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Detenuti a confronto con i giudici Con i Magistrati di Sorveglianza di Padova, parlando delle sintesi che non ci sono, di “revisione critica del passato deviante”, delle revoche delle misure alternative, e della legge cosiddetta “ex Cirielli”
a cura della Redazione, novembre 2005
I Magistrati di Sorveglianza di Padova, Antonino Cappelleri e Giovanni Maria Pavarin, hanno preso la “piacevole” abitudine di farsi “interrogare” ogni tanto da noi in redazione. Con loro abbiamo parlato dei problemi legati alla nostra realtà padovana, come la mancanza di operatori che allunga a dismisura i tempi delle relazioni di sintesi dei detenuti, senza le quali è difficile accedere ai benedici, ma abbiamo affrontato anche temi che riguardano tutti, come il disastro della nuova legge “ex Cirielli”, che a breve si abbatterà sulle carceri con effetti pressoché ingestibili.
Paolo Moresco (Ristretti Orizzonti): Vorremmo partire dalla questione dei permessi: forse sarebbe necessaria una maggiore ampiezza di possibilità, per esempio per motivi di cura.Il fatto che un detenuto non possa chiedere un permesso per andare a fare una visita medica, ma ci debba andare in manette, è una piccola assurdità che potrebbe essere risolta. Non è insensato che uno che già accede ai benefici, e si deve fare una lastra, non possa farla all’ospedale nel corso di un permesso? Anche perché dal punto di vista dei conti dello Stato è veramente ridicolo che si impegnino tre agenti, per un solo detenuto. Antonino Cappelleri: Le posso solo dire che non mi è capitato una volta, ma più volte di inserire, per esempio in un permesso di una settimana, la facoltà di uscire dall’abitazione e tra queste uscite, in maniera dichiarata, la possibilità di visite mediche, questo ci può stare benissimo. Giovanni Maria Pavarin: Aggiungo che i parametri della legge, indicati per la concessone dei permessi, sono sostanzialmente due: la regolarità della condotta e la pericolosità sociale, e gli scopi cui il permesso può essere rivolto sono scopi affettivi, culturali e di lavoro. è vero che è una limitazione assurda e abbiamo appena fatto un esempio: se me lo chiedi solo per andare in ospedale, io che applico la legge dovrei dirti di no, ma di fatto è il buon senso a intervenire, e se uno va a casa dieci giorni per motivi affettivi e deve togliersi un dente o andare a fare qualche altra visita, questa documentata, lo si concede da sempre. Ma se uno chiede il permesso solo per andare dal medico o solo per partecipare ad una udienza non si concede, perché la legge ce ne fa divieto.
Elton Kalica (Ristretti Orizzonti): A Padova i tempi di attesa delle sintesi sono di media due anni, due anni e mezzo. Vorrei sapere com’è che si comporta il magistrato quando trova una richiesta di permesso per una persona che ha un residuo pena breve, ma non ha ancora la sintesi, in considerazione del fatto che se aspettasse la sintesi raggiungerebbe il fine pena. Antonino Cappelleri: Questo mi pare abbia già una risposta nei fatti delle nostre decisioni. Noi spesso abbiamo tralasciato di chiedere la sintesi, o meglio abbiamo tralasciato di ottenerla, sostituendola molto spesso con un sollecito di una relazione comportamentale, oppure, quando è possibile, valutando la situazione nel suo complesso e assumendoci noi il compito di sintesi, ossia della valutazione complessiva, là dove, per tutte le difficoltà che conosciamo, non è possibile ottenere di fatto che l’osservazione sia fatta dall’équipe. Tutto questo senza un criterio assoluto: altre volte, in qualche provvedimento, ho detto infatti