosse: è un bel "momento", in cui ci siamo detti "come sarebbe bello se fosse…", però non è. Comunque, non è certamente lo sgravio fiscale, oggi, l’attrattiva per l’imprenditore. Non credo che l’imprenditoria privata italiana sia in condizioni tali da aver bisogno di quello sgravio fiscale. C’è tanta ricchezza, oggi.

Ristretti

Quali sono le difficoltà maggiori che l’imprenditore trova nel portare le proprie attività in carcere?

Riccardo Rebuzzini

È soprattutto la carenza di flessibilità… non voglio diventare banale: basta leggere i giornali, questa è la richiesta che gli imprenditori mettono sempre sul piatto. La "flessibilità" (ed a questo termine voglio dare il significato più ampio possibile), anche per noi, dentro le carceri, è cosa importantissima. Flessibilità vuol dire la capacità di tarare le cose anche secondo le esigenze del lavoro: dico "anche", perché sono ben consapevole e ben rispettoso di quelle che possono essere le esigenze della sicurezza.

Però, se una persona normale, in condizioni di lavoro normale, lavora otto ore, non riesco a capire perché dentro una situazione carceraria dove il tempo, oltretutto, c’è in misura addirittura esagerata, possa lavorare solo quattro ore, di fatto, perché ci sono i turni degli agenti, o c’è la mensa, o non c’è la possibilità del cambio.

Oggi come oggi, con questa benedetta o maledetta globalizzazione, le consegne del prodotto vanno fatte velocissimamente: anche il cliente che sta dall’altra parte del mondo ha bisogno d’avere certezze sui tempi. Credo che, oggi, il carcere non possa offrire all’imprenditore una certezza sui tempi. Questa cosa non è un costo diretto, il pezzo prodotto non costa di più, ma si tratta di un costo indiretto difficilmente quantificabile, che varia nelle diverse situazioni.

Se il carcere è piccolo, i tempi sono più brevi; se è grande, ci sono maggiori difficoltà. Ma i tempi di consegna variano anche in rapporto alla tipologia di lavoro, perché non tutti i lavori possono essere facilmente trasportati: se faccio dei lavori di meccanica, ho bisogno di un grosso camion che entra, con i suoi tempi e le sue necessità. Se, invece, entro con un dischetto, perché c’è un’elaborazione su CD, posso avere qualche facilitazione in più: me lo porto in borsa e vado.

Credo che questo sia il tema più difficile da affrontare nei confronti dell’amministrazione, non per cattiva volontà, preconcetta, ma perché forse non c’è un’abitudine a colloquiare sul tema lavoro. Lavoro non inteso come occupazione del tempo, come terapia occupazionale, ma lavoro inteso come parte integrante di un processo produttivo, di cui solo un pezzetto avviene in carcere. Certamente è difficile immaginare che dentro un carcere ci sia un processo totale, dalla A alla Z, allora bisogna che questa lavorazione sia ben inserita nei tempi del resto della lavorazione, che ne possa seguire il ritmo. Se questo non succede è difficile immaginare che l’imprenditore possa avere un ben che minimo interesse, indipendentemente dai soldi che gli si dà, o dagli sgravi che gli si dà, perché la cosa è totalmente fuori del suo giro.

Se parli con un imprenditore, lui probabilmente ti dice: "Anche se mi costa 3 lire in meno, però alla fine non posso farlo, perché non riesco a spedirlo, perché devo...". E poi, in maniera molto brutale, aggiunge: "Vuoi un aiuto per i carcerati? Ti do un aiuto per i carcerati, faccio del bene, un po’ di volontariato, qualche soldo... dimmi di cosa hanno bisogno, ma non parliamo di lavoro!"

Credo che dovremo essere capaci, tutti, con le nostre piccole o grandi capacità, di smuovere l’amministrazione a ragionare su questo. Quando dico "amministrazione" dico amministrazione tutta: direzione e polizia penitenziaria. Che ci siano problemi di organico, per la polizia, lo sappiamo, che ci siano problemi di sicurezza… non sta a noi discutere queste cose, ma mi piacerebbe che ci fosse possibilità d’incontro in cui ragionare su che cosa è il lavoro, o soprattutto su che cosa s’intende per lavoro.

Se s’intende solo l’occupazione del tempo, senza preoccuparsi minimamente di che cosa si fa, credo che siamo fuori dalla storia, perché gli imprenditori non ci sono. Invece dobbiamo immaginare il "lavoro" come un complesso produttivo, sempre più articolato e sempre più necessitato di flessibilità, perché quello che decidiamo oggi, su quel tipo di produzione, può darsi che fra due mesi vada completamente cambiato.

Quindi ci vuole una mentalità, anche da parte dell’amministrazione, abbastanza flessibile nel cambiare le situazioni. Faccio un esempio tipico: se abbiamo un lavoro da finire, molto importante (che può essere anche discretamente remunerato) e quindi un buon biglietto da visita per altri lavori, e lo devo finire entro una settimana, cosa debbo fare per poter lavorare fino alle cinque di questa sera e magari anche sabato, in via eccezionale, perché questo è quello che succede normalmente nelle aziende?

Non voglio perdere il cliente, anzi voglio crearmi un biglietto da visita per un futuro cliente, gli do una disponibilità in termini di tempo e dico OK, ti garantisco che entro la fine della settimana questo lavoro è consegnato.

Per poter fare questo ho bisogno che ci sia una rispondenza, ho bisogno che la direzione e la polizia penitenziaria capiscano il problema, abbiano voglia di affrontarlo, preordinino i turni, facciano in modo che le persone possano andare a lavorare.

Ristretti

Il problema non può essere risolto con l’uso dei computer in cella, visto che fate prevalentemente inserimento dati?

Riccardo Rebuzzini

Facciamo inserimento dati, ma ci sono alcune cose che bisogna fare in rete e immaginare una rete tra le celle comincia ad essere un problema. Inoltre a me pare che già ci sia sufficiente isolamento nelle carceri, per crearne altro. Come imprenditore, se tento di portare qualcosa in carcere è per creare elementi di socialità: pensare che proprio io dovrei essere quello che porta un computer in una cella, perché le persone restino ancor più isolate, beh, francamente non mi piace.

Ristretti

Potrebbe essere utile per gli straordinari, se devi lavorare i sabati e la sera, non durante i normali orari in cui la socialità è possibile…

Riccardo Rebuzzini

Non è neanche così semplice, perché chi fa anche inserimento dati, non fa tutto un processo, lui ne fa una parte, poi c’è l’altro che ne fa un’altra parte: il lavorare insieme diventa condizione indispensabile per un prodotto. Ci sono certi lavori che possono essere fatti da soli, certamente, sempre meno però. La persona che deve entrare in carcere per raccogliere questo lavoro, magari controllarlo, magari vederlo insieme agli operatori, se ha un laboratorio dove le persone si incontrano ha una discreta facilità a fare questo tipo di controllo. Se dovesse peregrinare in tutte le celle arriveremmo a dire che quell’efficienza creata dal singolo che lavora, la perdiamo tutta nella fase di controllo, in cui c’è una persona estranea che, per controllare, deve girarsi tutte le celle. Ho fatto un esempio banale, ma gli equilibri sono questi. Ecco perché ora tendo a privilegiare il momento sociale.

Credo che, se possibile, si deve far incontrare tutte le componenti interessate al lavoro in carcere: i detenuti, la direzione, gli educatori, la polizia penitenziaria, gli imprenditori. Se la legge Smuraglia che consente qualche sgravio fiscale, verrà applicata, probabilmente qualcosa si smuoverà di più, ma bisogna che ci sia una voglia interna di concepire il lavoro come un momento molto qualificato del percorso del detenuto.

Se continuiamo a immaginare che il lavoro sia solo occupazione del tempo, noi di lavoro dentro le carceri non ne porteremo, o porteremo solo delle cose poco qualificate, molto poco qualificate, quindi molto poco pagate, quindi in ultima analisi, un poco anche frustranti.

