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Un volontariato che accetta la sfida di "far entrare" di più il territorio in carcere, per far poi "uscire" di più i detenuti
(Realizzato nel mese di maggio 2001)
A cura della Redazione
Un incontro in redazione con Livio Ferrari, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia, che ha affrontato il tema di un volontariato impegnato in modo nuovo nel campo dell’informazione
È in progettazione per il prossimo autunno, qui nella Casa di Reclusione di Padova, un convegno che porrà al centro dell’attenzione il volontariato penitenziario e la necessità di far circolare in modo nuovo e più efficace le informazioni dal carcere e sul carcere. In preparazione di questo evento abbiamo incontrato in redazione Livio Ferrari, uno dei maggiori esponenti del volontariato che opera nelle carceri, nonché uno dei responsabili storici del Seac, la cui storia è raccontata nel libro di recente pubblicazione, edito dalla FIVOL, "Il volontariato nelle Carceri", da cui abbiamo tratto alcune notizie: "Alla fine dell’estate del 1967, all’isola d’Elba si svolge il primo raduno nazionale, a cui partecipano i rappresentanti da tutta Italia. In poco tempo il numero delle associazioni coinvolte raddoppia e il 14 settembre 1968 si dà un nome al Coordinamento: Segretariato nazionale Enti di Assistenza ai Carcerati. Viene approvato lo statuto assieme ai due ordini del giorno, e nasce così il SEAC". Quella che segue è l’intervista che Livio Ferrari ci ha concesso al termine dell’incontro, durante il quale è emersa la volontà di lavorare insieme per portare questo convegno nazionale del volontariato dentro il carcere di Padova, una sede decentrata ma con un’esperienza fortemente innovativa nel campo dell’informazione. Questo comporta anche delle difficoltà, ma abbiamo imparato che le difficoltà si affrontano e si superano con l’impegno concreto, la volontà e una buona dose di fantasia! E questi ingredienti ci sono tutti.
Ci ha fatto piacere innanzitutto averti qui con noi, perché è molto che sentiamo parlare di te e delle attività che svolgete, sia come Conferenza Nazionale, sia come Seac. Ci puoi spiegare cosa sono queste realtà? La Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia è il più grosso organismo in Italia che rappresenta il volontariato. Appunto non rivolto solo al carcere, ma alla giustizia veramente in senso generale, perciò alla legalità, ai diritti. La compongono le più importanti organizzazioni, dal Seac stesso, alla Caritas italiana, Antigone, Arci Ora D’Aria, Libera, la Fondazione Italiana per il Volontariato, la San Vincenzo De Paoli, eppoi tutte le diverse conferenze regionali. Il Seac è stato il promotore di questa Conferenza e attualmente continua a portare avanti le sue attività capillari, proprio in tutte le carceri italiane, e infatti il Seac è presente addirittura in 18 regioni italiane. E’ una presenza che ha inizio subito dopo la guerra, ma specificatamente negli anni ‘60, quando il volontariato ha iniziato a capire di più qual è il proprio ruolo, la funzione nel mondo delle carceri, e comunque nel territorio della giustizia italiana, e ha iniziato ad organizzarsi.
Per quanto riguarda il motivo per cui oggi sei venuto in Redazione, il tentativo di mettere insieme energie e idee per proporre poi un convegno sul volontariato qui nel carcere di Padova, pensi sia realizzabile tutto questo? Non solo è realizzabile, ma soprattutto avrebbe una funzione importantissima. Primo, perché in genere parliamo sempre di carcere senza i diretti interessati ed a convegni dove pochissimi di voi partecipano e quasi mai hanno la parola. Perciò è importantissimo invece che a questi dibattiti voi ci siate e possiate portare avanti la vostra esperienza e le vostre idee. E secondo, proprio per entrare in un luogo come il carcere, non parlando da lontano, ma parlandone dentro, e portando il più possibile dentro al carcere la gente esterna: perché solo facendo entrare di più il territorio riusciamo a fare uscire di più voi, a fare uscire questa idea di un luogo lontano, di un luogo chiuso, e a rompere di più questi muri. Solo portando dentro la gente, perché attraverso le semplici leggi, attraverso la semplice volontà non è che ci si riesca più di tanto.
Come si pone la vostra Associazione nei confronti dei problemi degli stranieri in carcere? Noi abbiamo denunciato l’inutilità della carcerazione per gli stranieri fatta in un certo modo, e cioè che, se all’interno del mondo della giustizia italiana la pena ha ancora un significato, il significato deve averlo per tutti. Allora, se uno straniero sconta la sua pena in carcere e trova delle strade di reinserimento sul territorio come un qualsiasi altro cittadino presente sul suolo italiano, dovrebbe avere la possibilità di essere reinserito realmente e di ritrovare la propria dignità di lavoratore e di cittadino all’interno della nostra nazione, sennò la sua presenza negli Istituti italiani è assolutamente inutile, sia da un punto di vista rieducativo, sia da un punto di vista di tempo, non ha senso che in fondo noi continuiamo a perpetrare delle carcerazioni solo per vendetta. Questa idea della carcerazione vendicativa dovremo superarla attraverso atteggiamenti diversi, e uno di questi lo troviamo già nella legge attuale, che è poi quella del recupero, del reinserimento, della cosiddetta risocializzazione. Perciò noi è da un bel po’ di tempo che continuiamo a sottolineare la necessità che la legislazione rivolta agli stranieri trovi delle strade diverse nel finale dell’esecuzione della pena, per dare la possibilità di un reinserimento a coloro che hanno chiaramente la volontà di cambiare e di fare strade diverse, rispetto ai reati che avevano commesso in precedenza.
Quest’anno cade il quarantesimo anniversario della fondazione di Amnesty International. Quali sono, se ci sono, i rapporti con la vostra Associazione? E come vi ponete nei confronti di Amnesty International e delle sue iniziative a livello nazionale ed internazionale? Con Amnesty c’è stato sempre un ottimo rapporto. Li abbiamo spesso coinvolti nei nostri convegni, nelle nostre iniziative. C’è un aspetto che forse Amnesty dovrà superare nelle sue scelte: il fatto che, come tutti voi sapete, non lavorano su soggetti della propria nazione, cioè, gli italiani di Amnesty si interessano ai diritti degli stranieri degli altri Paesi, mentre gli stranieri si interessano di noi, il che crea da un certo punto di vista un po’ di problemi. Però questo criterio anche loro stanno rivedendolo e credo sia necessario che lo rivedano, se vogliono veramente interessarsi con più efficacia di quello che succede nei territori italiani. Purtroppo le denunce che loro fanno spesso restano inascoltate, ma certamente le possiamo mettere assieme con altre denunce che vengono fatte dalla Commissione Europea contro la tortura, le barbarie, le violenze perpetrate nella nostra Italia moderna, e purtroppo ancora oggi tutto questo non trova troppa risonanza. Siamo un po’ tutti troppo abituati a sentir parlare di violenze, di dolori, e a mangiare tranquillamente la pastasciutta a tavola, ascoltando tutti questi disastri. Non siamo più abituati, credo, come cittadini, a saperci indignare rispetto alle cose brutte e alle cose negative; dobbiamo riacquistare, un po’ tutti, dignità e capacità d’indignazione per avere una vita migliore, una qualità di vita migliore.
Incontrare persone come Livio Ferrari è uno stimolo a non restare mai fermi, ancorati a una vecchia idea di carcere e di volontariato, e ad accettare continuamente la sfida del confronto e del cambiamento.
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