Discussioni in redazione

 

Com’è difficile “raccontare con le immagini” il carcere!

La galera fotografata, ricostruita fuori, raccontata. Il rischio di rappresentare il carcere solo come un concentrato di tutti i disagi e i disastri umani

 

(Realizzata nel mese di gennaio 2006)

 

a cura della Redazione della Giudecca

 

Come “raccontare” con le immagini il carcere a chi non lo conosce, e se ne è fatto un’idea solo dai film americani, dove il carcere è prima di tutto violenza, sopraffazione, conflitti tra etnie diverse? Ne abbiamo parlato tempo fa nella redazione della Giudecca, a partire da alcune fotografie che avevano per tema il carcere, bellissime per altro da un punto di vista puramente estetico, ma “discutibili” per il modo in cui rappresentavano la condizione della detenzione, soffermandosi soprattutto su particolari “forti”, da galera, i tatuaggi, le sbarre, le cicatrici, lo stato di abbandono. Ora abbiamo deciso di pubblicare il testo di quella vecchia discussione, perché risulta ancora attuale e ricca di stimoli, in un momento in cui c’è forte interesse a “rappresentare la pena”, e si fanno in questo campo tentativi stimolanti, come quello della Triennale di Milano, che ha ricostruito alcune celle e trasportato i suoi visitatori direttamente all’interno di una galera. O quasi.

 

Marta: Nelle fotografie fatte in carcere si finisce per vedere solo il lato negativo, tetro, brutto, domina il “lato oscuro” delle persone e pare ci sia solo quello. Diciamo che si vede unicamente quell’aspetto che appartiene già al modo comune di immaginare il carcere, che quasi tutti ci siamo costruiti vedendo certi film.

Giulia: Non mi piace l’idea che certe immagini richiamano, che è quella del carcere come concentrato di tutti i disagi e i disastri umani. Che suscitano pietismo in chi le vede dall’esterno, vittimismo in chi è protagonista “dentro”. Questa non è l’immagine reale del carcere. È vero che il carcere è composto anche di queste persone, ma essendo questa una microsocietà all’interno della società, bisogna anche pensare che noi, se fuori vogliamo rappresentare la società, mica fotografiamo solo la disperazione, che certo è una componente della vita ma non l’unica né la più rappresentativa, neppure in carcere. Il carcere può essere vissuto in modo estremo, con fortissimo disagio, dalle persone private della libertà, ma non è comunque solo disperazione, sennò non avrebbe manco senso fare un giornale e altre attività. C’è anche vita qui dentro.

 

Noi al mattino ci alziamo e ridiamo pure, scherziamo, parliamo come fanno le persone normali, fuori

 

Massimo (insegnante): Però è la stessa cosa del film che abbiamo visto, “Fine amore mai”, si riprendono di solito gli aspetti più eclatanti, che colpiscono di più.

Giulia: Se però vogliamo rappresentare il carcere, dobbiamo rappresentarlo per come è realmente: è composto da tante cose e non solo dalle disgrazie. Se invece vogliamo fare delle foto per esprimere con le immagini lo slogan del carcere come “discarica umana”, allora va bene, proponiamo queste foto. Ma l’idea che mi interessa di più è di riuscire a far percepire il carcere nel senso di un incidente, un fatto che può toccare a molti, che erano e restano persone come le altre che stanno fuori. In carcere si ride anche, in una logica di sopravvivenza, di sopravvivere cioè a questa esperienza, di uscirne indenni, ma comunque si “vive”, con dei limiti, delle barriere, ma si vive. Si gioca in carcere, si litiga in carcere, c’è privazione della libertà, degli affetti, ma c’è vita, i detenuti sono vivi. Un microcosmo limitato, ma “vivo”.

Marta: Ci sono fotografie e filmati sul carcere che servono più che altro ad accentuare l’idea che già uno aveva, di pesante negatività, ma se fuori devono avere un’idea del genere, automaticamente finisce che anche io che sono qui ora faccio parte della “discarica”, e mi porterò dietro questa etichetta una volta uscita. Se la gente fuori ti vede così quando sei reclusa, è brutto.

