Incontro con i giornalisti

 

Omar Monastier,  vicedirettore del "Mattino" di Padova e Vittorio Pierobon, caporedattore del "Gazzettino" di Venezia

La correttezza dell’informazione sui problemi sociali e sulla cronaca nera

 

(Realizzato nel mese di luglio 2001)

 

Ristretti

In questa redazione cerchiamo di fare un giornalismo corretto e spesso ce la prendiamo con voi, "giornalisti ufficiali", perché secondo noi non avete abbastanza sensibilità verso i problemi sociali e date un’informazione che asseconda troppo l’emotività dell’opinione pubblica, ad esempio alimentando la paura della criminalità, l’insicurezza di fronte al fenomeno dell’immigrazione.

Un altro problema pensiamo sia rappresentato dalle "fonti" a cui vi rivolgete per raccogliere le notizie: per la cronaca nera, in particolare, le fonti quasi esclusive sono le forze dell’ordine. Prima ho citato l’immigrazione: a Padova se ne parla quasi sempre in rapporto a Via Anelli. Qual è la vostra fonte, in questo caso? La Questura. Se invece ascoltaste anche la voce di quanti si occupano dell’immigrazione da un’altra prospettiva, l’associazionismo ad esempio, la notizia alla fine sarebbe più obiettiva. Quasi ogni giorno dedicate pagine intere alle retate della polizia in Via Anelli e, se c’è un’iniziativa per l’integrazione degli immigrati, la notizia la date in quattro righe. 

Abbiamo fatto una piccola inchiesta, andando a vedere quanti reati avvenivano di 10 anni fa e quanti ne avvengono ora: il loro numero non è affatto aumentato, eppure oggi l’allarme sociale è molto maggiore. La sensazione che abbiamo, da dentro il carcere, è che i media amplifichino troppo le notizie sulla criminalità, alimentando così le paure della gente. 

Vittorio Pierobon

Premetto che anch’io ho le delle riserve su ciò che si muove dietro le quinte del mondo dell’informazione. Non sono qui per difendere un mondo che è imperfetto come, del resto, è imperfetto questo carcere, è imperfetta la vita esterna e anche l’informazione, perché fatta da uomini, con tutti i difetti che possono avere.

Alcune delle vostre accuse sono condivisibili, anche se non vanno generalizzate. Secondo me c’è tanta buona informazione in Italia ed è grazie all’informazione che molte cose sono state fatte. Molti risultati sono stati ottenuti grazie al giornalismo, grazie ai giornalisti che hanno lottato e che spesso hanno pagato personalmente per le loro idee.

Venendo più nello specifico, io non conosco la realtà di Padova, quindi non rispondo riguardo a Via Anelli o ad altri episodi locali. Conosco di più la realtà di Venezia, la realtà del Gazzettino, dove lavoro. Devo dire che tra i miei colleghi c’è sensibilità, attenzione ai problemi sociali, però, effettivamente, le questioni sociali finiscono per fare meno notizia di altre questioni.

C’è una regola, nel giornalismo, che è banalissima però, in qualche modo, rimane sempre valida: fa notizia tutto ciò che va contro l’ordine normale delle cose. Quindi, ad esempio, non fa notizia un cane che morde un uomo, ma fa notizia se è l’uomo che morde il cane.

Nel giornalismo si segue questo principio, che non è giustissimo, perché si finisce per evidenziare le cose negative dimenticandoci delle molte cose positive; però, purtroppo, l’informazione deve anche seguire delle regole commerciali, delle regole economiche. Un giornalismo fatto soltanto di notizie positive, ahimè, temo che non venderebbe niente e il giornale sarebbe quindi destinato a chiudere.

L’enfatizzare i fatti negativi, quelli che colpiscono di più l’interesse delle persone, rappresenta un nostro limite. Dobbiamo cercare di mantenere un certo equilibrio, tenendo conto anche di un altro aspetto dell’informazione: la concorrenza. 

Ciò non significa che non ci possa essere collaborazione e rapporti di stima, però alla fine c’è anche il tentativo di fare meglio, di dare più del concorrente: è una rincorsa ottima, finché rimane nei binari dall’approfondimento informativo, perché il pluralismo è sempre positivo, il monopolio e l’egemonia non sono tanto democratici. Ho lavorato, per un certo periodo, in regime di monopolio, perché a Venezia non c’erano altri quotidiani locali, oltre al Gazzettino. 

Devo dire che sono più contento da quando c’è un giornale concorrente, perché hai la possibilità di confrontarti e, quotidianamente, di verificare se il tuo lavoro è fatto bene o se poteva essere fatto meglio. A volte questo rapporto di concorrenza può anche finire nell’esasperazione, nel tentativo di montare le notizie, cioè dargli un peso superiore di quello che è nella realtà.

Questo può provocare anche gli episodi che voi denunciate cioè il fatto che, in alcuni casi, certe notizie hanno un’evidenza eccessiva. Io sono contro questo tipo di informazione, cerco di oppormi ma, a volte, sono perdente.

Faccio un esempio: noi i suicidi non li consideriamo una notizia, a meno che non avvengono in maniera pubblica, in maniera eclatante. Perché, se un uomo si dà fuoco in piazza, la gente si chiede chi era, come mai l’ha fatto. La morte di Raul Gardini fa notizia, ma se un poveraccio ha una storia d’amore, che finisce in un dramma personale, riteniamo che la sua una morte sia come tante altre.

Però è capitato che altri giornalisti non la pensassero così; io ho dato la notizia con poche righe e qualcun altro con un grande titolo, quindi sembrava che io non avessi la notizia. 

