Incontro con Fra Beppe Prioli

 

Fra’ Beppe, un frate poco obbediente

che entra in tutte le carceri

 

(Realizzato nel mese di agosto 2002)

 

A cura di Nicola Sansonna e Claudio Darra

 

Anche in quelle che sembrano dimenticate da Dio e dagli uomini. Di solito durante l’estate gli incontri nelle carceri tra operatori, volontari, e detenuti diventano molto rari sino ad azzerarsi. Fra’ Beppe Prioli è fra i pochi che pensano che i problemi del carcere non vanno in ferie, e così questa estate è venuto a trovarci in redazione e a "confortarci". Per chi è detenuto da molti anni il suo è un nome famigliare. Ma cosa ha spinto Fra’ Beppe ad occuparsi dei detenuti, e cosa sta facendo attualmente? Queste ed altre domande gli abbiamo posto, e parlare con lui è sempre e comunque un’esperienza piacevole, per la carica d’umanità e simpatia che riesce a trasmettere.

 

Fra’ Beppe, sono molti anni che sentiamo parlare di te. Ci vuoi dire chi sei esattamente?

Ho 59 anni e sono 39 anni che frequento gli istituti di pena. Ho scoperto il carcere perché leggendo, per caso, Famiglia Cristiana, nel 1963, trovai la notizia che un giovane della mia stessa età, 20 anni, era stato condannato all’ergastolo. Mi ha colpito e mi ha fatto riflettere anche per la mia scelta, perché non avevo ancora deciso di essere frate. Appena ho potuto gli ho scritto di nascosto: ho subito trasgredito alle regole dei frati. La mia prima visita in carcere l’ho fatta a Porto Azzurro.

Da allora, che l’ho visto, non ho più mollato questo mondo qui. E se oggi sono frate devo dire grazie a Dio del dono che mi ha fatto, grazie a tutti gli amici che ho incontrato e che incontro, che mi danno la carica, la forza di continuare, ma anche uno scopo alla mia vocazione, e poi grazie alla pazienza dei frati, che ne hanno tanta verso di me, perché non obbedisco mai.

 

Abbiamo letto il tuo libro, Fratello lupo. Da cosa nasce questo soprannome?

Era un periodo in cui si davano dei giudizi drastici, tipo: quando uno prende l’ergastolo, non si può più riscattare. Allora mi è venuta l’idea. Con don Ciotti, ho detto: ma come, io è una vita che seguo gli ergastolani che poi escono, alla fine (per fortuna tutti escono), e ho visto persone riscattate. Tra i quali uno che io ricorderò sempre, che è stato un po’ il mio maestro, un maestro che mi ha insegnato ad entrare in carcere, e poi come muovermi, come ascoltare, mi ha suggerito lui che da solo non potevo fare niente, mi ha suggerito lui di far nascere l’Associazione la Fraternità di Verona, nel 1968: Pietro Cavallero. Lui certo ha fatto le sue trasgressioni, però ha saputo riscattarsi, tra l’altro anche facendo dieci anni di volontariato.

Lui non ha cercato giustificazioni per quello che ha fatto, ma quello che mi ha più colpito è che ha chiesto perdono alla città di Milano. Allora era giusto far conoscere all’opinione pubblica, al di là del male (perché il male non va giustificato), la comprensione.

 

Perché nel carcere l’unica cosa che trovo positiva, anche se lo dico "tra virgolette", è che ferma le persone, che le fa pensare. Ma non risolve i problemi. Quando mi ferma e mi fa pensare, se non ci sono però degli operatori che mi danno una mano, chi mi aiuta a riscattarmi?

Io sono sempre in crisi, quando vado in un istituto dove sento persone che fanno una lunga carcerazione senza uno scambio con persone all’esterno. Ci sono istituti dove la presenza della comunità esterna non esiste. Allora io frequento questi istituti, proprio perché la società esterna lì non entra. Ma il carcere ci appartiene, il carcere oggi è società.

 

Quanti istituti hai "frequentato" in Italia?

Io, in questi 39 anni, ho frequentato, direi, 250 istituti. Solo che adesso, nel ritornare, trovo i nuovi istituti, e vado in crisi perché le vecchie strutture avevano i loro problemi, però erano più a misura d’uomo. Nei nuovi istituti, in queste strutture immense, mi sembra che qualcosa impedisca un rapporto immediato. Ci sono dei vantaggi, però ci sono anche molti svantaggi.

 

Sei potuto entrare in tutti gli istituti o in qualcuno ti hanno impedito l’accesso?

No, sono entrato in tutti gli istituti. Nessuno può impedirmi di entrare. Accetto le condizioni, ma quello di entrare in carcere è un diritto - dovere come cittadino, ma anche come francescano. A volte faccio chilometri, anche 1000 Km, per un colloquio solo. È giusto che dia a chi me lo chiede un segnale: per te esisto.