Portare qualcosa che sia effettiva parte di un ciclo produttivo dentro le carceri, vuol dire poter avere un laboratorio che si sente parte integrante dell’intero ciclo, e fare in modo che ci sia la possibilità che qualcuno insegni questo ciclo produttivo, entrando da fuori.

Se noi dobbiamo immaginare soltanto l’informatica, o c’è qualcuno dentro che, per sue conoscenze precedenti, riesce a mettere a disposizione il suo bagaglio personale, o questo bagaglio debbo portarlo da fuori: se poi questo bagaglio è in continua trasformazione, devo avere continuamente qualcuno che, da fuori, entri a lavorare in carcere, portando le innovazioni. Questa, credo sia la rivoluzione più grossa, perché concepire l’interno del carcere come parte integrante di un ciclo produttivo, vuol dire essere in grado di trovare qualcuno che ha voglia, che accetta un lavoro che comincia la mattina alle 8.30 entrando in carcere e finisce la sera alle 17.00, quando esce.

Quand’anche venisse applicata la legge Smuraglia, quand’anche ci fosse tutta la disponibilità da parte della polizia e delle direzioni e io non riuscissi però, come imprenditore, a trovare dei collaboratori che abbiano voglia di entrare nelle carceri, faccio poco, e questo attiene a come la società esterna concepisce il carcere. Ma credo anche che qualche buona volontà della gioventù ci sia.

Se un territorio accetta l’idea che questo luogo è un luogo che gli appartiene, allora si dà anche gli strumenti per fare in modo che quel luogo sia un luogo vivibile, se invece non accetta questo, pensa che quel luogo sia un luogo d’esclusione, di ulteriore allontanamento dalla propria vista, non gliene frega proprio niente dei cicli produttivi. Questo credo che sia il problema più grosso.

Portare lavoro vuol dire portare idee, vuol dire portare promozione, vuol dire portare parte di quello che ci frutta… chi lo porta? Non è il lavoro in sé, non è il fabbricare un prodotto, ma la relazione che c’è dietro a questo, e la relazione è fatta di persone. Faccio un esempio personalissimo: non posso pensarmi come presidente di un Consorzio che tiene in piedi, da solo, questa serie di relazioni in undici laboratori, in nove carceri della Lombardia. Dovrei diventare una specie di trottola pazzesca, continuando a passare da un laboratorio all’altro, quindi devo piuttosto creare una rete interna di collaboratori, che facciano questa cosa.

Ristretti

Bisogna saper delegare.

Riccardo Rebuzzini

Sì, lo definirei il secondo passo, bisogna trovare le persone disponibili, è questo il punto, trovare persone disponibili, alle quali delegare: io sono molto disponibile a delegare. Il fatto è però che un informatico, sulla piazza di Milano, ha delle richieste di lavoro a non finire, basta che svolti l’angolo e tutti gli danno lavoro, quindi non è così semplice che accetti un lavoro dentro al carcere.

Ristretti

Non ha pensato ad un ex detenuto per fare questo?

Riccardo Rebuzzini

Io potevo pensarci, ma è l’Amministrazione Penitenziaria che non ci pensa, lo sapete bene anche voi che non ci pensa…

Ristretti

In alcune situazioni, per altre cose, ci sono ex detenuti che ricevono regolare permesso per entrare in carcere. È un terreno su cui bisognerebbe lavorare.

Riccardo Rebuzzini

Per certi tipi di reati non se ne parla neanche! Quindi affrontiamo anche questo argomento, per carità, però non è certamente questa la normalità. Il problema più grosso è quello di fare in modo che dalla società, dal mondo del lavoro tradizionale, non ci siano troppe preclusioni a concepire che faccia parte integrante del proprio lavoro quello di entrare normalmente in carcere, non per fare un bel gesto, ma come, appunto, parte integrante del proprio lavoro.

Quando riusciremo ad ottenere questo, probabilmente saranno queste persone, che hanno creato relazioni e, soprattutto, hanno avuto la capacità di dimostrare che forse è possibile fare queste cose, che convinceranno l’imprenditore di turno, perché poi questo benedetto imprenditore alla fine sta nel suo ufficio, con i suoi telefoni, con le sue cose, al massimo ci va una volta per vedere, non è che ci vada tutti i giorni dentro. L’imprenditore ha bisogno che esista un contesto in grado di accettare questa cosa. Questo credo che sia la questione veramente più complessa, la più difficile.

Ristretti

Per portare all’interno del carcere personale qualificato bisogna poterlo pagare in maniera adeguata. Se uno può trovare lavoro fuori, non viene in carcere a spendere la sua professionalità per guadagnare probabilmente di meno…

Riccardo Rebuzzini

Diamo per scontato che quel lavoro, che noi riusciamo a portare in carcere, riesca a remunerare le persone, sia quelle che sono all’interno, che quelle che vanno fuori, secondo la logica di mercato. Se diamo per scontato questo, vuol dire che abbiamo in mano un prodotto che consente questo: se già in partenza abbiamo un prodotto sottopagato, non iniziamo neanche.

Ma quand’anche ci fosse questa cosa, probabilmente abbiamo dei sovraccosti, tipici della struttura; la legge Smuraglia potrebbe compensare questi sovraccosti, questo mi sembra corretto dirlo. Ad esempio il camion, prima di entrare, sta fuori un’ora e mezza la mattina, perché prima, per esempio, devono uscire i mezzi con i detenuti per andare a processo, se ci sono i cambi poi, invece di entrare alle nove e mezza si entra alle dieci… Lo stesso discorso è valido per uscire, lo stesso vale per tante altre piccole cose. La legge Smuraglia, ammettiamolo pure, potrebbe compensare questi problemi, ma il problema di trovare persone che hanno voglia di lavorare in carcere esiste sempre. Mi risulta difficile immaginare di poterle trovare in termini monetari: le motivazioni, di questo genere, sono difficilissime da dare con i soldi. Posso pensare che, se riuscissi a trovare qualcuno che lo fa solo per i soldi… sarebbe meglio perderlo che trovarlo.

Ristretti

Se sono un ragazzo giovane e con una buona qualificazione, devo poter vedere delle prospettive di sviluppo della mia carriera: difficilmente mi impegnerò in situazioni senza possibilità di carriera. Quindi, anche il discorso monetario diventa valido.

Riccardo Rebuzzini

È valido, ma non è l’unico. Finora, comunque, abbiamo superato questa difficoltà, in una certa misura, con un discreto turnover. In questo momento, dopo che abbiamo ottenuto la certificazione ISO 9.000 (anche dentro le carceri, non solo fuori), per poter portare avanti questi processi pensiamo di portare all’interno della tecnologia nuova. Vuol dire macchine nuove, macchine più costose, macchine più sofisticate. Prima che il personale interno sia completamente autonomo, su questo, realisticamente ci vuole qualcuno che, per qualche mese, entri tutti i giorni a lavorare dall’esterno. Stiamo facendo esperienza con Opera, dove da settembre saranno operative queste nuove tecnologie.

Ristretti

Un altro dei problemi che abbiamo, nella nostra redazione, consiste nel fatto che, quando uno ha imparato il lavoro, magari esce, arriva gente nuova e devi ricominciare da capo. Come gestite, voi, la formazione del personale?

Riccardo Rebuzzini

Una delle difficoltà è certamente quella di far entrare dei capi tecnici, capisquadra che possano addestrare e controllare il lavoro, ma un’altra è senza dubbio il grande turnover del personale, causato anche dai tantissimi trasferimenti. L’anno scorso c’era il Giubileo, con tutte le sue implicazioni, che ha creato aspettative e quindi, poi, tensioni; adesso abbiamo appena finito il G8 e via, ogni giorno ce ne sarà una. Non entro nel merito di questioni come i trasferimenti, perché non mi compete, prendo atto che sta aumentando il turnover, quindi vuol dire che un’azienda che organizza una produzione all’interno del carcere, deve tenere conto del fatto che gli operai, i tecnici, i collaboratori cambiano continuamente. Chiaramente hai dei costi aggiuntivi, costi d’addestramento, ma hai soprattutto dei cali di qualità: finché il nuovo operatore non riesce a raggiungere uno standard di qualità (e non è che lo raggiungi sempre dalla sera alla mattina) questo laboratorio diventa meno affidabile, dal punto di vista della qualità.