Non è facile trovare un terreno d’intesa tra giornali, tra giornalisti, tra direttori. La questione è un po’ individuale, in taluni casi si riesce a trovare un buon equilibro, in taluni casi no, quindi ci sono degli accanimenti eccessivi.

Riguardo alle fonti d’informazione, a cui avete fatto riferimento, si tratta di un problema molto serio. Perché è evidente che l’informazione è subordinata alle fonti: senza le fonti. l’informazione sarebbe povera, vuota. Abbiamo bisogno di approvvigionarci, di abbeverarci a qualche fontana di brutte notizie, purtroppo. Le fonti d’informazione sono controllate da chi ha, in qualche modo, il potere nella società: "potere" in senso buono, cioè nel senso che chi governa ha più facilità di dare informazione, di chi è all’opposizione. Chi dirige il carcere ha più facilità di dare informazione di chi, invece, è dentro il carcere.

Noi giornalisti per nostra regola deontologica, cerchiamo di accedere a tutte le fonti d’informazione, cerchiamo di fare delle verifiche e dei riscontri, però e innegabile che un certo tipo di fonti hanno la preponderanza rispetto ad altre. Quando viene arrestata una persona, per fare un esempio più vicino al vostro mondo, la prima fonte è chi ha compiuto l’arresto: la questura, o i carabinieri.

Quindi è evidente che questa fonte dà una sua versione; l’altra fonte, quella che subisce, è più difficile da raggiungere.

Ristretti

Magari potreste sentire l’avvocato difensore.

Vittorio Pierobon

Sì, questo lo facciamo ma, anche senza voler generalizzare, i difensori sono "anche" avvocati e pensano certamente alla tutela dei loro clienti, però sono "anche" dei professionisti sul mercato. Loro quindi non sono una fonte identica a quella che poteva essere la testimonianza di chi ha subito l’arresto.

Ristretti

Nel caso di Michele Profeta, ad esempio, avete intervistato un perito, che ha dichiarato "Non ho accettato l’incarico perché, per me, la perizia del tribunale è stata fatta in modo corretto". Questo ha significato una condanna.

Vittorio Pierobon

Questo è un altro discorso, chiudo comunque riconoscendo che il problema delle fonti è un problema serio ma, secondo me, di difficilissima soluzione, perché è impensabile di poter avere un accesso paritetico a tutte le fonti.

Omar Monastier

Gli avvocati, spesso anche se non sempre, soprattutto i più grossi, sono delle star e si muovono sul mercato come uomini di pubblica relazione, più che come tutori dei loro clienti. Per cui, a volte, l’informazione che arriva dall’avvocato rischia di nuocere al suo assistito, piuttosto che aiutarlo.

Ci sono avvocati, credo si possa dire tranquillamente, che "vendono" i loro clienti per acquistare pubblicità: le perizie, come pensate che le abbiamo? O arrivano dal tribunale, che comunque non dovrebbe darle, almeno teoricamente, oppure arrivano dal collegio difensivo. Quindi, non sempre l’avere un avvocato molto noto aiuta il detenuto.

Ristretti

Poi sono questi avvocati che denunciano il giornalista per aver pubblicato le informazioni.

Omar Monestier

Anche questo è nel gioco delle parti. Nel caso di Profeta, uno dei due periti ad un certo punto ha detto "Io non mi sento in grado di reggere la perizia, perché credo che il lavoro investigativo sia stato fatto bene". Questo è un fatto che non incide sulla vicenda processuale di Profeta, ma agli occhi dell’opinione pubblica suona come un indizio di colpevolezza grave. Ma aspettiamo il processo, ho visto clamorose assoluzioni anche in processi che sembravano già finiti.

Per quanto riguarda il modo in cui i giornali danno le notizie, noi non siamo meglio della società che rappresentiamo e quindi i giornali sono diversi a seconda dei periodi e delle epoche storiche.

C’è un po’ la tendenza, da parte dei lettori, a pretendere dai giornali una funzione educativa o, diciamo, migliorativa della società. Una visione che molti di noi respingono con forza: noi, appunto, non abbiamo la funzione di educare i lettori, gli raccontiamo quello che succede.

Se ci riusciamo, lo facciamo dando loro anche elementi perché sviluppino da soli una forma di analisi, di ragionamento. Questo vale soprattutto per i giornali locali, che hanno una maggior immediatezza: ci limitiamo a fare la cronaca, cioè il fatto puro e semplice. Io parlo per l’esperienza del Mattino, che è un giornale di Padova ed ha interesse a coprire il mercato padovano delle notizie, più che a creare dibattito su argomenti di rilievo nazionale.

Per citare un esempio, che può essere utile anche per voi, tutto il dibattito sul condono, l’indulto, tutte le proposte nazionali, noi le seguiamo ma non con la stessa attenzione con la quale seguiamo il caso Profeta, che è accaduto proprio qua. Quindi noi abbiamo un limite, che è anche il nostro vantaggio sul mercato: la territorializzazione.Questo ci impedisce di sviluppare, per esempio, argomenti di supporto, tipo quelli che sono cari a molti di voi, che sono sollevati nella rivista, cioè l’analisi sociale, l’analisi del fenomeno etc.. Noi siamo più brutali, non mi vergogno di dirlo. Voi sviluppate una serie di riflessioni che noi non sviluppiamo, un po’ perché non abbiamo lo spazio fisico per farlo, nell’interno del giornale, un po’ perché non riteniamo che sia il nostro compito, forse anche per il rapporto con la concorrenza.