che non potevo decidere senza, ma questo dipende da casi particolarmente difficili per cui ad un certo punto non riesco a vedere da me e ho bisogno dell’appoggio necessario dell’équipe d’osservazione. Giovanni Maria Pavarin: Perché chiediamo la sintesi? Perché vogliamo sapere chi è il soggetto. Se è uno che già conosciamo ed ha avuto una misura alternativa e gli è stata revocata ed è tornato in carcere, della sintesi, salvo in casi particolari, ce ne facciamo poco, sappiamo tutto quello che ci interessa, magari anche troppo. Però, in questo caso, per esempio la sintesi potrebbe servire per capire se c’è un mutamento positivo, per cui non è una difesa formale, ma è proprio la necessità di conoscere che ci induce a chiedere il parere e i dati di cui sono a conoscenza le persone che sono a contatto più di noi con i detenuti o che dovrebbero esserlo. Ci sono detenuti che io conosco e che il direttore non conosce, ci sono detenuti che io vedo tre volte all’anno e detenuti che l’educatrice vede una volta ogni due anni, per cui non è che ci nascondiamo dietro un dito. Là dove si può giudicare, scrivere una parola perché si ha la sensazione di conoscere qualcosa, allora, in quell’ipotesi, decidiamo nel merito. In tutti gli altri casi, quando non riusciamo a dire né sì né no, perché abbiamo una specie di buio davanti, allora chiediamo questo documento di sintesi. Certo se ci fossero dieci educatori le sintesi sarebbero più rassomiglianti a quelle che vengono redatte presso i piccoli istituti, in cui si ha veramente un quadro completo della persona.
Paolo Moresco: Io non ho ancora messo il naso fuori, quindi parlo per sentito dire, ed in genere tra le cose che si sentono dire ci sono spesso recriminazioni, lamentele sulla severità assoluta delle prescrizioni, sia durante i permessi, sia per quelli che sono in semilibertà. Si sa che poi la verità la raccontano tutti solo a loro favore, però ci sono alcune cose che mi sembrano strane, ad esempio il divieto di usare il telefono cellulare. Giovanni Maria Pavarin: Le prescrizioni possono apparire stupide, l’idea di stare in casa di notte corrisponde ad un’idea ottocentesca secondo cui il delinquente delinque di notte. Tutti voi mi insegnate che al giorno d’oggi se uno vuole fare qualcosa può farlo di giorno benissimo o anche di notte stando a casa sua. Queste però sono regole piccole che servono a non dimenticare che siamo in esecuzione penale ed ogni pena comporta una componente afflittiva. Serve a giustificare, di fronte all’opinione pubblica, il premio che si è concesso. è fuori dal carcere però almeno ha l’obbligo di stare a casa la notte. Servono a capire che io riesco ad osservare una regola piccola, magari stupida, dando così la prova che posso osservare anche le regole più grosse. Dalla capacità di adeguarsi a queste regole si desume la capacità che il soggetto ha di attenersi ad un comando che gli viene dall’esterno. Per il cellulare, anch’io a certi affidati che lavorano impongo il cellulare, ma quello è un affidato. Se però leggete molte ordinanze di revoche, traggono origine da indagini che hanno portato a verificare che il soggetto ha cominciato a riallacciare rapporti pericolosi facendo uso di questo strumento micidiale che è il cellulare, che ti può servire a lavorare meglio, essere più raggiungibile, spendere meno, ma è anche una fonte di tentazione, nel senso che può allentare la tendenza che si ha a controllare i freni inibitori. è ovvio che se uno ci spiega perché e ci convince, non è che c’è una regola assoluta che ci induce a far divieto del telefono cellulare, anche lì usiamo il buon senso.
Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): Vorrei tornare sulla questione delle revoche. Io penso che le persone che sono qui ovviamente è perché non hanno rispettato le regole, ma non si impara rapidamente a rispettare delle prescrizioni, a seguire un percorso rigidissimo. La revoca con i tre anni che bisogna aspettare prima di avere un’altra misura alternativa, in un percorso che è stato magari complessivamente positivo, qualche volta sembra molto pesante. Perché fuori le regole faticano tutti a rispettarle, anche i “cittadini liberi,” e mi sembra molto dura pensare che un detenuto in misura alternativa riesca ad organizzarsi la vita senza commettere errori. Qualche volta succede di sbagliare, e tre anni per ricominciare mi sembrano molti. Giovanni Maria Pavarin: Anche qui bisogna sfatare una leggenda, intanto bisogna leggere le ordinanze di revoca, perché c’è un discorso giuridico ed uno di fatto. Il discorso giuridico è che non si può tornare indietro, nel senso che se un affidato si comporta male non possiamo dire: “Ti diamo la semilibertà”, la legge impedisce che si torni al gradino precedente, dall’affidamento alla semilibertà, e bisogna cominciare tutto dall’inizio, e questo per tre anni. Quali sono i pensieri che passano per la nostra testa quando revochiamo qualcosa? Il primo pensiero di fronte ad una relazione negativa o ad un rapporto dei carabinieri è di entrare nella testa del condannato e di capire qual è stato il percorso che lui ha seguito per tenere un certo comportamento. Voglio precisare una cosa, la revoca non è che consegue solo la mera violazione di una prescrizione cretina. Anche se molti comportamenti prevedono la revoca, in genere si porta pazienza, e ci sono campanelli d’allarme che vengono messi lì: si fa richiamare il detenuto, lo si convoca e gli si dice che così non va bene, alla seconda, terza, quarta volta cade la scure. L’ultima revoca che ho fatto è per un tossicodipendente che ha avuto il beneficio, non è riuscito a smettere né al primo, né al secondo, né al terzo mese, io l’ho chiamato chiedendogli se era vero che aveva questo problema, e lui ha sempre negato e dopo due anni è completamente scoppiato. Ma il primo dispiacere è il nostro, perché dobbiamo smentire noi stessi, quando facciamo marcia indietro è come se dicessimo: siamo stati scemi, perché abbiamo dato qualcosa ad una persona che nei fatti ha dimostrato di non riuscire a reggere quella misura. Quindi il dispiacere, lo stupore e lo sconcerto che sono vostri sono anche nostri, però vi prego di credere che di revoche ingiustificate o stupide ne ho viste pochissime. Io ritengo che i criteri che noi adottiamo sono abbastanza nella media del buon senso, e spesso la revoca si fa per proteggere la persona che va alla deriva e se continuasse a stare dov’è combinerebbe dei guai peggiori.
Ornella Favero: La questione dei tossicodipendenti è comunque davvero complessa a tal punto che la revoca e il ritorno in carcere possono essere inevitabili, ma non so quanto servano, dato che quando usciranno definitivamente, il problema si ripresenterà pari pari. Mi sembra che molte cose non funzionino nel rapporto tra carcere e tossicodipendenza. Antonino Cappelleri: Al fondo della questione della revoca o della non concessione al tossicodipendente della misura alternativa, c’è sempre il discorso della possibilità di dare fiducia rispetto a un percorso di riabilitazione personale, e c’è però il problema del garantire la sicurezza alla società, che è sempre il problema parallelo e che spesso sconfigge l’esigenza di una riabilitazione personale, per cui si è portati a dover privilegiare la questione del contenimento della pericolosità sociale, e questo spesso finisce per essere prevalente sulla logica della rieducazione. Tutto si inserisce in un meccanismo che è veramente difficile da gestire, e molte volte dà risultati tutt’altro che ottimali.
Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Ci piacerebbe sentire il vostro parere sulla ex Cirielli, perché questa come altre leggi approvate di recente sembrano un po’ dei tentativi di ingabbiare i magistrati riducendone la discrezionalità: al Magistrato di Sorveglianza, per esempio, viene imposto in fase di esecuzione della pena di limitare la concessione dei benefici. Ci potrebbero essere dei recidivi che magari meritano comunque un beneficio ed invece vengono esclusi. Abbiamo poi una domanda tecnica sulla legge ex Cirielli, nella parte in cui modifica l’Ordinamento penitenziario: non trattandosi di una norma penale in senso stretto, può essere retroattiva oppure andrà applicata solamente per chi ha commesso il reato dopo l’entrata in vigore della legge stessa? Antonino Cappelleri: Quello che mi fa paura di questa legge è che viene da un contesto di persone che hanno mentalità forse di ottimi penalisti, ma non conoscono la specificità del diritto penitenziario. Praticamente sotto il profilo penitenziario la ex Cirielli è una legge che scimmiotta il sistema americano del “dopo tre volte finisci dentro a vita”. Con quali strumenti lo vuole attuare? Lo vuole attuare con strumenti che vengono dall’ottica di chi fa diritto penale sostanziale: ossia, qual è il sintomo? Il “sintomo” è il terzo reato, la recidiva, il fatto che per più volte è stata violata la legge penale. Se ci pensate dietro a questa mentalità c’è un’assoluta sconoscenza e non considerazione della funzione rieducativa della pena. Ci si ferma quindi ad un’osservazione, non del soggetto, ma del comportamento oggettivo, che è il reato. La mia considerazione è semplice: Ma scusate, volete inasprire l’attuale sistema? Perché invece che al terzo reato dire che sei finito, non mi dite: “Al terzo, secondo o quello che volete, tentativo rieducazionale fallito, allora sei finito?”. In realtà questo mi fa ritenere che non è ancora matura l’esigenza di pensare alla pena anzitutto come rieducazione. Giovanni Maria Pavarin: Nel ‘91, quando è entrata in vigore una legge che ha ristretto la concedibilità dei benefici penitenziari (4 bis), la Cassazione non ha esitato a dire che il principio della irretroattività della legge penale incriminatrice non si applica in tema di esecuzione della pena. Il legislatore può intervenire in fase esecutiva ad aumentare i termini per l’ammissibilità dei benefici. Prima che venga commesso un reato, devo sapere con quanto è punito, e quando l’ho commesso, non mi posso lamentare della pena che mi hanno inflitto, però possono cambiare i termini e le modalità dell’esecuzione. Questo è il principio, sia pure con qualche eccezione forte, che la Corte Costituzionale ha introdotto. Con la recidiva reiterata i giudici hanno una discrezionalità che è limitata, e queste limitazioni vengono poste per lo più tutte le volte in cui la discrezionalità viene usata male. Il legislatore interviene a dire: “Ci penso io al posto tuo, ci sono tanti condannati che vanno in giro a commettere altri delitti, o a dire che i giudici li mollano subito, allora faccio io una valutazione anticipata di non concedibilità di certi benefici, a te magistrato lascio giudicare solo se il condannato può avere o meno il permesso dopo che ha fatto i 2/3 della pena, per esempio”. Più la discrezionalità viene usata male, secondo loro, più viene tolta da parte di chi fa le leggi, che è preoccupato che il potere che tutti noi abbiamo di amministrare la pena sia, appunto, usato male. Il 624 bis (furto in abitazione), perché l’hanno introdotto? Perché i nostri colleghi di fronte al nomade e allo zingaro riuscivano a dare anche solo 15 giorni di galera per un furto in casa, ora questo non è più possibile. Adesso con tutto il gioco delle attenuanti non posso scendere sotto una certa soglia. La legge dice: tu metti fuori o condanni a poca pena chi fa i furti in casa, allora ci penso io, ti tolgo la discrezionalità, stabilisco un reato autonomo, ho scelto di chiamarlo 624 bis, per il furto in casa e per lo scippo, tu al di sotto di questa pena non puoi andare, di te non mi fido perché ci sono troppi ladri in giro. Quindi mi pare abbiate colto in pieno la logica che presiede a questa scelta, di limitare la discrezionalità e di mettere dei paletti al disotto dei quali noi non abbiamo nessuna facoltà di dire sì o no, ma solo di dire che l’istanza non è ammissibile. Mi pare però preziosa l’osservazione che ha fatto il dottor Cappelleri: questa “scure” andrebbe messa per chi ha già avuto una chance in carcere o per chi ha già avuto una misura alternativa, quando era libero, allora sì che dopo la terza volta che ti fai revocare una misura o che dimostri che l’anno che sei stato in carcere non ti è servito, ti dico: “Caro mio una volta, due, tre…!!!”. Ma se io commetto un furto oggi, prendo 4 mesi e sono libero sospeso, ne commetto uno domani, un’altra condanna, il pubblico ministero mi dice di fare un’istanza per una misura alternativa, non ho mai “assaggiato” né il carcere né i Servizi Sociali che si occupano di esecuzione della pena, allora trovo perfettamente ingiusto che mi si sbarri la strada e mi si obblighi ad entrare in carcere subito. Penso soprattutto ai ragazzi che hanno 18/19 anni, che sono sbandati, che fanno reati di cessione di droga, l’articolo 73 quinto comma (detenzione e spaccio di modica quantità di stupefacente), dopo la terza volta che li trovano per loro c’è il carcere, anche se mai nessuno ha tentato di farli ragionare, né il carcere né i Servizi Sociali. Quindi condivido in pieno questa osservazione che mi pare molto intelligente e che conferma che chi legifera in questa materia ha poca confidenza col carcere e con la pena, ragion per cui è nostro ed anche vostro intendimento quello di far conoscere, a più gente possibile, il nostro mondo, e mi pare lo facciate anche bene col vostro giornale.