Questo è un altro dei problemi strutturali del nostro lavoro. Non possiamo evitarlo, dobbiamo solo avere la possibilità di investire più denaro in formazione, continuando ad immaginare selezioni continue e addestramento continuo, per avere sempre pronte persone che possano entrare nel ciclo produttivo molto velocemente. È una soluzione costosa e anche, qualche volta, una soluzione che può creare qualche illusione, perché vuol dire fare una selezione con un bando, diciamo così, "pubblico" tra i detenuti, dopodiché sulle domande presentate la direzione fa una sua preselezione, di disponibilità e possibilità al lavoro. Vengono così scelti coloro che iniziano a fare addestramento e siamo ancora in una fase non pagata: noi possiamo iniziare a pagare dopo la fase d’addestramento, quando uno entra in produzione. Può passare qualche mese, da quando c’è la prima selezione a quando la persona entra effettivamente nel ciclo produttivo, e mi rendo conto che questi mesi non sono facili, perché si creano aspettative, perché nel frattempo qualcuno viene trasferito, quindi hai buttato via del tempo.

Ristretti

Tutti coloro che iniziano l’addestramento entrano, poi, nel ciclo produttivo?

Riccardo Rebuzzini

Non saprei dire se tutti sono entrati, ma la stragrande maggioranza entra. Se non sono entrati è stato perché ci sono problemi non legati all’azienda, ma legati a discorsi di sicurezza, problemi della direzione, che non ci competono. Nell’ultimo anno e mezzo il turnover è aumentato in maniera forte, molto forte. Cosa ci può essere dietro a questo: ci può essere tutto... ci può essere una necessità dettata dalla sicurezza, ci può essere la necessità, effettivamente, di trasferire delle persone per motivi di sovraffollamento, ci può essere anche l’accortezza di fare in modo che non creiamo delle isole troppo consolidate, perché se si creano, può non andare bene e continuare a rimescolare le carte può avere un senso… questa è un’altra delle cose da tenere presenti.

Ristretti

Quali sono le altre attività, oltre all’inserimento dati, che vengono fatte dalla Nova Spes? La questione della certificazione ISO 9000 e della qualità c’interessa particolarmente, perché vediamo che uno dei grossi problemi, in carcere, è proprio quello della qualità delle cose che si producono. Prima di tutto per una disabitudine di molte persone a lavorare, secondo perché il carcere, per tanti aspetti, è proprio la negazione della qualità.

Riccardo Rebuzzini

Partiamo prima dal tipo di lavoro, per entrare in seguito nel discorso sulla qualità. Oggi Nova Spes ha, come sua attività principale, l’inserimento dati e l’archiviazione ottica dei documenti. C’era solo l’inserimento dei dati, tre anni fa, quando abbiamo comperato e sanato la situazione della precedente cooperativa, la Spes. La lettura ottica si cominciava a farla e c’era molto arretrato: abbiamo smaltito tutto l’arretrato e abbiamo puntato ad avere, come focus della nostra attività, non più l’inserimento manuale, ma l’archiviazione ottica dei documenti. Questo vuol dire aver innescato un meccanismo diverso, anche verso l’esterno, mostrando di avere la possibilità e la capacità di fare non più soltanto un lavoro manuale, ma di fare un lavoro più qualificato.

Siamo in grado, in questo momento, di prendere documenti, se serve di digitare quella parte di notizie che servono, ma sopratutto di gestire il magazzino cartaceo e ridare al cliente il magazzino su CD. Questo lo stiamo facendo per la parte del lavoro vecchio che avevamo, quindi per la registrazione delle ricette mediche per l’amministrazione regionale, ma la stiamo facendo per tante altre amministrazioni.

Lo stiamo facendo per privati, per esempio per una clinica nell’hinterland milanese: quest’anno gli stiamo gestendo l’intero magazzino cartaceo e le cartelle cliniche, ne facciamo un magazzino informatizzato. Se hanno bisogno dell’originale glielo rimandiamo velocemente, oppure gli mandiamo le immagini tramite Internet, qualora avessero bisogno solo della fotografia. Questo ha ampliato parecchio le possibilità di lavoro, uscendo dal puro data entry e dando un servizio molto più completo.

L’ultimo tipo di lavoro è il disegno tecnico, che abbiamo iniziato a fare fuori e che, da settembre, porteremo anche dentro le carceri. È un altro filone che crediamo possa avere un grosso sviluppo. Parlo, in questo caso, sempre della piazza di Milano. Esperienze fatte precedentemente, con ex detenuti ed ex tossicodipendenti, ci hanno fatto vedere che imparare il disegno tecnico CAD è una cosa possibile. Non dico a livelli di progettualità, lì ci vogliono competenze e capacità diverse, ma a livello esecutivo sì.

Ristretti

Ci fa qualche esempio di possibili lavori in questo campo, visto che di solito il sistema CAD viene usato direttamente dalle ditte: chi vi dà le commesse?

Riccardo Rebuzzini

Abbiamo iniziato a trasferire dei vecchi progetti, dalla carta su CAD: dovevano essere corretti, aggiornati, e oggi non è più attuale che vengano corretti con il tecnigrafo, a mano. Quindi facciamo il trasferimento delle tavole, da lavoro su carta, a CAD, poi le diamo al progettista, che fa le sue modifiche. Questo, per esempio, consente di lavorare per le trasformazioni conseguenti alla legge 626, sulla sicurezza degli edifici, per l’aggiornamento dell’impiantistica. Qualsiasi cosa le pubbliche amministrazioni ed i privati debbano fare, in termini di modifica strutturale di un edificio, oggi non è più fatto a mano, ma è fatto con il CAD.

Noi possiamo entrare in questo ciclo immaginando che lo studio professionale, piuttosto che l’ufficio tecnico comunale, possa darci la prima parte del lavoro, che è la ricopiatura del vecchio. Senza quindi dover immaginare di essere progettisti, questo consente di lavorare con la consapevolezza di avere soltanto bisogno del CAD. Poi, se qualcuno sa fare di più, questo è qualcosa che anche noi aspettiamo di poter portare avanti.

Quando portiamo questi disegni dentro un istituto penitenziario portiamo anche tecnologie nuove, tecnologie che hanno bisogno anche di lettura ottica: molto spesso alcuni disegni vecchi hanno più facilità ad essere ricopiati, ma altri disegni nuovi, o più nuovi, è molto più facile farne una scansione e poi le modifiche sono fatte sulla scansione.

All’inserimento dati, aggiungiamo quindi il disegno: un bagaglio tecnico, da presentare al cliente, molto più ampio, che può tradursi in un’apertura di mercato, ma questa cosa ha bisogno di qualità. Il passo che abbiamo voluto fare, fin da quando abbiamo creato la Nova Spes, è stato puntare ad un processo che potesse essere documentato in termini di qualità: abbiamo fatto sette mesi di studio dell’organizzazione, soprattutto e prima di tutto nella sede esterna.

Abbiamo ottenuto la certificazione di qualità esattamente nell’ottobre del 2000, per quello che riguarda l’inserimento dei dati, il controllo, la lettura ottica, e tutta l’organizzazione dell’azienda sulla sede esterna. Poi abbiamo iniziato con il carcere di Opera (lo abbiamo preso come primo modello perché ha un nucleo più consistente), per poter avere la certificazione anche per il laboratorio carcerario, e a maggio del 2001 abbiamo avuto la certificazione anche per questo.

Credo che sia un risultato importante, la dimostrazione che si possono fare delle cose di qualità anche in carcere: questo è l’obiettivo che l’azienda si era dato, poter dimostrare all’esterno che, in termini di qualità, il lavoro dentro le carceri non è assolutamente diverso, rispetto all’esterno.