Il Gazzettino per noi è un competitore forte, non sul dibattito, ma sulle notizie. Se io ho una bella pagina sul carcere di Padova, dove pongo una serie di problemi giusti, importanti, legittimi, ma non ho lo scippo in Piazza delle Erbe e il Gazzettino invece ce l’ha, il mercato mi penalizza: comprano il Gazzettino, non il Mattino. La necessità, che abbiamo e che spesso si dimentica, è quella di stare sul mercato: noi non vendiamo pane, abbiamo un maggiore riflesso sull’opinione pubblica, rispetto al panettiere, però la logica è la stessa. Non abbiamo un editore che ripiana il debito, se lo facciamo. O vendiamo il giornale, o andiamo a casa, e purtroppo il lettore cerca sul giornale locale quello che gli accade più vicino.

Rispetto alla cosa che diceva uno di voi, sul numero dei reati di oggi e di 10 anni fa: è vero che i reati sono, magari, gli stessi come numero. Negli anni 70 c’erano le bombe, c’era il terrorismo, però la vecchietta di Padova non veniva scippata o, per lo meno, aveva la sensazione che la bomba di Piazza Fontana a Milano fosse un fatto lontanissimo, che poteva accadere ma non la riguardava.

La percezione del pericolo che abbiamo adesso, invece, è perfino esagerata, isterica. C’è paura perfino per quello che non succede, c’è la sensazione che dietro ad ogni albero ci sia uno scippatore, che ci sia un tossicodipendente, che ci sia un extracomunitario. 

La percezione dell’allarme, che deriva soprattutto della presenza degli stranieri, è fortissima, perfino esagerata, e si concretizza in azioni clamorose, come i bliz in Via Anelli, che non servono a niente, perché tanto vanno lì una volta al mese. Ma questo accade anche perché, se i carabinieri vanno in Via Anelli, lo fanno sapendo che i giornali ne scrivono e perché vogliono che i giornali ne scrivano. Lo fanno perché, poi, il Ministro dell’Interno, davanti alla protesta dei Parlamentari del Centrosinistra (o del Centrodestra), che dicono che il territorio non è presidiato, possa dire: "Noi abbiamo fatto dieci bliz in Via Anelli, come vedete risulta anche dai giornali...".

è vero che sono azioni molto spesso scenografiche, che servono a poco, però non è vero che non servono a nulla. Il bliz in Via Anelli serve perché, in mezzo a tanti onesti, ci sono in Via Anelli, a prescindere dal colore della loro pelle, anche alcuni farabutti che danneggiano gli stessi abitanti onesti. C’è bisogno, comunque, in una zona così delicata come Via Anelli, di una forma di presidio: magari non servirà a tanto, credo però che serva più della fiaccolata, che magari organizza l’associazione degli amici di Via Anelli, che pure è un’iniziativa nobile, importante, ma alla quale comunque partecipano non tantissime persone. Questa è la ragione per cui, magari, ne diamo un resoconto più stringato. 

Ristretti

La fiaccolata, poi, non è una fiaccolata, ma uno Sportello, è essere in zona tutti giorni. Io non faccio parte del Comitato di Via Anelli, ma la trovo un’iniziativa molto intelligente, vi partecipano persone che si occupano di immigrazione  in tutta Italia, per cui non è così limitata, così piccola. Certo, fa più effetto la retata, con 500 persone fermate, poi, in quella retata trovano sì e no uno spacciatore e una ventina di clandestini che non sanno dove andare a dormire. Fa comodo parlare di Via Anelli in questo senso, che non so fino che punto sia utile, se non nel creare dell’allarmismo.

Omar Monastier

Il problema delle associazioni di volontariato, che fanno queste cose importanti, è spesso la loro assenza di visibilità, e questo dipende anche dal fatto che non hanno o non si procurano strumenti per bucare i giornali. Il Comitato di Via Anelli fa un sacco di cose importanti ma molto spesso noi non lo sappiamo, perché questo lavoro del volontariato avviene spesso nel silenzio più assoluto, manca una forma di comunicazione. 

Ristretti

I carabinieri, magari, chiamano i giornali per dire: "Domani facciamo una bella retata in Via Anelli" e noi non lo sappiamo fare. Però se chiamiamo per dire: "Facciamo una manifestazione in Via Anelli" poi non vedi neanche un giornalista. C’è stato un caso eclatante: un filippino viene ucciso, viene fatta la retata nella piccola comunità circostante, viene sentita come fonte solo la questura. Si parla di tradizionale omertà dei filippini e nessuno va a sentire cosa hanno da dire i filippini...

Penso che, se fosse l’omicidio di un italiano, non verrebbe trattato nello stesso modo: l’omicidio dell’italiano merita, di solito, un’indagine giornalistica più allargata, ma anche meno etichettata. Io infatti ho scritto, quella volta, proprio al Mattino, per come era stato trattato il caso.

Se quella comunità la definite come "tradizionalmente omertosa", io troverei corretto che qualcuno di quella comunità foste andati a sentirlo, invece è stata riportata solo una supposizione della questura, che infatti non aveva niente in mano; probabilmente perché l’indagine sulla morte di un immigrato filippino, arrivato da poco, non interessa a nessuno.

Omar Monastier

Mi tocca dire una cosa un po’ volgare nei contenuti: se ammazzano un italiano, lì nel quartiere, in quel modo, e noi andiamo a cercare la notizia, non abbiamo difficoltà a relazionarci con i vicini di casa, supposto che siano italiani e che possano parlare in italiano, perché è un mondo che conosciamo e che frequentiamo. Aggiungo anche, questa è la cosa volgare, che se ammazzano un italiano io so che l’indomani venderò molte copie; se ammazzano un filippino...

