Incontro con Pier Cesare Bori

 

Uno “strano” incontro in Redazione col professor Pier Cesare Bori, per capirne di più del suo corso di “etica laica” nel carcere di Bologna

 

(Realizzato nel mese di luglio 2001)

 

Insegno, a dei ragazzi di Scienze politiche, un corso di filosofia morale: l’ho inventato 15 anni fa e consiste nel leggere i testi delle grandi tradizioni.

La filosofia morale, oggi, non si sa come insegnarla: non posso mica insegnare la mia filosofia morale, o la filosofia morale della Chiesa Cattolica! Che cosa si insegna oggi? Sapete che cos’è filosofia morale? È la filosofia che parla dell’uomo e di che cosa deve fare l’uomo, come occorre che si comporti un uomo nella sua vita.

Questo corso è piaciuto molto ai miei studenti, è un corso grosso, con centinaia di studenti, un corso in cui si comincia a parlare di Platone, della Repubblica, del paragone della caverna, poi si parla di Confucio, si parla dell’India, del Buddismo, poi si parla della Bibbia e poi si parla anche delle religioni monoteistiche, tra cui si parla dell’ebraismo del cristianesimo e dell’Islam.

Ad un certo punto mi è venuto in mente che si poteva fare questo anche in carcere perché a me interessa sperimentare, provare questo tipo di insegnamento in tutti gli ambienti. Io ho provato anche nelle scuole superiori: liceo classico, liceo scientifico; ho insegnato a degli infermieri, ho fatto il corso all’estero, l’ho fatto negli Stati Uniti, e l’ho fatto anche in Tunisia, brevemente, per due volte con gli studenti della facoltà di Giurisprudenza però il dipartimento è quello di scienze politiche.

Ho pensato che questa cosa poteva essere interessante anche in carcere, proprio perché il carcere è una situazione multiculturale e dove c’è una ricerca etica e morale che però non può avere una sola direzione, non ci può essere una sola via, si devono proporre molte vie.

Nel carcere la dimensione morale è fondamentale, nel carcere ci sono molte cose, ma spesso la ricerca, la formazione strettamente morale, è un problema: chi la fa e come si fa? Allora, la mia idea è stata quella di presentare il mio esperimento al carcere Dozza. Non sapevo come cominciare, ho chiesto ad un mio amico che è un giudice e si chiama Mancuso, poi ho scoperto che suo fratello era Paolo Mancuso e quindi Libero ha passato la cosa a Paolo e lui mi ha fatto chiamare dal Direttore, dott. Rizzo, di Bologna. Io non sapevo niente di tutto questo giro.

Tre anni fa comunque ho cominciato con il gruppo proprio della rivista, era un gruppo allora molto forte molto vivo, che già lavorava. Ho cominciato quindi con loro ed ho fatto questo percorso qui ve ne parlo.

Ad un certo punto ho visto che questi erano dei privilegiati, facevano già troppe cose, c’era troppa offerta. Allora ho pensato di specializzarmi per gli stranieri e soprattutto magrebini. Ho fatto da allora cinque corsi, con magrebini: soprattutto tunisini, poi marocchini e poi algerini, come numero di persone.

Adesso vi spiego che cos’è questo corso. Qui ho anche il fascicolo che ho fatto con i miei studenti, perché devo aggiungere che dopo il primo corso che feci, io non avevo parlato con nessuno, poi ne ho parlato poi con un gruppo dei miei studenti e da allora loro si sono associati a me, si sono aggregati intorno a questo corso.

 

Ristretti

Studenti esterni, dell’Università?

Pier Cesare Bori  

Sì, studenti esterni, dell’Università, studenti del mio corso, ragazzi che avevano già fatto due esami perché ho anche un altro corso, di Storia della teologia. Adesso vi dico la forma che ha adesso, però questa forma è cresciuta poco a poco. È un corso di dieci settimane, dieci unità didattiche, due ore al giorno dal lunedì al giovedì, con dieci temi che io enuncio il lunedì, poi i miei studenti continuano martedì, mercoledì e giovedì. Il materiale è raccolto in un libro, che bisognerebbe rifare, di cui non siamo più contenti, che si chiama “Passi verso un ethos condiviso”.