Credo che il merito sia di tutti coloro che si sono impegnati, lavoratori e tecnici, adesso sta alla direzione aziendale saper sfruttare l’occasione che ci è data, perché poter ragionare con alle spalle una certificazione di qualità aiuta a vendere qualsiasi tipo di prodotto, quindi anche una capacità operativa, se supportata da una certificazione di qualità, è comunque una possibilità operativa di più alto livello.

Questo gli enti pubblici lo chiedono. Per concorrere a gare pubbliche d’appalto, oggi come oggi, la certificazione di qualità è indispensabile, perché ti garantisce un certo punteggio. Se non ce l’hai, sei già tagliato fuori.

Stiamo anche cercando di fare, per la Provincia di Milano, un lavoro d’inserimento dati presso di loro, in questo caso svolto da semiliberi, e la gestione del magazzino cartaceo presso la nostra struttura esterna. Spesso le grosse amministrazioni hanno bisogno di liberare locali, hanno bisogno di ordinare i magazzini cartacei, hanno bisogno di lavorare con strumenti più moderni, e in tutto questo vengono aiutate da noi: nella loro sede, in una prima fase, per fare il lavoro di inserimento dati di cui sono carenti e per poi spostare il loro magazzino nella nostra sede.

Ristretti

Avete esperienze riguardo alla possibilità di lavoro con una rete Intranet, anche dal carcere?

Riccardo Rebuzzini

Per il telelavoro, in questo momento, stiamo facendo un’esperienza d’addestramento; non siamo arrivati ancora a metterlo in pratica, però siamo nell’ottica di farlo, con il supporto della Provincia di Como. Nel carcere di Como, abbiamo iniziato a fare addestramento in prospettiva di un lavoro, chiamato "telelavoro", che ancora dentro il carcere è un po’ da studiare.

Abbiamo immaginato una possibilità di portare avanti e indietro i CD, ma la cosa ci interessa in modo particolare per chi è agli arresti domiciliari e per la possibilità per i detenuti di vendere la capacità acquisita dentro al carcere, per conto proprio a fine pena. Credo di non dire niente di molto diverso da quello che già sapete voi, ma arrivati a 45 - 50 anni è difficilissimo riuscire ad entrare in un processo produttivo. Avere la possibilità di imparare come lavorare con il telelavoro, a casa, può aiutare molto, perché consente di entrare velocissimamente in un circuito produttivo.

Dobbiamo dare atto all’amministrazione provinciale di Como di essere lungimirante, perché poi vorrà utilizzare lei questa possibilità: l’inserimento dati, che verrà dai comuni, dai comuni confluirà in un sito provinciale che elaborerà il tutto. Qui è indispensabile aver fatto un po’ di disegno e cartografia, perché ci sarà bisogno di mettere insieme l’inserimento dei dati alla cartografia di ogni comune. Quindi con disegno, cartografia e inserimento dati, siamo in questa fase di addestramento e vorremmo riuscire, entro l’anno, a completarla, per vedere poi se è esportabile da altre parti. Personalmente credo molto al fatto di dare un addestramento facilmente spendibile all’esterno, quando uno ha finito la pena, oppure è agli arresti domiciliari, e si deve comunque mantenere.

Ristretti

L’amministrazione penitenziaria, a livello centrale, ha attenzione alle vostre attività, cerca di aiutarvi, di supportarvi?

Riccardo Rebuzzini

Abbiamo ottenuto una convenzione, con il D.A.P., che ritengo molto innovativa, quindi vuol dire che l’amministrazione vede bene queste cose: abbiamo voluto che i contratti di lavoro non fossero più dei contratti a tempo indeterminato, perché questo creava delle piccolissime isole felici per quei pochi fortunati che riuscivano ad entrare in questo circuito. Se faccio soltanto l’esempio di Opera, mi viene da ridere, quando penso che su 1000 persone, alla fine ce ne sono solo 60, in tre laboratori, che oggi possono lavorare. Credo invece di più al lavoro come ad un’opportunità da dare al massimo numero possibile di persone. Allora il lavoro a tempo determinato, un anno, un anno e mezzo, consente di acquisire una tecnologia e deve anche consentire non di volere mantenere un diritto acquisito, ma di voler concedere a tutti questa opportunità. Una specie di turnover. Questa, credo sia una delle cose più innovative.

Ristretti

Avete pensato di riproporre la vostra esperienza anche fuori dalla Lombardia, per esempio qui a Padova?

Riccardo Rebuzzini

Indipendentemente dal tipo di lavoro (nel caso specifico della Lombardia la registrazione delle ricette mediche), io credo che questa esperienza della Lombardia abbia dato dei segnali positivi. Una pubblica amministrazione che si rende conto di questo problema non può disinteressarsi del "problema carcere". Poi c’è la cooperazione sociale, che dimostra d’essere in grado di gestire queste cose, e la volontà della amministrazione penitenziaria di fare in modo che queste cose possano succedere. L’insieme di questi tre elementi è proponibile da qualsiasi parte d’Italia. Le pubbliche amministrazioni, per quello che riguarda l’inserimento dati, piuttosto che la registrazione di documenti, ne hanno bisogno. Siamo in arretrato almeno di dieci anni, nell’ammodernare la pubblica amministrazione.

Ristretti

Quindi, lei pensa che, se sorgesse una cooperativa di lavoro che operi in quel settore, in qualsiasi parte d’Italia, i dipendenti non resterebbero disoccupati.

Riccardo Rebuzzini

Credo che possa essere esportato non tanto quello che abbiamo fatto, ma l’insieme di queste tre componenti: la pubblica amministrazione che accetta l’idea che del "problema carcere" si deve occupare, magari assegnando delle piccole quote di lavoro, la cooperazione sociale che dimostri di essere capace, con tutte le sue componenti, di fare in modo corretto il lavoro richiesto, e certamente l’amministrazione penitenziaria che dia quel minimo di supporto logistico.

Ristretti

Ma guardiamo anche l’altro aspetto del problema. Un detenuto lavora per due anni, mettiamo che ha un contratto a termine di due anni, e dopo che prospettive gli si aprono?

Riccardo Rebuzzini

Cerchiamo, nella selezione, di privilegiare le persone che hanno minor tempo di detenzione ancora da fare, in modo da avvicinare sempre più il momento dell’uscita. Prospettive interne al carcere, in questo momento, non so dire se ce ne siano. Obiettivamente, può darsi che qualcuno esca da questo circuito e di fatto si ritrovi a dire: "Fino a ieri lavoravo e oggi non lavoro più".

Di questo sono consapevole, però invito tutti a pensare al fatto che in qualche modo, strano, bello, brutto, non lo so, sei riuscito a entrare tu in quel gruppo di privilegiati, e dammi una spiegazione un minimo coerente sul fatto che ci sei entrato tu e ci sei solo tu e tutti gli altri, per il fatto che ci sei tu, non possono entrare.

Il tentativo è quello di continuare a portare novità, in modo che, se uno esce da un circuito di questo genere, possa eventualmente trovarne altri. La possibilità migliore è quella di fare in modo che, nei limiti del possibile, il periodo di lavoro termini vicino al momento dell’uscita dal carcere, così da creare una continuità più sull’esterno che non con l’interno.

Ristretti

Perché non alternare periodi di lavoro a periodi di formazione, in un ciclo di continuo aggiornamento? Al termine del periodo di lavoro lascio il posto ad altra gente, ed io mi formo per andare avanti, ad esempio per imparare il CAD, imparare a fare disegno grafico…

Riccardo Rebuzzini

Può essere una buona idea. La formazione, dal punto di vista aziendale, è una cosa bellissima, perché avere un operatore più formato, per un imprenditore, è la cosa migliore. Il problema più grosso è, però, chi la paga questa formazione? Già far accettare l’idea che, dentro il carcere, durante la formazione, voi non prendiate nessun compenso è un problema, però si potrebbe anche immaginare questa possibilità, perché ognuno si rende conto di investire su se stesso.