Poi c’è la difficoltà di relazionarsi con una comunità, che non sarà omertosa, ma comunque è più chiusa, per lo meno non la conosciamo. C’era andato anche un cronista, però la moglie era sotto choc in questura e, quelli che aveva trovato, avevano qualche difficoltà, comprensibile, a parlare la nostra lingua. Quindi già c’è un problema di approccio ad una cultura così diversa, e io riconosco anche che c’è, magari, anche un minor lavoro "di scavo".

Ristretti

Voi siete quotidiani locali e, quindi, molto spesso un giornale fatto di cronaca brutale o, diciamo, di fatti, però anche la cronaca apparentemente di fatti a volte ha un peso molto forte nella formazione dell’opinione.

Vi faccio qualche esempio e vorrei sapere chi ha la responsabilità dei titoli: parlo di titoli sbagliati, che hanno un peso sulla la formazione dell’opinione. Questi due titoli riguardano la stessa notizia:

Il Mattino: "Sassari, ex detenuto droga e violenta una volontaria".

Il Gazzettino: "Picchia e droga la convivente". (In questo caso la notizia è data in modo più corretto).  

Quello del Mattino non è un titolo falso. Questo ragazzo era un tossicodipendente e, secondo una statistica,  i tossicodipendenti passano un terzo della loro vita in carcere, quindi era senz’altro un ex detenuto, o un detenuto. Ma "la volontaria" era la sua convivente, quindi non è qua la notizia falsa, la cosa è molto più sottile, perché le immagini che ne escono sono quelle dell’ex detenuto che violenta la volontaria...

Questo titolo del Gazzettino secondo me è clamoroso. In prima pagina: "Ogni sera un padovano su cento a contatto con il virus dell’AIDS". Il titolo nella pagina interna: "Uno su cento di coloro che frequentano prostitute"; nell’articolo: "Uno su cento di coloro che hanno rapporti non protetti con le prostitute".

Il Mattino, in prima pagina: "Gli immigrati chiedono il pizzo", che è come dire "i siciliani sono mafiosi"...

La Repubblica e il Gazzettino: "Ha l’AIDS un immigrato su dieci". Gli immigrati sono 1.700.000, se 1 su 10 è malato, quella persona che vive in un quartiere in cui ci sono molti immigrati fa veramente un salto, pensa che siano appestati. Il titolo è sbagliato, evidentemente, perché in Italia i malati di AIDS sono 47.000, 1 su dieci è un immigrato, quindi in tutto gli immigrati malati sono 4.700, non 170.000, come sembrerebbe da questi titoli.

Vittorio Pierobon

Questi sono begli esempi, di cui potremmo anche vergognarci, ma purtroppo ce ne sono spesso di questi titoli. Monastier diceva che il giornalismo non deve educare però, secondo me, tutti i componenti di una società devono cercare di fare crescere questa società e, il giornalismo, ha in questo senso un ruolo fondamentale, perché l’informazione è il punto di riferimento al quale tutti ci rifacciamo.

Se non ci fossero i sistemi informativi saremmo ancora allo stato selvaggio, ognuno per conto proprio: solo l’informazione permette di aggregarci, di creare sistema, di creare rete. L’informazione dovrebbe avere anche dei valori etici a cui rifarsi e, in realtà, ci sono, perché abbiamo delle regole ben precise, però riconosco che non sempre vengono rispettate. In taluni casi per stupidità, perché la componente degli stupidi sta anche nella mia categoria, per cui certi errori nei titoli non sempre sono dovuti alla malafede. A volte sono dovuti proprio alla fretta, o alla leggerezza, al la sciatteria, all’incapacità. Però, effettivamente, c’è anche una grossa percentuale di titoli fatti nel tentativo di enfatizzare la notizia e, su questo, sono perfettamente d’accordo: non deve essere così, le notizie vanno date nella loro esattezza e completezza, rispettando entrambe le fonti.

Quindi cercando anche di fare delle verifiche, cosa che peraltro non è sempre facile, perché un conto è andare a raccogliere informazioni in condominio ai Parioli, un conto andare in un quartiere emarginato: dove ci sono conflitti sociali ci sono resistenze, il giornalista viene anche trattato male.

Ricordo quando facevo il cronista a Mestre, non era semplicissimo andare in certi quartieri di Marghera, soprattutto dopo che era successo un fatto di sangue, o che era stata arrestata una persona. Il giornalista viene preso come esponente della società dominante e quindi diventa una sorta di capro espiatorio. Quindi non è semplicissimo, comunque è nostro dovere cercare il dialogo con tutti. 

Non può più neanche esserci tentativo di nascondere i fatti, magari vengono dati con più o meno evidenza, ma tutti i fatti hanno spazio sul giornale. A volte, per avere spazio sui giornali, bisogna andare alle redazioni, non si può pretendere che siano sempre le redazioni a venire da noi. Lo possono pretendere i carabinieri, lo possono pretendere le questure, che hanno in qualche modo un costante rapporto con i giornali. Chi, invece, fa qualcosa di estemporaneo, deve proporsi, deve imporsi, deve andare nelle redazioni e dire: "domani faccio questo, mi mandate un fotografo?". Cercate anche di dare dei contenuti a ciò che fate perché, alla fine, sugli organi d’informazione si appare quando si fa qualcosa di originale e anche una fiaccolata è una delle tante manifestazioni.

Tornando invece alle tue precisissime accuse sui titoli, questi sono errori commessi dai giornalisti, in parte volutamente, perché quando si fanno certi titoli forzati c’è anche una volontà di toccare certi tasti, certe corde, che possono poi portare un interesse commerciale. Io questo tipo di fare giornalismo lo considero sbagliato e scorretto però, come dicevamo prima, sono un po’ perdente, siccome i conti si fanno sulle copie vendute e in qualche modo si deve cercare di restare sul mercato, perché se invece il tuo giornalismo è troppo corretto, troppo preciso rispetto al concorrente, risulta anche poco proponibile al lettore e così hai perso.