Gena: Non mi piacciono molto queste foto, perché io vedo come siamo fatte noi, vedo che non sembriamo così “carcerate” come ci vogliono certe immagini, tutte così disperate e angosciate. Noi al mattino ci alziamo e ridiamo pure, scherziamo, parliamo come fanno le persone normali fuori.

Giulia: La società è composta anche da persone come tante di quelle fotografate in carcere, tagliate tatuate ecc., ma fanno parte del mondo. Non è che il carcere abbia solo queste componenti, queste persone: altrimenti davvero succede che già siamo pregiudicate, facciamo fatica ad inserirci, dobbiamo stare attente a dire che siamo state detenute, e poi ci fanno vedere così! Finisce che veniamo proprio marchiate!

Marta: Forse restiamo “pregiudicate” a vita.

Ornella (volontaria): Quando vedo molte foto o filmati sul carcere, ho spesso l’impressione forte della foto segnaletica. Dove ognuno risulta poi assomigliare molto a quello che si chiama un “avanzo di galera”. Mi ricordo un numero di Colors, la rivista della Benetton, tutto dedicato alle galere del mondo, tra l’altro sono venuti anche alla Casa di reclusione di Padova. Hanno fatto foto in carceri di tutto il mondo. Però se io voglio realmente cercare di avvicinare il carcere alla città, devo prima di tutto far capire la “normalità” di tante delle persone che ci stanno dentro e nello stesso tempo far vedere l’”anormalità” del carcere, il fatto che il carcere è un luogo orrendo, mentre in molti libri di fotografie o filmati sembra che siano orrende le persone.

Giulia: So che con queste foto, e con altre che hanno fatto anche qui alla Giudecca, sono state allestite delle mostre. Io allora mi domando: le mostre sono state fatte per esporre delle foto o per rappresentare attraverso le foto il carcere? perché se si tratta di una mostra di fotografie è una cosa, sono foto belle, se invece le foto vogliono dare un’idea di come è il carcere, allora per me l’idea che danno è spesso lontana dalla realtà, che è ben più complessa.

Massimo: Molto probabilmente chi entra in carcere per fare un lavoro per la prima volta percepisce tutto in negativo, e tende a vedere questa angoscia in qualunque cosa viene fatta dentro, perché la mancanza di libertà è un fatto angosciante per chi la incontra davvero per la prima volta. Se invece poi tu hai un’esperienza più lunga di “frequentazione” del carcere, entri in contatto con le persone e scopri che dietro le facciate c’è invece un mondo con un’umanità e una vivacità, c’è l’essere umano  con la sua storia e la sua realtà, i suoi vuoti ma anche i suoi pieni.

Giulia: Perciò se tu devi rappresentare il carcere, devi anche capire che ci sono altre immagini per rappresentarlo, che qui siamo persone che compongono come le altre la società e non siamo tutte o quasi casi disgraziati come appare in molte foto. Questa raccolta di foto, per esempio, di donne detenute, sembra un concentrato di disastri, donne bucate, tagliate, coperte di cicatrici. Esattamente quello che si pensa fuori, quando si dice che il carcere è una discarica. Termine usato da molti e direi spesso a sproposito, o meglio in un modo che rischia di ingabbiare tutta la realtà del carcere in quella che è una parte, un aspetto di questa realtà. E già parlare di discarica stimola la gente che sta fuori a pensare che qui non vi sia dignità.

E un’altra cosa non capisco: che cosa le foto “sfigate” dovrebbero provocare in quelli fuori? Forse abbiamo paura che, se si fa vedere che siamo “normali”, fuori poi pensano che stiamo bene, che non siamo così malridotte, che non ce la passiamo poi così male? Però bisogna avere il coraggio di dire che non è reale far vedere che le persone qui sono solo persone che stanno male. Voglio dire: è come fuori, gli abitanti di un carcere possono essere tutti di ogni estrazione sociale, sani, malati, e questo dovrebbe emergere, qualunque metodo si adotti per rappresentare il carcere, foto, film, un libro.

Massimo: In questa raccolta, però, ci sono anche delle foto gioiose, non ci sono solo la tristezza e i toni cupi. Ci sono immagini di gioco con l’altalena nel cortile, foto di amiche che esprimono gioia.