Rimane il costo della formazione, e mi sentirei di dire che, con un po’ di buona volontà, ci si può arrivare: le Regioni, bene o male, hanno tutte dei fondi per la formazione e, combinando un po’ le cose, si potrebbe fare.

Riguardo al proseguimento del lavoro all’esterno, è una forma d’investimento reciproco. Di fatto, le persone che vengono al Consorzio perché sono state dentro al carcere, dove hanno potuto fare la formazione, possono trovare nelle cooperative esterne la possibilità di andare avanti col lavoro. Ci sono poi cooperative che sono tarate per essere proprio adibite all’inserimento lavorativo, quindi una fase di passaggio, e quindi anche qui per dar modo di imparare ulteriori cose che servono per entrare in un circuito lavorativo normale.

Ristretti

Il trattamento economico di chi lavora nel Consorzio Nova Spes è equiparato a quello degli altri lavoratori della categoria?

Riccardo Rebuzzini

Noi lavoriamo con il contratto dei lavoratori a domicilio, che è stato siglato con i Sindacati nel momento in cui abbiamo preso questa azienda ed è parametrato al contratto delle cooperative sociali. Nel contratto di lavoro a domicilio sono comprese le ferie e la quota TFR, quindi tutto è stato parametrato e trasformato in un prezzo unitario. Di conseguenza il lavoratore viene pagato al pezzo. Questa è la caratteristica di tutti i contratti di lavoro a domicilio, con contributi pagati in parte dall’azienda e in parte dal lavoratore. Da questo punto di vista, il lavoratore a domicilio è un lavoratore normalissimo, cambia solo la forma di retribuzione.

Ristretti

Versate i compensi direttamente ai detenuti o li versate alle direzioni degli istituti, che effettuano le trattenute per il mantenimento - carcere?

Riccardo Rebuzzini

Questo non attiene ai compiti dell’imprenditore, l’imprenditore versa all’I.N.P.S., allo Stato, l’I.R.P.E.F. e alla Direzione del carcere il compenso netto spettante al detenuto; la Direzione ha poi il suo regolamento interno, che non compete all’imprenditore. Siamo obbligati a pagare alla Direzione: qualsiasi imprenditore non può pagare direttamente il detenuto deve versare gli emolumenti e le pezze giustificative alla direzione: parlo per il detenuto in carcere, ma anche per il semilibero e per il detenuto in articolo 21, è specificato che devono essere pagati tramite la Direzione.

Ristretti

Puo dirci cosa guadagna, mediamente, un vostro operatore in carcere?

Riccardo Rebuzzini

Il lavoro a domicilio risente sempre dei tempi morti, c’è chi può fare più lavoro un giorno e meno nell’altro. Se facesse 8 ore di lavoro al giorno una persona prenderebbe circa 1.500.000 al mese, nette. Ma lavora di meno e, realisticamente, prende sulle 900.000. Questo è il netto, in busta, che prende il lavoratore. Al costo aziendale va aggiunta tutta la parte relativa ai contributi. Io pago 160 milioni di contributi ogni mese.

Ristretti

Per i detenuti stranieri il trattamento è lo stesso?

Riccardo Rebuzzini

Non c’è nessuna differenza. Diciamo però che, con i criteri adottati per le assunzioni, abbiamo creato una piccola scaletta, non dico dei privilegi, ma dei criteri di selezione, fra cui il primo è il numero di figli da mantenere. Vediamo di privilegiare chi ha figli da mantenere, perché il fatto di avere un contratto consente di ricevere gli assegni familiari, che vanno direttamente alla famiglia. Così, quando siamo nella fase della selezione, chi ha figli da mantenere ha dei punti aggiuntivi.

Questi sono gli unici due criteri che ci siamo dati: il numero di figli da mantenere e la vicinanza al fine pena. Se una persona ha dieci anni ancora da scontare ed un’altra tre, privilegiamo prima quella che ha tre anni, per poterle insegnare un mestiere, perché poi uscirà e quell’altro potrà succedergli. Lo so che non è il massimo, però è un criterio valido che osserviamo.

L’altro non lo definirei un criterio, ma è un piccolo vincolo ed è che esistano tutti i documenti per poter essere assunti. Spessissimo la situazione è la seguente: "Io sono pronto, ho voglia, passo le selezioni, poi non ho i documenti, ad esempio il libretto di lavoro".

Ristretti

Non potete assumere senza libretto di lavoro?

Riccardo Rebuzzini

Assolutamente no! Gli stranieri, che non hanno il libretto di lavoro, possono godere di una legge particolare che consente, attraverso l’Ispettorato, di farli lavorare senza: è una procedura un po’ più lunga, però si fa. Abbiamo fatto lavorare cinesi, cingalesi, africani, quindi si può fare, per gli stranieri che non hanno un libretto di lavoro. Per gli italiani è obbligatorio averlo; se non l’hanno, comunque, è sufficiente che se lo facciano rilasciare.

Ristretti

Il criterio di avere più figli sembra escludere molti stranieri, perché sono quasi tutti giovani, senza figli: succede questo?

Riccardo Rebuzzini

Ogni criterio esclude, qualsiasi criterio esclude qualcosa. Una risposta sta nei dati oggettivi, cioè in quanti stranieri abbiamo a lavorare: grosso modo il 10 %, dieci - quindici persone, non di più. Il nostro criterio, nel privilegiare coloro che hanno più figli da mantenere, non è stato concepito come voglia d’esclusione, ma come tentativo di dare aiuto alle famiglie.

È chiaro che, se uno straniero ha tanti figli da mantenere e non ha la possibilità di dimostrarlo, perché non ha documenti, io non posso farci niente. Deve avere tutte le carte in regola per aver diritto agli assegni familiari. Se non può dimostrare questo… mi dispiace.

Ristretti

È vero che ogni criterio rischia di essere penalizzante per altri, ma non è pensabile introdurre una quota riservata agli stranieri? Perché succede che molti italiani hanno un sostegno fuori, mentre spesso gli stranieri sono abbandonati a se stessi. Non è pensabile una quota per gli stranieri, in modo da affrontare questo problema? anche perché uno straniero che abbia un lavoro, che si avvii ad un lavoro dentro, ha più possibilità, quando esce, di fare un percorso di regolarizzazione, almeno noi lo abbiamo sperimentato…

Riccardo Rebuzzini

Noi non abbiamo fatto la scelta, per ora, di ragionare su quote di stranieri. Non abbiamo ragionato sugli stranieri come persone diverse, che potessero avere diritto ad una quota, ma abbiamo fatto un bando libero a tutti. È stata una piccola battaglia, che credo abbiamo superato, quella di chiedere ai Direttori la possibilità che il Consorzio Nova Spes facesse un’offerta aperta a tutti, stranieri ed italiani.

Ristretti

Prima ha parlato del trattamento retributivo per i dipendenti in carcere, invece un semilibero cosa guadagna?

Riccardo Rebuzzini

I semiliberi sono inseriti con il contratto delle cooperative sociali e vanno dal terzo livello al quarto. Il terzo livello è il primo inserimento: colui che fa il data entry di più basso livello. C’è qualcuno che è arrivato all’ottavo - nono livello, dipende dalla capacità professionale dimostrata e quindi anche da eventuali ruoli di responsabilità.

Ristretti

Per assegnare dei posti di responsabilità a dei detenuti, non ci sono difficoltà? Perché uno dei problemi con cui ci scontriamo sempre è questo discorso, che il detenuto non può avere un ruolo di controllo o di autorità sugli altri.