È vero che, alla lunga, queste cose pagano, perché alla lunga la gente riconosce una certa correttezza, una certa etica. Parlo di un’esperienza personale perché, quando lavoravo a Mestre, negli anni, abbiamo creato un rapporto con tutto un mondo un po’ ai margini della società. Magari questo non ti fa vendere più copie, però ti fa crescere nell’immagine, ti dà quel valore aggiunto: certo, non basta, contemporaneamente devi dare anche consistenza al prodotto commerciale.

I titoli, poi, non sempre corrispondono ai contenuti dell’articolo e probabilmente questo è il caso di quelli citati in prima: l’articolo era abbastanza corretto, invece il titolo no.

Devo spendere una parola anche a difesa dei titoli, perché non è facile fare un titolo, un titolo deve sottostare a varie regole. La prima è quella dello spazio: non si può stringere un titolo più di tanto e quindi è difficile, in poche parole, sintetizzare un concetto con precisione.

Ma il titolo deve anche saper catturare l’attenzione, se fai un titolo preciso, notarile, nessuno lo legge; serve quindi un titolo che abbia un po’ di effetto. Certo, non si può arrivare all’esasperazione. Il giornalista che scrive, comunque, quasi mai fa il titolo per il suo articolo. Ogni giornale ha le sue regole interne, però in genere la responsabilità del titolo è di chi ha la responsabilità della pagina, che quasi mai è la stessa persona che ha scritto l’articolo.

Sarebbe opportuno ci fosse un maggior dialogo, all’interno delle redazioni, ma spesso il dialogo non c’è perché non c’è tempo, perché ci siamo in pochi, perché si lavora in fretta, perché bisogna chiudere il giornale entro una certa ora.

Un quotidiano non ha la possibilità di rinviare, deve uscire con la notizia e non sempre ha il tempo per fare una verifica precisa, ci prova, ma magari non trova la persona, o quella non vuole rispondere, e quindi la valutazione di un articolo deve tenere anche conto di tutti i problemi oggettivi che il giornalista trova nel fare la notizia. Ciò non toglie che, però, ci siano dei limiti: quello che consiglio a voi, ma anche a tutti quelli che pongono questa domanda, è di protestare quando ci sono cose che non vanno. Avete il diritto di incazzarvi, avete il diritto di farlo presente, come lo avete fatto al Corriere Della Sera, ottenendo delle scuse. Dovete farlo con chiunque, perché i giornalisti non sono intoccabili; quando sbagliamo, dobbiamo riconoscerlo e dobbiamo rimediare, quindi io sono disposto a riconoscere i nostri limiti, però ci vuole la collaborazione della controparte, perché è facile soltanto criticare a posteriori, ci vuole anche il dialogo, ci vuole anche la collaborazione.

Omar Monastier

Io non ho altro da aggiungere, perché Vittorio ha detto le stesse cose che avrei detto io. Aggiungo solo, riguardo ai titoli, che c’è una difficoltà tecnica a sintetizzare il concetto espresso nell’articolo. A volte la sintesi crea dei brutti scherzi: non è che i giornalisti siano così cialtroni, come risulta dagli errori che voi avete evidenziato. C’è un tasso di errori alto, ma non è altissimo e, secondo me, è dovuto al fatto, come ricordava Vittorio, che non c’è il tempo materiale per fare meglio di così. Non è una giustificazione che può passare sempre, però il tempo per noi è una dannazione, dobbiamo mandarlo in stampa in poche ore. Per quanto anche voi avrete tempi ristretti, però avete giorni per guardarlo, anche per pensarci, ma noi no.

Ristretti

Sì, certo, però tu prima dicevi una cosa rispetto la cronaca, che il quotidiano locale fa cronaca nuda, però abbiamo visto che la cronaca può fare anche opinione, come nel caso degli immigrati che chiedono il pizzo.

Omar Monastier

Può anche darsi che si sia voluto fare opinione, con quel titolo, era comunque ben spiegato nell’occhiello che si trattava di una denuncia fatta dagli artigiani, dalla quale emergeva questa forma di criminalità da parte di immigrati.

Ristretti

La contraddizione esistente tra il diritto della cronaca ed il rispetto della privacy è un altro punto sul quale noi abbiamo riflettuto molto: a questo riguardo ricordo che una donna olandese, detenuta nel carcere della Giudecca, era scandalizzata dai giornali italiani, perché quando una persona finisce nei guai con la giustizia viene pubblicato il suo nome, cognome e indirizzo.

Questa compagna era abituata ai giornali olandesi: quando una persona viene arrestata, viene citato il fatto, ma si tace sulla sua identità.

Vittorio Pierobon

Ho lavorato per un lungo periodo a Bolzano, che è sempre in Italia, ma non del tutto. Avevamo spesso dei rapporti con la gendarmeria austriaca e ci sono stati anche dei casi clamorosi, ad esempio quello di un padre che, impazzito improvvisamente, ammazzò i due figli e ferì gravemente la moglie. I giornali austriaci non riuscivano, nel primo giorno, neanche a sapere il nome del padre assassino, si sapeva solo che era accaduto il fatto, a Vienna. Era più facile minimizzare, perché non era successo un paesino piccolo, ma il primo giorno i giornali non diedero neanche il nome dell’uomo, che per noi sarebbe una cosa assolutamente inconcepibile.