Giulia: Chi va a guardare una mostra fotografica che ha per argomento il carcere, per la maggior parte ha una curiosità morbosa, perché fuori questa realtà non si conosce proprio, anzi c’è un immaginario tutto negativo in proposito, ed allora cosa rimane? Rimangono le immagini peggiori: quella con le cicatrici, quella tutta tagliata, che sono anche quelle dominanti nel libro.

Ornella: Io però mi sono posta il problema di come si può trasmettere qualcosa di diverso sul carcere, intendo dire trasmettere l’idea della “normalità” delle persone che ci stanno dentro, non del carcere, che non ha nulla di normale, la normalità intesa come persone che ci assomigliano, che non sono molto diverse da noi che stiamo fuori. Poi ho notato un’altra cosa, che riguarda ugualmente la difficoltà di comunicare cos’è il carcere. Ho visto cioè altri filmati realizzati in carcere, per esempio uno nel carcere di Verona e uno in quello di Padova, dove mostrando solo le attività più interessanti, e ce ne sono naturalmente, si finisce per fare un “santino” di tutte le cose belle, iniziative ben organizzate, esperienze innovative… Allora se tu fai vedere solo questo, poi fuori non ci si rende conto di cosa è davvero la privazione della libertà, e anzi tanti cominciano a pensare: “Però, non stanno mica molto peggio di noi!”.

Noi siamo andati in una scuola, a un incontro con i ragazzi, e i detenuti hanno faticato a spiegare che poter guardare la televisione 24 ore su 24 non significa stare bene. Non è facile far capire che non puoi telefonare al tuo amico, non puoi andare a mangiare una pizza, non puoi farti la doccia se ne hai voglia. Io se dovessi  ritrovare il momento in cui, dopo anni che entro in carcere da volontaria, ho capito più pesantemente cos’è il carcere, dico sempre che è quando riaccompagno qualche detenuto che rientra da una uscita in permesso, magari in una sera d’estate, e mentre fuori la vita continua, le piazze sono piene, c’è musica, si respira un’aria più libera, vedi invece le persone inghiottite da questo posto deprimente.

Massimo: A me piacerebbe fare qualcosa anche qui alla Giudecca su questa questione. E la strada giusta secondo me è quella di far parlare le persone, quella di mettere le persone in qualche modo non dico a raccontarsi nel senso di raccontare le loro storie, ma raccontare le loro sensazioni, le emozioni che provano, forse allora si esce dall’ottica del documento “depressogeno” e anche da quello che Ornella definisce il “santino”, le belle cose, l’orto, la fitocosmesi, la sartoria, che poi uno dice: “Si sta bene in galera!”. Non è questa la galera, è la mancanza di libertà e secondo me è chi vive in prima persona la detenzione che potrà in qualche modo parlarne. Bisogna dividere prima di tutto l’ambiente dalle persone, che devono invece emergere con le loro gioie, i loro dolori, le loro paranoie, i loro interessi, in modo che la gente capisca che l’interiorità delle persone dentro è fatta di vari momenti, che non sono tutti tristi né tutti angosciosi.

Giulia: Quando si parla di “privazione della libertà”, non è però solo in senso fisico che la si deve rappresentare. Qui non puoi decidere niente, se non piccolissime cose che anche quelle sono “elargite”, ci sono mille cose che appartengono a un essere umano e che qui non ti è dato di avere. La libertà  non è che non esiste solo perché sei chiuso.

Ornella: Se doveste rappresentare voi quello che pesa di più, che più vi manca, da dove comincereste? Marta, se tu dovessi rappresentare quello che ti manca di più rispetto alla tua vita in libertà, cosa ti viene in mente come perdita più grave?

Marta: La possibilità di spaziare quando voglio e dove voglio. Anche nella vita fuori ci sono dei doveri e dei limiti, ma uno si organizza la sua vita come meglio crede per la propria persona. Qui proprio non si può organizzare la propria vita per come è meglio per se stessi, qui è tutta organizzata, devi solo seguire il corso e stop. 

Massimo: Ma anche nella vita  “normale” fuori non ti organizzi la vita realmente come vuoi. Tu fuori ti confronti con tutta una serie di cose, come avere una casa, avere un lavoro e poi degli affetti, e tutte queste cose non ti permettono comunque di alzarti dal letto e dire “Oggi spazio liberamente”, non puoi!