Riccardo Rebuzzini

Quando una persona esce dal carcere ed entra in azienda, l’Amministrazione Penitenziaria non c’entra più niente. L’Amministrazione Penitenziaria ha il diritto di venire a vedere se c’è, se si comporta correttamente, ma per quanto riguarda l’organizzazione aziendale è l’azienda che ne risponde. Quindi, per esempio, abbiamo i due responsabili del magazzino e del controllo dati, così come della lettura ottica, che sono due persone ancora oggi in stato di detenzione, in semilibertà. Guadagnano dei bei soldi, oltre due milioni al mese, e sono parametrati con i prezzi di mercato. Un tecnico, che sa lavorare bene al computer, senza essere un programmatore, cioè che sa usare programmi come Access, Excel, i programmi di Database, che sa usare il CAD, oggi guadagna da due milioni e trecentomila lire a due milioni e mezzo. Parlo della piazza di Milano. I soldi che diamo ai detenuti sono quelli, da questo punto di vista non c’è nessuna differenza.

Ristretti

Pensa che anche con il telelavoro, finita la pena, ci sia la possibilità di guadagnare queste cifre?

Riccardo Rebuzzini

Il telelavoro è un po’ enfatizzato, in Italia, ma non è ancora andato a regime. Per assurdo con il telelavoro si potrebbe guadagnare di più, se uno è bravo e ha trovato il filone giusto, perché lavora di più. Mediamente penso sia un po’ difficile stabilire oggi questa cosa. Il telelavoro, visto dall’azienda che ti dà lavoro fuori, può essere di due tipi: o di altissima qualità, e allora ti consente di stare a casa tua, di fare gli orari che vuoi, ma sono io azienda che ho bisogno di te, e allora tu comandi sui soldi; oppure il telelavoro è meno qualificato, e se non lo fai tu a questo prezzo, ne trovo subito un altro che lo fa, e allora sui soldi ci potrebbe essere qualche piccolo problema. Questa è la legge del mercato.

Ristretti

Lei ci ha parlato soprattutto di lavoro intramurario: ma quali sono le prospettive per realizzare delle iniziative di lavoro extramurario?

Riccardo Rebuzzini

Credo che di possibilità ne esistano, qui però bisogna fare due considerazioni. Certamente conta la piazza, il mercato attorno: sul discorso informatico oggi a Milano, effettivamente, c’è tanto lavoro e mancano operatori. Io conosco aziende che sono disposte ad assumere qualsiasi persona che abbia un minimo di capacità, basta che si adatti a fare il lavoro a turni, ad esempio, perché l’elaborazione dei dati avviene spesso di notte. Quello che viene cercato oggi è un operatore capace, non un professore o un luminare, ma un operatore capace di gestire dei dati, ed uno che si adatti a fare i turni. Su cose di questo genere, di lavoro, sulla piazza di Milano, c’è n’è un mare. Su altri filoni, ad esempio prima parlavo del disegno, certo ci sono delle possibilità, ma non mi sento di dire che è così automatico il fatto che, avendo fatto dell’addestramento nel carcere, appena esco trovo subito lavoro. Oggi come oggi, il mercato del lavoro è molto selettivo, molto variabile, non esistono più i grossi complessi che assumevano tante persone, è un continuo muoversi.

Questo obbliga la persona a fare due fatiche: una è quella di essere sempre addestrato al massimo, l’altra quella di imparare a saper vendere la propria professionalità. Il consiglio è quello di fare qualche addestramento sull’autoimprenditorialità, perché spesso siamo capaci di fare un mestiere, ma non siamo capaci di fare un preventivo, non sappiamo vendere il nostro prodotto, e questo può essere un grosso limite. Ma non è il solo per chi esce dal carcere, è un limite forse un po’ enfatizzato, ma è un limite per tutti, perché la grande mobilità ha dei grossi vantaggi, ma anche qualche svantaggio.

Ristretti

Lei prima ci ha detto che versa centosessanta milioni di contributi al mese: in che misura li paga questi contributi, per intero oppure con lo sgravio?

Riccardo Rebuzzini

Lo sgravio esiste solo per i semiliberi. Finché la legge Smuraglia non verrà applicata, i lavoratori all’interno delle carceri non hanno diritto a nessuno sgravio.

Qui nel Nord Est credo abbiate ancora buona parte di lavoro su grande base manifatturiera e certamente l’imprenditore ha bisogno di questi sgravi, e utilizza bene questi sgravi. Da noi, sulla piazza di Milano, è comunque molto meno interessante farvi ricorso: bisogna elevare la qualità, bisogna elevare il processo informativo, per poter entrare nei circuiti lavorativi di Milano. Non siamo più negli anni ’50, quando l’imprenditore, mancante di tutto e armato solo di buona volontà, cercava di mettere in piedi l’azienda. Oggi le nostre aziende sono piene di soldi, quindi non mi sembra che l’imprenditore medio abbia bisogno di questo sgravio fiscale, per stare in piedi.

Per convincere l’imprenditore a dare lavoro nel carcere, l’abbiamo già detto, non basta toccarlo sul fronte economico, oggi mi sembra molto più sensibile sul fronte della sicurezza o pseudo – sicurezza. L’imprenditore poi, lui è sì sensibile ai soldi, ma i compagni di lavoro da quei soldi, da quegli sgravi, non ottengono niente, e sono loro, i compagni di lavoro, che spesso non accettano bene la persona che viene da un percorso di difficoltà, tossicodipendente, carcerato, handicappato.

Ristretti

C’è da dire che moltissime persone, che provengono da questi percorsi, lavorano in aziende esterne e non hanno alcuna difficoltà a relazionarsi, e poi l’imprenditore non è obbligato a dire da dove vengono...

Riccardo Rebuzzini

Il problema grosso è che il carcere sia accettato dal territorio, dalla società, come un qualcosa di cui fa parte. Se c’è un concetto di esclusione, non ci sono soldi che tengono, ma neanche gratis…

Ristretti

Non emergono problemi sul trattamento dei dati che vi affidano, ad esempio se una pubblica amministrazione vi affida dei dati riservati?

Riccardo Rebuzzini

Se ci sono dei dati riservati che non vogliono siano fatti conoscere, non ce li affidano. Dentro l’azienda ci sono i responsabili dei dati sensibili, come in tutte le aziende, e anche noi utilizziamo la legge sulla privacy nel modo più corretto possibile.

Ristretti

Quindi avete la possibilità di trattare i dati sensibili semplicemente dichiarando chi è il responsabile del trattamento di questi dati?

Riccardo Rebuzzini

Esiste, io la chiamo così, una paturnia mentale, che certe cose non si debbano far fare a persone che hanno fatto certi tipi di percorsi, dopo di che mi sembra che ci sia un altro tipo di deterrente, che è la quantità di dati trattati. Se io volessi anche fare qualcosa fuori dalla normalità, ed andare a ricercare quella ricetta medica, di quel periodo, di quella persona, non la troverei: sono più di 3 milioni, i pezzi al mese che vengono trattati in Lombardia!

Ristretti

E sull’uso delle tecnologie, tipo lo scanner, ci sono stati problemi? E c’è qualche possibilità di avere il computer in cella, con le prese di corrente?

Riccardo Rebuzzini

Per quello che riguarda il lavoro, la richiesta che a noi è stata fatta per i computer in cella è venuta solo da un reparto di Alta Sicurezza. Io ho posto il problema sia ai detenuti, sia alla direzione, dicendo che secondo me non era il massimo della vita lavorare così. Non ci siamo agitati troppo per fare in modo che, in un reparto di Alta Sicurezza, le persone potessero lavorare da sole in cella; abbiamo pensato che era meglio che potessero scendere ed essere inseriti in un momento di organizzazione.

Ristretti

Avere il computer in cella non vuol dire che ti isoli: le tue ore di ufficio le fai comunque, poi puoi giocare, ascolti musica, studi, si rompe un po’ la monotonia della cella…

Riccardo Rebuzzini

Certamente, se dovessi immaginare che una persona, nella sua normalità di vita, fa otto ore di lavoro e, quando va a casa, si mette di fronte al computer, direi che corre il rischio di rimbambirsi. Personalmente sto spingendo una linea che è quella di cercare di essere imprenditore uguale per il "dentro" e per il "fuori". E, allora, se cerco di fare l’imprenditore mi devo preoccupare dei diritti del lavoratore, mi devo occupare dei loro doveri, del loro aggiornamento professionale.