Ornella Favero: Vorrei affrontare un’altra questione, quella della revisione critica del passato e delle vittime del reato, perché so che ogni tanto ci richiamate anche a parlare di questo. Il concetto di revisione critica ci lascia sempre delle perplessità: mi ricordo che lei, dottor Pavarin, nel precedente incontro parlava di una cosa che è importante, ed è la sincerità delle persone. Però come si misura la sincerità se si chiede ad una persona di fare la revisione critica? Come si fa ad evitare il rischio che questo diventi solo un puro atto formale dove chiunque, pur di conquistarsi la libertà, mentirebbe? Dopo di che ci sono senz’altro delle persone che questa revisione la stanno facendo, ma non è più che altro un problema di coscienza difficilmente misurabile? Giovanni Maria Pavarin: Io dico una cosa molto semplice. Non condivido questa moda secondo cui non sarebbe giusto parlare di revisione critica, perché è una roba religiosa, perché non c’entra con lo stato laico: queste sono tutte obiezioni che mi sento sollevare quando faccio questi discorsi. Il diritto penale è la cristallizzazione della morale minima comune, non rubare, non uccidere ecc., quindi siamo in un pieno fenomeno di coscienza, di anima, di spirito. Se io l’ho violato e mi trovo di fronte ad un giudice che deve decidere se sono meritevole, degno e pronto ad essere ammesso nel contesto sociale devo partire da lì. è vero, ho fatto quello che non dovevo fare, il cammino comincia da lì, non c’è trattamento se non c’è ammissione della mia colpa, e mi rifiuto di credere che quelli che sono seduti a questo tavolo mentirebbero pur di avere un beneficio. Non lo credo e se fosse così vorrei che mi si desse la capacità di distinguere chi mente e chi no, questo fa parte del nostro lavoro. La mia esperienza però mi dice che nel dialogo, nel colloquio che si fa in carcere, spessissimo se è sincero il detenuto lo sono anch’io, e ci diciamo le cose come stanno. Poche volte ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad un detenuto che mi imbroglia. Quando si parla in due e si sta lì del tempo, perché devo partire dal presupposto che l’altro voglia imbrogliarmi? Ho fiducia nell’uomo e ho fiducia nella capacità che le sberle che l’uomo riceve riescano a cambiarlo. Entrare in carcere è la più grande sberla che un uomo può ricevere; ce ne sono anche prima, il processo, la condanna, gli amici, parenti, familiari ecc., ma il giorno in cui ti prendono ed entri in carcere è il giorno che ti cambia la vita, così molti di voi mi raccontano. Perché devo credere che un uomo che è stato chiuso a chiave, portato via dalla sua famiglia, dalla sua città, la prima cosa che fa è quella di prendermi in giro? Ma non ci penso nemmeno, sono istintivamente portato a credere che tutte le parole che mi dice una persona in un colloquio siano vere. Quando trovo che non sono vere mi attrezzo per capire perché mi ha detto una bugia e se non riesco neanche a capire perché me l’ha detta glielo vado a chiedere: “Perché lei mi ha detto questa bugia?”. Così il dialogo continua sempre e non deve mai cessare, il cammino parte da lì, non c’è possibilità che io mi cambi se non ho il coraggio di dire: “Guardi non sono innocente, come le ho detto due mesi fa, è vero che qualcosa ho fatto”. Oppure “Non sono colpevole per il reato per cui sono in carcere, però ne ho commessi tanti altri che mai nessuno ha scoperto”, non molti, ma alcuni mi dicono questa cosa. Io non vorrei sbagliare, anche perché solo Dio sa e conosce, ma su cento condannati che stanno in carcere i casi di errori giudiziari sono rari. Le persone che stanno qui dentro qualche errore l’hanno commesso e non c’è niente di più bello che ammetterlo, perché quando tu ammetti il tuo errore cominci a