 

Abbiamo saputo che tu - ed altri frati francescani - vi siete recati nel carcere di Tolmezzo. Cosa ti ha spinto sulle montagne, cosa sei andato a fare?

Noi Frati Minori Francescani del Veneto siamo entrati a Tolmezzo. Ovviamente, dopo aver chiesto l’autorizzazione al Ministero, all’ufficio trattamento detenuti, e aver messo quell’ufficio a conoscenza del programma che volevamo svolgere. Hanno espresso parere favorevole sia l’Ufficio trattamento di Roma, che il direttore, il dottor Pirruccio. Un gruppo di giovani frati, una ventina, ha voluto fare un’esperienza in Carnia, una Carnia abbandonata dal clero e priva oggi della presenza dei frati. C’era una vecchia abitudine, che ogni famiglia vedeva un frate entrare casa per casa, ma questo accadeva 50 anni fa. Allora questi giovani frati invece di andare in ferie altrove, si sono recati in Carnia per un mese. Così ho pensato: "In Carnia c’è un carcere, Tolmezzo, ed è giusto, cari frati, che noi entriamo in quel carcere".

Siamo andati in Carnia in sette religiosi, e la missione era impostata su tre punti: l’accoglienza, cioè conoscersi, l’ascolto, l’annuncio della parola di Dio. Però volevamo dare anche un messaggio francescano: Francesco si è incontrato con i lebbrosi; Francesco faceva accoglienza ai briganti; Francesco ha avuto l’incontro con il lupo di Gubbio.

 

Secondo te c’è discriminazione da parte della società nei confronti del carcere?

Secondo me oggi non ci sarà la lebbra in Italia, però ci sono i cosiddetti "lebbrosari". Quando vedo un carcere lontano 20 km. dalla città, per me è un lebbrosario, perché vuol dire che lì ci sono persone che non interessano a nessuno. Quando sono stato al carcere di Teramo, per esempio, ho preso un taxi, e dopo mezz’ora di viaggio ho chiesto all’autista dove mi stava portando: "In galera…guardi che è parecchio fuori", mi ha risposto.

Quando siamo arrivati al carcere ho parlato col direttore, col cappellano e un ispettore, e gli ho detto: "Ma secondo voi questa struttura appartiene alla città oppure no, e se appartiene alla città perché costruirla così fuori, lontano?". Ecco allora perché noi francescani siamo andati a Tolmezzo, ed abbiamo trovato un carcere disposto ad accogliere la nostra iniziativa, pur con tutte le sue misure di sicurezza. Aver trovato il carcere aperto ci ha permesso di portare il nostro messaggio, tanto ai detenuti comuni che a quelli dell’alta sicurezza. In particolare a questi ultimi, perché sono detenuti che si sono dati delle regole loro stessi, e non a caso in quei tre giorni avevano le celle aperte e non c’è stato alcun problema. Siamo stati a Tolmezzo il 29, 30 e 31 luglio, entravamo alle nove del mattino ed uscivamo alle cinque del pomeriggio, eravamo sette frati, e non è stata una cosa da poco.

Abbiamo pranzato in corridoio, un lungo tavolo con 50 persone, e tutto è andato bene, ognuno si è preso le sue responsabilità per il ruolo che aveva: noi come volontari, e le persone detenute, che sono rimaste correttamente nel loro ruolo, comprendendo appieno il significato della nostra presenza. Ci hanno chiesto l’ascolto, ci hanno presentato alcune richieste di un volontariato più professionale, maggiormente preparato. Poi ci hanno chiesto delle attività all’interno e delle opportunità lavorative all’esterno, e per ultimo l’accoglienza alle famiglie che vengono da lontano, affinché trovino un punto di riferimento.

Ecco allora che la nostra presenza non è stata solo in carcere, ma siamo andati in parrocchia, abbiamo parlato anche con il parroco di Tolmezzo ed abbiamo già studiato delle soluzioni. Adesso dovrei incontrarmi con il vescovo di quella cittadina, monsignor Brollo, e poi con il sindaco, quindi faremo un convegno per dire alla città di Tolmezzo che c’è una struttura, il carcere, che ci appartiene.

Dobbiamo vedere noi dall’esterno quale risposta possiamo dare ai cittadini che si trovano all’interno, tutto qui. In carcere siamo tutti uguali, ma ci sono detenuti che vivono in maniera diversa dagli altri, con un regime molto più duro a causa delle strutture e dei reparti in cui per legge sono tenuti, ci riferiamo all’alta sorveglianza, al 41 bis, il cosiddetto "carcere duro", ed è difficilissimo per chiunque incontrarli.

Sono situazioni delicatissime, noi abbiamo chiesto soltanto di celebrare una messa e di pregare con loro, e ci è stato concesso. Abbiamo voluto dare un segnale importante: che per noi francescani l’uomo, in qualunque situazione si trovi, non può essere privato della parola di Dio.

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