In Austria, è vero, c’è un’altra forma di gestire la notizia; c’è anche una polizia più rigida, più severa, una polizia che arresta anche per un sorpasso in autostrada, cosa che da noi non accade; c’è anche un’altra cultura della legalità e anche un altro modo di gestire l’informazione.

Non so se stanno meglio loro o stiamo meglio noi: io so che, se arrestano uno che ha fatto una rapina, preferisco sapere chi è, se è il mio vicino di casa so meglio da chi devo riguardarmi.

Ristretti

Ma se io finisco in galera e devo rimanerci per vent’anni, cosa gliene frega alla gente di sapere dove abitavo: ora ci abita soltanto mio figlio, mia madre, mia nonna e mia zia. Questo vuol dire voler anche danneggiare anche loro, trasportare la mia condanna sui miei familiari.

Omar Monastier

Su questo io non mi sento d’accordo con voi, la privacy è molto di moda, adesso…

Ristretti

La mia privacy è un conto, quella di mio figlio e di mia madre sono un’altra cosa: io non sono più in quella casa, la mia casa ora è qua, è la Casa Circondariale.

Vittorio Pierobon

Il problema esiste, è vero. Me ne sono occupato più volte, all’Ordine, perché mi sono capitati dei casi di esposti. Il discorso che fa Nicola lo capisco, perché a distanza di anni tante cose sono cambiate: a questo punto, che lui abiti in un posto o in un altro non fa differenza. Al limite il nome del paese o della città va bene, ma quello della via diventa un’informazione inutile.

Noi siamo abituati a un certo tipo di cronaca giudiziaria e, soprattutto, siamo legati al fatto che nei giornali piccoli si cerca di identificare il più possibile la persona, perché questo crea un interesse particolare, quindi ci rendiamo conto che a volte diamo delle informazioni che possono veramente fare danno, perché un figlio che ha il padre in carcere certo non può essere felice di vedere sul giornale un articolo che lo riguarda.

Ristretti

Leggo sul giornale dell’Ordine dei Giornalisti che ci sono circa tremilacinquecento miliardi di richieste di risarcimento ai giornalisti. Sembra che quella sia addirittura una cifra incompleta per difetto: vuol dire che il problema esiste.

Omar Monastier

Questo è un problema che va anche legato a tentativi di spettacolarizzazione, al fatto che gli avvocati spesso ci marciano e partono con le querele. Certamente è anche un segnale che qualcosa non va, ma non solo per colpe nostre.

È anche una forma di pressione psicologica, soprattutto da parte dei politici. La querela non ce la fa il rapinatore, perché abbiamo scritto della rapina un po’ sopra le righe. Quelle richieste di risarcimento miliardarie vengono dai politici, voglio dire da gente che le usa come forma di ricatto verso i giornali.

Poi, alla fine, io non ho mai visto nessuno pagare quelle cifre lì: i risarcimenti partono da richieste di cinque, seicento milioni, per arrivare a cinque - sei milioni, tra spese processuali e tutto il resto.

Vittorio Pierobon

Un tempo i nomi dei minori apparivano molto di più, sui giornali. Quando ho cominciato a fare il giornalista, più di 20 anni fa, quando c’era un fatto di cronaca nera un buon cronista doveva cercare di portare una fotografia del protagonista del fatto nero, possibilmente anche con il figlio in braccio, perché questo è commovente. Però questo tipo di giornalismo non si fa più, in questo senso c’è stata un’evoluzione.

Certo la privacy è diventata esasperata, anche perché adesso diventa comodo trincerarsi dietro la privacy: l’identità di chi compie degli atti che hanno valenza pubblica, in bene o in male, non deve essere nascosta.

Ristretti

Ma non esiste, in realtà, una controprova che un certo tipo di informazione, corretta e meno spettacolarizzata, venda meno, tanto è vero che in Francia il giornale più diffuso è un giornale che non fa nulla per spettacolarizzare le notizie. Forse dipende anche da come si presenta la notizia perché, effettivamente, è giusta l’osservazione che chi si occupa del sociale non sa comunicare. Noi ci poniamo questo problema, con il nostro giornale: d’imparare a comunicare in modo interessante, facciamo questo sforzo di raccontare il carcere, ma anche di parlare dei famigliari dei detenuti, dei bambini, proprio perché vogliamo informare, ma anche in modo interessante.

Omar Monastier

Purtroppo non si può esaurire il problema con una risposta secca: quello del giornalismo in Italia è un caso unico al mondo, perché abbiamo una forma giornalismo misto.

Nei paesi civili, chiamiamoli così, la Germania e l’Inghilterra, c’è una stampa più popolare, trash, cioè volgare, che vende milioni di copie e che è in assoluto la stampa più venduta: si occupa solo della Ferilli, delle rapine, etc., e vende migliaia e migliaia di copie. 

Poi ci sono dei giornali seri, dove non si trovano notizie scandalistiche: hanno il titolo su Blair, la politica, l’analisi sul Medioriente; sono grigi, non c’è colore e neanche una foto.

In Italia non c’è questa tradizione di giornalismo: ci sono giornali come la Repubblica o il Corriere, che alternano pagine di analisi su Berlusconi a pagine assolutamente frivole, tipo la crociera che parte da Genova con i singol. In Italia viviamo un po’ questo equivoco, lo stile trash tende ad invadere ogni tanto il serio e viceversa. Mi pare che questo sia un dato di fatto.

Vittorio Pierobon

Per esempio, "l’Indipendente" era nato come un giornale serioso, che non voleva gridare, poi si è riciclato perché non vendeva neanche una copia. Ma l’esempio più clamoroso è stato quello de "L’informazione", un giornale serissimo, veramente inglese, che ha chiuso dopo pochi mesi: al massimo sarà durato un anno. Era un giornale serio, con titoli assolutamente sereni, e non vendeva.