“Passi” nel senso di brani, ma anche di passi in avanti, “verso un ethos” (ethos vuole dire più o meno come etica però è più largo, vale come comportamento) “condiviso”, cioè messo insieme. Allora, questi passi sono i seguenti, ora ve li elenco, ve li enuncio, sapendo però che io enuncio il tema il lunedì ed i miei studenti appunto sviluppano gli altri giorni, con degli altri materiali.

Allora, primo passo è: “L’idea di lettura e la scuola di sé”, cioè, per curare se stessi, per prendere cura di se stessi occorre imparare a leggere, oppure sapere leggere. Al centro c’è la lettera di un filosofo romano (che però era spagnolo, era un Andaluso di Cordova) di nome Seneca, un filosofo stoico. Nello stoicismo, che è la grande filosofia dell’impero romano, c’era al centro proprio l’idea del sapere vivere, che vuole dire saper avere degli amici, saper morire, saper affrontare la sofferenza, sapere nutrire se stessi attraverso delle letture elevate. “Leggi solo gli autori migliori”, in latino, che è la lingua di questo autore si dice “Lege tantum auctores probatos”: questa è l’idea centrale del primo passo.

Ma prima del primo passo facciamo una bella storia che viene da Tolstoy. La grande introduzione è una storia in cui si dice: “C’era una volta un re, al quale fallivano tutte le sue imprese. Interrogò allora dei saggi e il primo gli disse: <Tu re fallisci perché non sai riconoscere il momento giusto>. Il secondo gli disse: <Tu re fallisci perché non sai riconoscere la persona giusta>. Ed il terzo gli disse: <Tu re fallisci perché non sai fare la cosa giusta>. Ma nessuno seppe spiegare quale fosse il momento giusto, la persona giusta e la cosa giusta da fare ed alla fine, solo alla fine, una fanciulla, una ragazza sapiente, gli spiegò: <Il momento giusto è ora, la persona giusta è quella che hai dinanzi ora, la cosa giusta è quella di agire bene con quella persona>”.

Dunque, è un’insistenza sull’adesso, qui e ora, come un momento opportuno da cogliere per cominciare subito.

Per ogni lezione c’è un riassunto in arabo; dopo la prima, in cui rilancio il tema, vi sono varie altre cose sulla lettura, per esempio si legge Tolstoy, etc.

Secondo passo: “La Caverna” di Platone. “Sapete che siamo come prigionieri legati sul fondo di una caverna, e che guardare la luce è impossibile, perché si vede solo il fondo della caverna, si vedono solo immagini riflesse sul fondo della caverna, qualcuno però slegato potrà uscire e potrà guardare la luce, ma sarà molto difficile. Solo lentamente e con difficoltà questo prigioniero potrà guardare direttamente la luce del sole e questo prigioniero, liberato, quando tornerà poi nella caverna e spiegherà, cercherà di spiegare agli altri che c’era luce, gli altri non gli crederanno e, se lui insisterà, forse lo uccideranno”. Così dice Platone, è la storia di Socrate, in realtà.

È interessante perché parla di caverna ma parla anche di prigione: interessante… siamo come in una prigione. È un testo fondante della cultura occidentale. Tenete presente che prima di Platone abbiamo dei frammenti, non abbiamo degli scritti completi. A fondamento della cultura occidentale c’è un discorso sul carcere, o sulla condizione umana come condizione di reclusione o di restrizione. In questa lezione si parla della fiducia nella conoscenza, della liberazione attraverso il sapere, la fiducia in se stessi.

Il terzo passo è “Il Simposio”, di Platone, in cui si parla dell’eros, del desiderio, dell’amore come una potente forza, un’oscura forza, che tuttavia non va distrutta ma va educata perché “eros - dice Platone - è desiderio di sapienza, di sofia”. Non c’è apposizione fra l’amore e la sapienza, ma non bisogna pensare che istinto e conoscenza sono l’opposto: sono diversi, sono profondamente diversi, ma l’istinto, educato, tende alla conoscenza. È un discorso molto complesso, però è un’intuizione di enorme importanza, perché è un’intuizione che afferma l’esistenza in ciascuno di una potenza capace di conoscere.