liberartene, cominci a distinguere la tua persona da quello che hai fatto e per fare questo cammino è importante pensare anche al male che si è fatto, ed ecco il discorso delle vittime, della mediazione penale. è un modo per iniziare a distaccarmi da quello che ho fatto mostrando che ho capito e riconsiderando tutte le ragioni che ho violato e non ho considerato quando ho commesso il reato. L’inizio del cammino è la revisione critica, il preinizio è ammettere quello che si è fatto, e senza questo passaggio non vedo che ci possa essere una svolta nella storia di una persona. Dire la verità su se stessi è una cosa che riconcilia l’uomo con la sua storia, che gli apre una prospettiva per il futuro, altrimenti la prognosi non può essere positiva. Se mento a me stesso e a chi mi sta ad ascoltare, comunque sono una persona che sarà sempre infelice, non sarò mai contento e mi porterò dentro sempre un peso. Chi di voi ha misurato il peso della sua colpa ha cominciato a liberarsi in quel momento lì: quando ho il coraggio di chiedere scusa comincio a diventare un uomo. Lui non mi perdona? Non conta, io sono libero e comincio ad esserlo nel momento in cui ho chiesto perdono, anche se non mi viene concesso, ma io comincio a volare. Questa è la dimensione morale dell’espiazione della pena, e da quel momento in poi per me una persona è pronta per andare dove vuole, gli altri che non riescono a compiere questo cammino è bene che ci pensino, questa è la mia idea.
Marino Occhipinti: La dottoressa Orazi (N.d.R. la responsabile dell’area pedagogica) durante il Progetto “Scuola e Carcere”, spiegando cosa intendeva per revisione critica, ha detto che loro operatori del carcere cercano di valutarla per ciò che uno ha fatto negli anni di carcerazione, e non tanto per il fatto che uno dice: “Oh, sì mi dispiace”. Lei cercava di dare una valutazione più ampia, il che non mi sembra una cosa negativa. Giovanni Maria Pavarin: Non è che la revisione critica si può desumere soltanto perché uno non ha rapporti disciplinari, ha lavorato, o ha scritto dei libri. è una dimensione morale. La revisione critica è il fatto che io mi condanno dopo che gli altri mi hanno condannato, altrimenti non ho capito niente, questo è quello che io intendo per revisione critica. Torno indietro nella mia vita e faccio io il giudice di me stesso e dico: “Ho sbagliato e qui mi attrezzo per non farlo più e riparo ai danni che ho fatto”. Questa è la revisione critica e non ha altro significato. Antonino Cappelleri: Ho pochissimo da aggiungere, perché quello che ha detto il collega è bellissimo. Solo una osservazione: ho la sensazione, ascoltando queste perplessità, che ci siano delle deformazioni di prassi per cui ad un certo punto si è detto che l’educatore, il magistrato chiede la revisione. In verità la revisione va piuttosto osservata, proprio perché è un momento di autoriabilitazione o autorieducazione. Io o l’educatore dovremmo prendere atto attraverso questo sintomo se il processo di autocorrezione, di maturazione è o non è ad un determinato livello. Io poi sono segnato da un’esperienza come Pubblico Ministero: una volta un imputato, il quale mi confessò qualcosa come 120 rapine armate in banca, ma immagino che non mi confessò tante altre cose, finito l’interrogatorio mi disse: “Sa dottore, noi qui dentro dobbiamo avere, non due, ma dieci facce: una per lei, una per il direttore, una per il cappellano, per gli educatori, per il compagno di pena ecc.”. Confesso che è stata una cosa che mi ha segnato e mi segna ancora, ed io non riesco ad avere l’ottimismo, la fiducia che ha Giovanni Maria Pavarin. Forse perché sono meno capace di incontrare la persona di quanto non lo sia lui, detto questo però nonostante le difficoltà la verità bisogna cercarla.