Ristretti

Un altro problema è rappresentato dalla gestione dei dati personali. per fare degli esempi vicini a noi, a volte succede che una persona esca dal carcere dopo 15 o venti anni ed i giornali pubblicano la sua foto con la lista dei reati che ha commesso. Che senso ha dare questa informazione, a tanti anni di distanza?

Vittorio Pierobon

Quante volte, sul giornale, si legge che è uscita dal carcere, dopo 20 anni, una persona? Lo fanno con quelli che hanno lasciato un segno nella nostra storia, nel bene o nel male, quindi sono dei protagonisti del nostro tempo. Se un protagonista del nostro tempo esce dal carcere, secondo me è una notizia.

Omar Monastier

C’è il diritto a scomparire, che è tipico delle persone che hanno commesso dei reati e che poi, magari giustamente, sognano di rifarsi una vita. È un diritto soggettivo, cioè chi ce l’ha pretende di realizzarlo, ma non è detto che sia condivisibile. Io capisco anche la ragione dei famigliari delle vittime, nel vedere fuori queste persone. Noi raccontiamo esattamente questo, che loro escono (e questo è un fatto oggettivo) e che qualcuno non è d’accordo. 

In questa analisi manca il terzo elemento, che è il diritto scomparire, ma questo diritto secondo noi non è dirompente rispetto agli altri due, cioè la protesta di chi lo vorrebbe ancora in galera, o addirittura morto, e rispetto al fatto oggettivo che è stato scarcerato.

Ristretti

I giornalisti ricorrono molto spesso, a caldo, al parere delle vittime. Faccio un esempio che, secondo me, è stato clamoroso: il padre di Erica era la vittima, finché non sapeva di essere anche padre dell’assassino. A quel punto la vittima, cioè lui, è diventata un’altra persona: nel giro di uno, due giorni, ha sviluppato per forza di cose dei sentimenti, di pietà, di bisogno di capire...

Se tu, giornalista, vai a intervistare a caldo la vittima, che cosa pretendi? Ma siamo sicuri che, per dare un’ idea a questa società di come si può cambiare, di cosa c’è dietro un omicidio, serva sempre e solo il parere della vittima?

Quel padre, cosa avrebbe detto se fossero stati gli albanesi, come si diceva il primo giorno: se avesse potuto avrebbe preso l’albanese e l’avrebbe ucciso con le sue mani. 

Vittorio Pierobon

Il padre è stato molto prudente nelle dichiarazioni, anche dopo le rivelazioni della figlia. Riguardo all’albanese accusato il primo giorno, purtroppo e per fortuna questo è stato un caso esemplare: non si può fare teoria su casi esemplari.

Il nostro lavoro funziona così: andiamo sul luogo del l’omicidio, se ci sono padri madri e figli delle vittime gli metti sotto microfono e spesso loro raccontano tutto, anche quello che non vorresti sapere, comprese cose che bisogna censurare, sulla vita della vittima. A questo punto, se io ho l’intervista al papà della bambina che è stata assassina, chi altri potrebbe dire cose migliori? Nessuno, perché il protagonista è lui.

Viceversa c’è chi si ritrova davanti parenti che si chiudono nel silenzio, chiudono anche la porta di casa e non si fanno avvicinare dai giornalisti. Se tu, comunque, due pagine le devi fare, perché c’è l’impatto sociale fortissimo, vai a cercare lo psicologo, il prete, il vicino di casa, che ti dice perché in quella famiglia è scoppiata quella dinamica.

A volte l’analisi sociale non è altro che un sistema per riempire la carenza di notizie dirette: se non ho l’intervista fatta al papà, vado a prendere lo psicologo, che ne sa meno di me e di te, perché non c’era, e dice subito che non può parlare del caso specifico, però in teoria quando un padre ammazza una figlia e perché non ha mai superato... Non so cosa sia meglio, se l’intervista al padre o quella al solito psichiatra.

Ristretti

Però c’è il problema che il parente della vittima, a caldo, è la persona che ti dice occhio per occhio e dente per dente.

Omar Monastier

C’è un’evidente operazione di sciacallaggio, ma se tu ti presti noi la facciamo. Io non mi vergogno di dirti che la facciamo scientificamente. Se il papà apre bocca io scrivo, perché ciò che dice è assolutamente la cosa più interessante, rispetto a quella della notizia: più interessante di qualunque opinione di terzi.

Vittorio Pierobon

La mia opinione è abbastanza simile: prima avete detto che bisogna cercare di sentire tutti protagonisti. In questo caso andiamo a sentire il padre della vittima, mi pare giusto e corretto, anche perché l’intervista non è estorta. Credo che nell’informazione italiana non ci sia discriminazione.

Omar Monastier

Scusate, l’hanno trovato di domenica, mi pare: non è una cosa di poco conto, un delitto la domenica. Nel caso del filippino, ucciso a Padova, non abbiamo trovato nessuno perché la polizia ha preso quelli che ha trovato sul posto e li ha portati in questura. Eravamo rimasti come pinocchietti, su questa storia della quale non si sapeva nulla, con la difficoltà della lingua, questo è il discorso.

Ristretti

Sugli stranieri abbiamo l’impressione che la cronaca non venga riportata allo stesso modo. Era di sette giorni fa, il titolo "Sei clandestini violentano una signora rumena dietro alla stazione". Dopodiché leggiamo: "Due riconosciuti, quattro non si sa neanche chi erano". Ma, allora, come potete dire che erano clandestini, se nessuno li ha riconosciuti!?