Questa potenza viene già enunciata nella Caverna ma viene spiegata, secondo la mia lettura, nel Simposio come eros, quindi c’è un primato, in un certo senso, con l’immagine dell’uomo nell’antropologia che io presento, del desiderio, dell’emozione, più che dell’intelligenza pura.

Uno può avere molta intelligenza ma non capire niente, se non ha potenti affetti che sorreggono questa intelligenza, quindi gli affetti sono pericolosi, potremmo dire che dinamizzano riecheggiando la parola dinamis, la parola potenza. Ma sono anche un potente propulsore che ci spinge verso la conoscenza.

Il quarto passo è un testo confuciano. Confucio è un grande filosofo che ha segnato la cultura cinese, che tuttora è il filosofo della Cina. Questo è un testo di un discepolo di Confucio, che si chiama Mencio, del terzo secolo avanti Cristo, in cui si parla dell’importanza delle emozioni.

E contro quelli che dicono: “Gli uomini sono cattivi, gli uomini non sono educabili”, lui replica questo paragone: “Se un bambino cade in un pozzo, non ci sarà da parte di tutti una reazione immediata!? Tutti grideranno dallo spavento, tutti correranno al soccorso, tutti grideranno aiuto, aiuto, bisogna fare qualche cosa!”. Questa emozione, è un’emozione primaria, cioè un’emozione che è in ciascuno di noi prima di qualsiasi riflessione. Questo dimostra che c’è in ogni persona un nucleo positivo che deve essere sviluppato, deve essere educato e potrà essere condotto alla virtù. Per Confucio, poi, le virtù sono quattro: il senso di umanità, la giustizia, la sapienza e una virtù particolare che è l’etichetta, la virtù di comportarsi in maniera appropriata secondo la tradizione.

Quinto passo: si parla, si passa nel mondo indiano, nell’induismo. Si legge in un poema epico, una storia di eroi, in cui c’è un guerriero che è in crisi: si chiama Argiùna e non vuole combattere. Il guidatore del suo carro, il suo cocchiere, in realtà è una divinità, Krìshna, che lo istruisce e gli insegna che per affrontare un’azione, per agire bene, bisogna avere tre atteggiamenti: quello di pensare all’aspetto profondo della realtà in cui non c’è né morte né vita, non c’è uccisore né essere ucciso (perché Argiùna deve combattere ed uccidere), quello che si chiama dottrina dell’azione, cioè bisogna agire distaccati, e poi un terzo atteggiamento, quello della devozione, la pietà, la fede in una divinità.

Questo schema è molto importante, però non so se posso spiegarlo, perché è effettivamente importante, perché in questo schema che non è occidentale bensì veramente orientale, si spiega che nella vita spirituale è importante avere un atteggiamento contemplativo, è importante cioè vedere la dimensione profonda della realtà, è importante agire per il senso del dovere, senza l’utile, senza l’interesse, senza l’edonismo, cioè il piacere, e insegna anche, questo è molto importante per noi di tradizione monoteista, che la dimensione religiosa è un’aggiunta, importante ma non necessaria, è un grande aiuto ma non è necessaria.

Quello che è necessario è saper unire in maniera armonica una visione profonda della realtà, qualunque essa sia, ed un’azione coerente. Se poi c’è una fede, c’è un legame personale con una divinità, questo può essere un grande aiuto. Questa è una prospettiva molto utile per noi che siamo invece abituati nella visione cristiana, ma anche islamica, a pensare che o c’è la religione, o c’è il nulla. Invece la religione è un aiuto importante per far bene cose che si possono enunciare anche senza questo grande, fondamentale aiuto: un “aiuto”, un’aggiunta.