Elton Kalica: Ho visto che la legge Bossi-Fini si sta applicando in tutta Italia in modo abbastanza fiscale, nel senso che quando un detenuto straniero scende sotto i due anni di pena viene espulso. Io ho trovato una sentenza della Corte europea dei diritti umani che ha tolto l’obbligo di espellere lo straniero quando ha dei legami familiari sul territorio e ci vive da anni. Siccome anche la legge Bossi-Fini all’art. 28, sancisce questo diritto di mantenere o riacquistare l’unità familiare, mi domando se i Magistrati di Sorveglianza, nei casi in cui uno straniero ha la famiglia qui, possono prendere una decisione analoga argomentando la sentenza sempre in analogia ad un articolo che sancisce l’unità familiare. Antonino Cappelleri: Quello che probabilmente è il principio che ispira questa decisione europea, che lei dice, viene incarnato nella legge nazionale, non è che non esiste. Però la legge nazionale lo struttura in maniera restrittiva, e dice che non è espellibile chi abbia un legame stabile, ma con un cittadino o una cittadina italiani. Questo modula in maniera limitatrice il principio, non lo esclude, il che rende difficile dire che la legge è completamente contraria al principio costituzionale e rende difficile contestare davanti alla Corte Costituzionale la logica della legge stessa.
Elton Kalica: Con tutto il rispetto, volevo sottolineare che la legge la fa il Parlamento, ma il diritto lo fanno i Tribunali, e se il giudice vuole la può applicare in un certo modo o in un altro. Giovanni Maria Pavarin: Scusate, questa è un’altra cosa che va assolutamente contrastata. I poteri dello Stato sono il Legislativo (fa le leggi), l’Esecutivo (le applica). Il potere giudiziario applica la legge che altri hanno fatto. Le leggi possono essere di tanti tipi, ce ne sono che assegnano un potere discrezionale ai giudici, il Codice penale dice che puoi dare da un minimo ad un massimo di pena. Ci sono altre leggi che non lasciano invece apprezzamento discrezionale ai giudici. L’art. 16 quinto comma del Testo Unico sull’immigrazione, riformato dalla Bossi-Fini, dice che è disposta l’espulsione dello straniero irregolare con reato non ostativo con fine pena sotto i due anni. è un indicativo presente che dà un comando al giudice, che non può interpretare quella norma, perché la sua applicazione ha un contenuto obbligatorio e vincolante. Ma se mi dai un comando, penso io, allora fallo fare al Questore, perché ti rivolgi al giudice per espellere uno straniero e io però non posso decidere se espellerlo o meno? Ma che razza di giudice sono, perché lo fai fare a me, cosa c’è da giudicare, che cosa devo giudicare quando la legge mi obbliga a fare così? La Corte Costituzionale però ci ha detto: “Non preoccuparti, va bene così, se non lo fai tu, lo fa il Questore il giorno dopo. Quando il detenuto irregolare finisce la pena viene preso e il Questore lo caccia fuori, tanto vale che lo faccia tu prima. Perché? C’è anche un premio: il detenuto non si fa più la galera negli ultimi due anni, lo Stato rinuncia all’esecuzione della pena e gli dà questa sanzione alternativa alla detenzione. So bene che molti vorrebbero restare qui, questa è una misura alternativa che si dà senza e contro la volontà del soggetto condannato. Ma quando la Corte, il giudice delle leggi dice che va bene così, noi che abbiamo giurato fedeltà alla legge dobbiamo stare zitti. Quindi uno pensa male se crede che il giudice può fare e disfare a piacimento. Negli stati dittatoriali forse può essere così, negli stati democratici il giudice applica la legge, ci sono spazi interpretativi in certe materie e vanno usati al meglio possibile, ma in questa materia non c’è nessuna possibilità di decidere in maniera diversa.