Per quello che attiene al tempo libero, spero che l’Amministrazione Penitenziaria faccia tante iniziative, in modo tale che tu non devi essere costretto, dopo le otto ore di lavoro al computer, a trascorrere ulteriore tempo dinanzi al computer: se devo immaginare che lo strumento di lavoro diventa totalizzante, alla fine sono preoccupato per la tua salute mentale.

Ristretti

Il problema è che, in carcere, l’orario di lavoro corrisponde agli orari delle altre attività. Finito l’orario di lavoro, non è che il carcere ti proponga molte alternative: devi rimanere in cella…

Riccardo Rebuzzini

Questo lo so, però credo che sia questa la battaglia che si deve fare, perché altrimenti noi finiamo per credere, in extrema ratio, probabilmente esagerando, che il lavoro risolva i problemi del mondo. E non ho mai capito perché le persone "giuste" lavorino poco, se ne vadano a spasso, mentre un portatore di handicap debba lavorare, per "stare bene": i tossici hanno già avuto i loro problemi, come i carcerati… parliamo di un giusto equilibrio e di buon senso, non enfatizziamo il lavoro come la panacea di tutti i mali.

Ristretti

Forse abbiamo mescolato due problemi: la battaglia perché, fatto il lavoro, si possa accedere ad altre attività con quello di avere il computer in cella. Anche perché la risocializzazione non può passare solo attraverso il lavoro, e qui siamo d’accordo. Invece il discorso del computer in cella, dobbiamo un po’ inquadrarlo. Non può diventare una cosa maniacale, che uno si metta a lavorare anche in cella; il problema è un altro, di fare anche qui una battaglia per i diritti delle persone detenute, compreso quello di impiegare il tempo in cella lavorando o studiando al computer, dopodiché, su scelta personale, uno con il computer in cella può perfezionarsi o può decidere che di computer non ne vuole più sapere, dopo ore di lavoro, e preferisce fare altro.

Riccardo Rebuzzini

Ci sono situazioni nelle quali, effettivamente, può servire, ci sono altre situazione nelle quali forse si contribuisce a fare degli autogol, perché sappiamo benissimo tutti cosa vuol dire continuare anche dopo l’orario di lavoro a inserire dati, che già di per se è un po’ alienante. È la catena di montaggio di 60 anni fa, oggi si fa al computer, ieri si faceva con le chiavi inglesi, ma è lo stesso tipo di discorso. Continuare a interloquire con un mezzo meccanico: evviva la voglia di chattare, però gli americani si stanno preoccupando per i giovani, che non sono più capaci di relazionarsi. Io credo che qualche problema di capacità di relazione, per colui che ha avuto l’esperienza carceraria, esista, e che comunque bisogna preoccuparsi, nel momento di passaggio all’esterno, proprio delle relazioni. Quindi mi sto domandando quanto questo puntare tutto sul lavoro possa aiutare, soltanto in questo dico di fare molta attenzione.

Ristretti

Voi siete presenti anche nel carcere di Bollate, che a quanto ci risulta dovrebbe essere un istituto sperimentale?

Riccardo Rebuzzini

Come Nova Spes non abbiamo ancora portato lavoratori nel carcere di Bollate: stiamo lavorando, ci stiamo pensando sopra, e si stanno valutando varie ipotesi.

Ristretti

Per la Nova Spes il terreno d’azione è esclusivamente la Regione Lombardia?

Riccardo Rebuzzini

Nova Spes sta facendo un’operazione di... chiamiamolo aiuto, o gemellaggio, con la Regione Umbria. Vengo in questi giorni da Perugina e da Terni, dove ho parlato con il Provveditore alle carceri. Non pensiamo che abbia un senso allargare questa azienda, per farla agire anche in altre zone, pensiamo invece che sia possibile apportare la nostra esperienza per far crescere, in sede locale, delle realtà che possano utilizzare, se vogliono, la tecnologia e le esperienze fatte da noi.

Siamo entrati nel Consiglio d’Amministrazione del Consorzio che è nato in Umbria, lo aiutiamo a crescere e a fare in modo che possa imparare, eventualmente sfruttando le nostre esperienze, a fare cose analoghe.

Ristretti

Avete uno staff che si occupa di questo?

Riccardo Rebuzzini

In questo momento non c’è uno staff ancora formato, però l’intero Consiglio di Amministrazione, l’intero gruppo dirigente, è disponibile a farsi carico di questo momento di divulgazione e di collegamento.

Ristretti

Per avere la certificazione di qualità anche all’interno del carcere, siete riusciti a stabilire dei meccanismi di autocontrollo nell’attività lavorativa, o c’è qualcuno che controlla l’operato di tutti?

Riccardo Rebuzzini

I processi dell’ISO 9000 comprendono entrambe le fasi, ogni persona deve essere in grado di autocontrollare il proprio lavoro e c’è, poi, una persona che ha il compito di controllare il lavoro degli altri. Non è uno del laboratorio interno, perché quella parte di processo deve essere legata al processo esterno e di conseguenza il responsabile della qualità è una persona che ha la responsabilità globale dell’azienda, quindi non solo dell’interno.

Ristretti

Qual è il rapporto percentuale tra le commesse pubbliche e quelle private che ottenete?

Riccardo Rebuzzini

Abbiamo circa un 80% di commesse pubbliche, quindi un 20% di commesse private. Prima avevamo solo commesse pubbliche: piano piano, faticosamente, stiamo vincendo anche questa partita, di ottenere la fiducia dei privati.

Ristretti

La vostra società ha un centro di risorse umane, quindi come selezionate i collaboratori e con quali parametri?

Riccardo Rebuzzini

Noi abbiamo chiamato questo settore Progetto Sociale. Il nostro Progetto Sociale ha due filoni sostanziali: uno per le persone provenienti dall’esperienza carceraria, quindi quelle persone per cui si fa fatica a trovare un inserimento lavorativo, l’altro per le persone in stato di detenzione interna, o in semilibertà. Il Progetto Sociale oggi ha un responsabile (un filosofo), quattro psicologi e un pedagogista, che passano settimanalmente una giornata dentro ogni laboratorio.

Ogni settimana, insieme, rielaborano la situazione, in più hanno dei momenti di supervisione, tipici e classici. Quindi ogni persona è seguita, per quello che ha voglia di essere seguita, in un suo percorso d’inserimento lavorativo dopo l’uscita dal carcere.

I due filoni hanno in comune alcune cose: una grossa attenzione alle persone, sia per quelle "sane", e uso questo termine per indicare coloro che non sono portatori conclamati di un disagio, sia per coloro che il disagio lo hanno. Non è facile creare un’organizzazione nella quale le persone abbiano voglia di lavorare quotidianamente con soggetti in difficoltà. Io vengo da vent’anni di cooperazione sociale, e lavorare con persone disagiate, con i tossicodipendenti ad esempio, non è sempre così semplice, così facile per tutti. Bisogna averlo accettato, interiorizzato, digerito, elaborato. La persona che esce da una situazione di detenzione, normalmente è una persona che non è abituata all’assunzione di responsabilità. Credo di poter dire, con una certa tranquillità, che il carcere contribuisce notevolmente a deresponsabilizzare. Si tratta allora di aiutare una persona a riprendere coscienza della propria necessità di responsabilità: nella vita lavorativa, ma anche nella propria vita di relazione, negli affetti, nelle cose di tutti i giorni.

Ristretti

Operando per conto di altre società e dovendo occuparsi di operai e tecnici, sia detenuti che ex detenuti, il vostro centro di risorse umane vi costa molto?