Marta: Certo quando ero fuori non andavo tutto il giorno in giro a vanvera, però oltre i doveri mi organizzavo per me come volevo; qui non puoi, qui organizzano gli altri, l’istituzione. Qui seguo ciò che hanno deciso altri, con spazi e tempi precisi che possono o non possono andarmi bene, ma devono andare bene! Gestire il mio tempo, ecco cosa mi manca. Fuori ho sì anche i doveri, nel senso che è ovvio che bisogna lavorare, ma nel tempo che ho libero dal dovere, scelgo io cosa fare, andare al bar piuttosto che incontrare una amica. Qui tu fai ciò che è preorganizzato.

 

Mi manca la mia casa… la mia camera… il mio spazio

 

Ornella: Mi ricordo il primo numero del nostro giornale, che è uscito con una scritta di un murale di un ponte di Parigi, “Il mondo è una prigione ma una prigione modello”. Ecco, noi che siamo fuori abbiamo sempre la tendenza, anche in parte logica, a dire “Sì, però fuori non è che siano tutte rose e fiori”. Ma nonostante tutto, ed è quello che dobbiamo proprio cercare di spiegare, c’è un abisso tra le cose fuori e dentro. Anche fuori non ti sei scelto tutto perché è la vita che a volte ti costringe a fare una cosa piuttosto che un’altra, però è diverso! Io prima facevo l’esempio di riaccompagnare un detenuto in carcere in una sera d’estate, la realtà è che poi io magari torno a casa, vado a letto e non è che mi butto a vivere e a fare chissà cosa, però la qualità della vita è radicalmente diversa quando tu comunque hai dei margini di scelta!

Giulia: Fuori anche solo sul mangiare puoi scegliere, qui puoi scegliere di non mangiare, è vero, ma visto che mangiare è naturale, o mangi ciò che passa il convento oppure a discapito tuo non mangi! Qui non esiste scelta tra una possibilità e un’altra a tuo favore, neppure nelle più piccole cose.

Marta: Anche solo il fatto che la sera che stai per i fatti tuoi, arriva uno ad osservarti dallo spioncino… insomma! È assurdo!

Massimo: Secondo me sarebbe una cosa interessante passare da un atteggiamento critico ad un atteggiamento costruttivo, dovremmo essere noi in qualche modo, che potremmo dire: va bene! fino a questo punto si è parlato in un certo modo del carcere, ma forse si può parlarne in maniera diversa, raccogliere in qualche modo la sfida.

Marta: Per far vedere almeno un po’ la realtà del carcere dovremmo riuscire a far capire a quelli di fuori che queste persone poi comunque dovranno rientrare nella società. Dare l’immagine di persone escluse temporaneamente dalla società, per far capire che devono essere reinserite, e allo stesso tempo persone che sono come loro (quelli fuori), e che potrebbero esserci loro al nostro posto: questo è il difficile.

Giulia: Si potrebbero rappresentare due vite parallele, la vita “normale” fuori e la vita dentro. Potrebbero essere due persone che vivono dalla mattina alla sera idealmente “fianco a fianco”, ma una in carcere l’altra nel mondo “libero”, oppure pezzi di vita di una stessa persona, prima quando era in libertà, poi quando è finita in galera.

Ornella: Certo, ma rappresentando vite parallele bisogna cogliere quello che davvero manca di più. Voi cosa direste a questo proposito se doveste rappresentare ciò che vi manca di più?

Gena: La mia casa… la mia camera… il mio spazio.

Veronica: I miei bambini… i miei familiari… il mio tempo… la mia aria… io viaggiavo…

Giulia: Il tempo mio, perché le ore qui sono scandite dagli altri.

Ornella: Dal punto di vista del tempo, qual è il momento più insopportabile in galera?

Marta: Dalle otto di sera in poi specialmente con la bella stagione, è lunga la serata… non puoi andare a letto presto, potrebbero almeno chiudere il blindo due ore dopo.

Gena: Per me la mattina… il risveglio, ora che mi rendo conto mi manca un risveglio “dolce”, qui devi fare i turni per andare in bagno, poi aspettare per fare la doccia… Mancano gli spazi personali, esci dal sonno ed entri in un incubo.

Giulia: A me manca la mia vita, che non è questa.

 

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