Ornella Favero: C’è un’ultima domanda che ci sta a cuore. Quali sono gli effetti della pena che un affidamento condotto a termine positivamente estingue? Antonino Cappelleri: Intanto, secondo me, rispetto al sistema dell’espulsione sostitutiva della pena, che è quella prevista dalla Bossi-Fini, nel momento in cui una persona che sarebbe nella situazione di essere espulsa, perché ha meno di due anni da scontare, viene ammessa ad una misura alternativa non detentiva, quindi non parlo della semilibertà, ma delle altre, secondo me cade in radice la possibilità di espulsione. Non esiste più una pena che debba essere sostituita dall’espulsione, e quindi l’affidato non è più sottoposto all’espulsione della Bossi-Fini. Poi di espulsioni ce ne sono di tanti tipi, per esempio se andiamo all’espulsione come misura di sicurezza, che allora viene data dal giudice nel momento in cui infligge la pena ed aggiunge appunto la misura di sicurezza dell’espulsione, questa va rivista dal Magistrato di Sorveglianza nel momento in cui deve andare concretamente applicata. Quindi se per esempio il condannato ha espiato una parte della pena in carcere e poi è stato ammesso all’affidamento, alla fine si ripropone il problema se deve essere espulso per misura di sicurezza. Qui la decisione è discrezionale da parte del giudice; certo se una persona ha intrapreso un percorso risocializzante positivo che l’ha portata a meritare l’affidamento e a concluderlo positivamente, ci sono grosse difficoltà per il Magistrato di Sorveglianza nel dichiarare quella persona ancora socialmente pericolosa al punto da essere incompatibile con la permanenza sul territorio dello Stato. Immagino allora che saranno sicuramente numerose le decisioni di non applicare più quella misura di sicurezza. La misura di sicurezza dell’espulsione amministrativa, quella è tutta un’altra cosa e prescinde comunque dal percorso penale, può rimanere puramente e semplicemente legata alla presenza clandestina e quella viene applicata dal Questore in maniera completamente autonoma da noi. Giovanni Maria Pavarin: L’espulsione data in sentenza, se uno fa un affidamento e lo finisce bene, dovrebbe essere estinta di diritto. La Bossi-Fini presuppone che ci sia lo stato detentivo, non si applica agli affidati, perché l’art. 16 si applica al condannato straniero in carcere. Chi ha una misura alternativa non rischia l’applicazione della Bossi-Fini, salvo che non sia un semilibero, perché il semilibero è un detenuto.
Gianfranco Gimona (Ristretti Orizzonti): Ma per quanto riguarda gli italiani, quali sono gli effetti della pena che l’affidamento estingue? Giovanni Maria Pavarin: L’articolo 47, oggi penultimo comma dell’Ordinamento penitenziario, dice che l’esito positivo della pena, scontata in affidamento, estingue la pena e gli altri effetti penali della condanna. Tra gli altri effetti penali della condanna ci sono, secondo i più, anche le misure di sicurezza. Questi “più” si dividono in due correnti: la prima ritiene che sicuramente non si applichino più le misure di sicurezza detentive. Se uno ha un O.P.G. o una Casa di lavoro in sentenza, dopo l’affidamento fatto bene sono estinzioni automatiche, perché vuol dire che non c’è più pericolosità, la legge presume che non ci sia più. Per quelle non detentive il dibattito è ancora aperto, nel merito comunque, come ha detto il mio collega, non si penserà di applicare una libertà vigilata in coda ad un affidamento finito bene. Comunque è un problema che riguarda pochissimi casi. Lo stesso vale per l’interdizione dai pubblici uffici, sono effetti penali della condanna e sono sicuramente estinti, di questo non si discute.
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