Riccardo Rebuzzini

Costa qualche centinaio di milioni all’anno. Abbiamo avuto, negli anni passati, dei contributi minimi dalla Regione Lombardia; quest’anno speriamo di avere un contributo un poco più sostanzioso. Diciamo che c’è una certa attenzione, dalla Regione Lombardia, su questo tema e quindi ho buone speranze per dire: c’è una disponibilità, da parte dell’Ente Pubblico, a riconoscere questo sovraccosto, chiamiamolo così, di attenzione sociale. Abbiamo ritenuto indispensabile attuare quello che abbiamo chiamato il Progetto Sociale perché, come dicevo prima, non crediamo che il lavoro risolva tutti i problemi delle persone. Il lavoro è una parte indispensabile, ma non esaustiva: non è l’unica, non può essere l’unica. Perché io, altrimenti, crederei di portare avanti un’idea di vita dove solo lavorando risolvo i problemi. E invece non ci credo! Il lavoro è certamente una cosa che, se manca, crea dei problemi grossissimi, quindi bisogna che ci sia, ma non può essere l’unico elemento.

Ristretti

Rovesciando il discorso, si può dire che il lavoro da solo non risolve nessun problema. Tanto più, e bisogna dirlo francamente, perché qui si ha a che fare con persone che sono abituate a guadagnare tantissimo con pochissima fatica: o crei una struttura, lavori sulla mentalità, oppure il lavoro da un milione e mezzo al mese, da solo, non salva niente.

Ristretti

Sì, qui i problemi sono diversi. Io ho fatto esperienza di attività d’impresa, quindi prima ero imprenditore. Poi, vent’anni fa, ho iniziato a interessarmi di cooperazione sociale, prima con la tossicodipendenza, poi con altri tipi di emarginazione. Sempre, come dire, un po’ legato alla Caritas Ambrosiana. Poi mi è stato affidato il compito di portare avanti il salvataggio e il risollevamento della ex Spes S.P.A.. Questa è stata un po’ la scelta fatta. Quindi, da vent’anni mi interesso di questo tipo di problemi.

Ristretti

Il suo interesse sociale è dato dalla sua appartenenza alla Caritas?

Riccardo Rebuzzini

C’è stato un percorso personale, certamente aiutato dall’esperienza di una famiglia che stava operando anche nell’ambito della Caritas. Naturalmente anch’io nella vita, ad un certo momento, mi sono reso conto che fare l’imprenditore in sé e per sé non era sufficiente: quindi, ben venga il discorso di fare l’imprenditore sociale.

Ristretti

Quando avete rilevato la Spes, avrete naturalmente valutato quali sono stati i principali motivi del fallimento. Quello che c’interessa è di comprendere gli errori fatti, perché le esperienze che nascono e muoiono ti pongono di fronte alle difficoltà di questo tipo di lavoro, quindi bisogna fare tesoro delle esperienze che si sono "sfasciate" o sono in qualche modo fallite, per capire se vi sono stati errori particolari nella gestione del rapporto con il carcere, nel lavoro con detenuti…

Riccardo Rebuzzini

Quando abbiamo rilevato la Spes abbiamo notato alcune carenze e, su queste, abbiamo operato: la mancanza di un progetto sociale, innanzi tutto. Abbiamo, quindi, operato da subito con le Direzioni, con gli educatori, per dare corpo a quello che abbiamo chiamato il Progetto Sociale. Ma abbiamo notato anche una carenza di efficienza tecnica e quindi abbiamo operato per razionalizzare i processi produttivi. Queste sono state due cose importanti che abbiamo fatto.

Ristretti

Adesso che la Nova Spes è una realtà consolidata, quali sono, ancora, i punti critici su cui voi lavorate di più?

Riccardo Rebuzzini

Senz’altro il continuo addestramento delle persone. Questo, però, credo non sia solo il problema di una realtà precaria come quella del lavoro in carcere, ma è generale nel mondo del lavoro.

Il secondo problema è quello di reperire clienti, quindi serve una capacità di vendita che consenta di portare avanti i rapporti con i clienti con la sufficiente continuità e, possibilmente, con la possibilità di espandersi: l’obiettivo è sempre quello di potersi espandere.

Un’altra difficoltà grossa è quella di creare un giusto rapporto, con tutte le componenti, dentro il carcere e fuori, della pubblica amministrazione. Il tema carcere non è un tema del quale, a mio avviso, si può occupare solo il volontariato, solo la cooperazione sociale, solo il Comune…

Uno, da solo, questo problema non lo risolve, chiunque esso sia! C’è la reale necessità di creare una vera rete e, ognuno con le proprie competenze, apportare quanto necessario. Questo è il lavoro che stiamo cercando di fare in maniera molto forte.

Ristretti

Uno dei punti critici, di cui si diceva prima, è il rapporto con le altre componenti del carcere ed in particolare il problema della sicurezza, quindi il rapporto con gli agenti. Voi siete riusciti ad instaurare un rapporto con loro? Qui a Padova le cose hanno cominciato a funzionare meglio quando c’è stato un momento di formazione degli agenti, assieme ai volontari, agli educatori, agli insegnanti, quindi la ricerca di un coinvolgimento maggiore degli agenti in ogni attività.

Riccardo Rebuzzini

Siamo anche noi convinti di questa necessità. Siamo però agli inizi. Credo di poter dire che, senza nessuna cattiva volontà e senza alcun pregiudizio, ci siamo fortemente concentrati, prima, nella risoluzione dei problemi tecnici. Avevamo ereditato una situazione che aveva bisogno di uno scossone, dal punto di vista dell’impianto produttivo. Oggi che questo è stato fatto (e l’ottenimento della certificazione di qualità ISO 9000 dimostra i risultati raggiunti in questo campo), stiamo cominciando ad operare in maniera un po’ più strutturata su quel tema.

Ristretti

C’è qualcos’altro, di cui magari non abbiamo parlato, che vorrebbe aggiungere?

Riccardo Rebuzzini

Continuare ad avere una grande fiducia e continuare ad essere capaci di "stuzzicare" l’imprenditoria. Io credo che gli imprenditori non siano ancora così biechi come qualche volta li si vuole dipingere, ma certamente non conoscono il tema "carcere". Allora, oggi come oggi, la società civile enfatizza fortemente il tema della sicurezza. Un imprenditore si preoccupa del fatto che vanno a rubare nella sua azienda, del fatto che gli portano via la macchina, che gli bruciano il capannone, e via dicendo. Se è fortemente preoccupato di questo e nessuno lo aiuta a capire i meccanismi che stanno dietro, sarà sempre più preoccupato e si costruirà una sua fortezza ideologica, sempre più alta. E questo vorrà dire che, per lui, coloro che sono oggi in carcere, è bene che ci restino sempre più a lungo.

A questo imprenditore bisogna dire: "Se questa persona, in carcere, non ha avuto la possibilità di fare un suo percorso personale, di migliorare, quando esce è così incazzata che hai veramente ragione di avere paura. Bisogna che tu, imprenditore, forse incominci a ragionare anche sul prima di questa persona, per consentirle di uscire in una condizione di persona meno arrabbiata". Questa sarà la sicurezza effettiva, altrimenti di sicurezza, nel futuro, non ce ne sarà.

Queste cose vanno dette. Su queste cose bisogna creare dibattito. Certo, non è facile, io mi rendo conto che tra tutti i problemi che ha, uno dica "Io pago già le tasse, di questo problema deve interessarsene lo Stato!".

Quindi, con quelle tasse, lo Stato deve risolvere quel problema. C’è del vero, dietro a questo. Se lo Stato mi chiede tasse per risolvere un problema e poi non è in grado di risolvermelo, di fatto io sono in condizione di dire "cosa vuoi, ancora, da me?". Credo però invece che, proprio facendo leva sull’inventiva degli imprenditori, bisogna stuzzicarli a pensare che questo capitale umano non è ai margini della società per forza. È ai margini temporaneamente, ma ci sono competenze (e voi credo lo stiate dimostrando con il lavoro che state facendo) che hanno bisogno di essere incanalate. Insomma, se il Nord Est continua a cercare mano d’opera all’estero, perché qui non la trova, se qui in carcere c’è della manodopera qualificata, datemi un buon motivo perché io non debba prenderla qui.

 

 

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