Vittorio Pierobon

Ci sono delle forme un po’ stereotipate: per esempio "extracomunitario" è una categoria che vale sempre per africani, o asiatici. Avete mai sentito chiamare extracomunitario un americano, o uno svizzero: Questo, effettivamente, è un difetto.

Ristretti

Lei prima ha detto che, quando un giornalista dà una notizia sbagliata riguardo a qualcuno, la persona danneggiata deve protestare. Ma l’immigrato clandestino, come può protestare? Mi mettono su tutti i giornali, non so neanche il tipo di reato che vanno a accollarmi, ed io non ho i mezzi per difendermi. Le accuse finiscono sempre sulle spalle dei più deboli. 

Un’altra cosa è che si parla di immigrati in modo generico, senza identificarne davvero la provenienza: ad esempio, i marocchini spacciano, rubano, però certi reati non li commettono. Non stuprano, perché la loro cultura non accetta diversi reati. La notizia viene data, generalmente, senza dire l’origine di questa persona: si dice sempre "un clandestino"...

Vittorio Pierobon

è chiaro che un extracomunitario senza mezzi, che non ha un buon avvocato, che non conosce bene la lingua, che non conosce le regole della società in cui si trova a vivere, è penalizzato rispetto a un delinquente italiano, che ha invece altri strumenti. Per fortuna ci sono associazioni, ci sono volontari che cercano a rimedio a questa disparità. 

Ci sono anche dei giornalisti che hanno rapporti frequenti con le carceri e cercano di tutelare le persone più deboli: non siamo così cinici e freddi. Molto spesso nelle redazioni, oltre che cercare di montare le notizie, di battere sui tasti peggiori, ci poniamo anche il problema di cosa c’è dietro una notizia, quindi le conseguenze che la notizia provoca.

Sappiamo benissimo cosa significa mettere in prima pagina il nome di una persona e la sua fotografia, sappiamo che quella persona può avere un figlio, una moglie e una madre. Un esempio recentissimo, accaduto a Venezia l’altro giorno, è quello di una persona denunciata per una stupidaggine, però questa persona aveva un ruolo importante, quindi la cosa avrebbe fatto notizia.

I carabinieri, dopo averci avvertito, ci hanno detto: "Guardate che questo qui e sotto shock, perché è una persona incensurata, ha sessant’anni, sta minacciando di suicidarsi". Quando me l’hanno detto mi sono posto il problema perché, se io scrivo la notizia, anche se non metto il nome dell’indiziato, dalla località si può identificarlo. Mi sono detto: "Vale la pena di rischiare di fare morire una persona?" Abbiamo contattato il collega della Nuova Venezia e abbiamo riconosciuto che, a fronte di questo rischio, il mondo poteva anche stare senza quella notizia. Poi ci sono tantissimi notizie, qui parliamo di una persona che ha fatto una stupidaggine, se uno uccide o fa una rapina, allora ne parliamo per forza, altrimenti allora facciamo un giornale bianco.

Ristretti

La cronaca giudiziaria, come e più di quella nera, è un argomento delicato perché, finché uno ha il processo in corso non potete dire che è colpevole, o che è innocente. Voi sapete che ci sono paesi, ad esempio in Inghilterra, dove i giornalisti non assistono ai processi. Vi ponete il dubbio che, quello che scrivete, come lo scrivete, il titolo, influenzino anche i giudici, oltre che l’opinione pubblica?

Vittorio Pierobon

Vi faccio una domanda rovesciata: secondo voi, sarebbe meglio se i processi avvenissero senza il controllo della stampa?

Ristretti

Forse ha ragione, forse sarebbe peggio perché forse il giudice avrà il potere assoluto. La divisione tra colpevolisti e innocentisti, soprattutto nei casi più complessi, è un classico, però credo che la scelta di schieramento per un giornalista sia ardua...

Omar Monastier

La neutralità non è di per sé un valore positivo: ci sono anche stati errori giudiziari clamorosi che, senza l’intervento attivo dei giornali, sarebbero rimasti tali. Ci sono momenti in cui i giornali hanno il diritto e, secondo me, il dovere, di far capovolgere l’opinione del giudice, anche se i processi non li facciamo noi.

Ristretti

Infatti, non si chiede neutralità, ma correttezza: il problema è quello della correttezza.

Omar Monastier

Se c’è un processo con giuria popolare, il giornale scrive quello che accade nell’udienza, le cose che vedono anche i giurati popolari: poi, io non mi vergogno del fatto di condizionare anche l’orientamento della giuria popolare: Voi vedete il problema da un solo lato, cioè quello del "colpevole", ma c’è anche un altro lato.

Ricordo comunque di avere ancora titolato, a caratteri cubitali "Sono innocente!". Quando Profeta disse "Non sono io, c’è uno scambio di persona", noi siamo usciti con un titolo enorme, che diceva "Non sono io".

Ieri abbiamo scritto "Il sindaco di Padova indagato per il caso Ikea", oggi abbiamo un titolo in cui il sindaco dice "Non sono qui per rubare, non sono una ladra": il giornale conta un giorno, si chiama quotidiano per questo.

Ristretti

Quando scappa un detenuto da un permesso viene evidenziato il fatto che ne scappa uno, non viene evidenziato il fatto che ce ne sono 200 che ci vanno ogni mese e rientrano in carcere. Questo condiziona l’opinione pubblica e condiziona anche il magistrato, che si sente comunque colpevole perché aveva firmato il permesso...

Omar Monastier

L’anomalia è che ne scappa uno, non i duecento che tornano. Ma per la gente è un’anomalia anche che ce ne sono 200 che escono, perché non lo sa.

 

 

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