Lo schema è più complesso, disegno in genere un quadrato in cui c’è una divisione a metà: una metà religiosa e l’altra non religiosa, però sulle ordinate c’è azione e contemplazione. Questa coppia azione – contemplazione viene da Platone e Aristotele: l’elemento interessante, qui, non è spinosiano, perché qui c’è diffidenza verso la religione, mentre l’interessante è che questa tradizione, secondo me, ci insegna un atteggiamento giusto verso la religione.

In un corso di filosofia laica, non filosofia religiosa, è importante mettere a fuoco il tema religioso: lo mettiamo a fuoco dicendo che la prospettiva religiosa è molto importante, è un grande aiuto, felice chi può praticarla, però si può fare e pensare la stessa cosa anche senza questo aiuto. Forse più difficile, però è la stessa cosa.

Nel sesto punto parlo del buddismo; attenzione, il buddismo è diverso dall’induismo. Il buddismo nasce in India ma viene espulso dall’India perché i buddisti erano contro la divisione in caste ed erano contro tutta la metafisica dell’induismo e tutta la sua mitologia, etc. C’è un grande imperatore buddista, si chiama Ashoka, che si convertì appunto al buddismo e convertendosi insegnò la tolleranza, e cioè: “L’imperatore ha desiderio che tutte le religioni possano progredire nel suo impero - dice, nel secondo secolo avanti Cristo - però la condizione che ciascuna religione parli con moderazione di se stessa”. Non dica: “io sono l’unica”, ma parli con moderazione, senza violenza, in maniera equilibrata.

Il settimo passo è una lezione sul decalogo, cioè sulle dieci parole di Mosè, su Mosè che insegna i dieci comandamenti. Da questo punto in poi entriamo nell’area monoteista. Parlo del profetismo: la tradizione occidentale, la tradizione ebraica - cristiana – islamica, è una tradizione di profeti, che insegnano non tanto chi è Dio, ma che cosa vuole Dio. Una dimensione religiosa, non filosofica, una dimensione pratica, pragmatica, non teoretica.

In un certo senso le tradizioni monoteistiche sono più povere dell’induismo perché non hanno la dimensione teoretica e metafisica molto importante che si trova in Oriente, però hanno questa forza morale, legata ai profeti che trasmettano immediatamente la volontà di Dio.

Gli ultimi tre passi sono sull’Islam. Nel primo leggiamo Al Farabi, che scrive sulla socialità dell’uomo, sulla necessità del corpo sociale. È un testo aristotelico, poi, sulla politicità dell’uomo, sul bisogno che ciascuno di noi ha degli altri per diventare perfetto, perché non si può crescere da soli. “Siamo più sociali delle api o delle formiche”, dice Aristotole. Al Farabi, che è un grande autore morto nel ‘850, mi pare, o nel ‘950, dice questa cosa molto importante. Però leggiamo anche un brano di un autore arabo siculo, che si chiama Ibn Zafar, che scrive un libro e parla di due elefanti. Sono tradizioni sapienziali dell’oriente, in cui si racconta di un elefante selvaggio che insegnò all’elefante domestico, che voleva convincerlo della superiorità della vita civile, come fuggire nella selva, nella foresta. Quindi, sono due testi di cui uno dice una cosa e l’altro ne dice un’altra.

Nel nono passo ci occupiamo del nesso tra religione e filosofia e qui riprendo Averroè, morto nel 1198, il quale era medico a Cordova e seguì un grande autore, che amo molto e che si chiama Ibn Tufail. Averroè insegna che non c’è contrasto di verità con verità: non è una doppia verità, ma sono due modi di parlare della stessa cosa, un modo religioso e un modo filosofico. Il modo religioso è più per il popolo, il modo filosofico è più per un’elite, per un gruppo ristretto, però si dice la stessa cosa.

Quindi è importante conoscere la filosofia, importante conoscere gli antichi, e di nuovo, vedete, ci sono due lingue. Ibn Tufail racconta di un’isola deserta in cui un bambino si viene a trovare, o per generazione spontanea (bollicine nel fango, insomma qualcosa di vicino a quello che si pensa adesso), oppure perché viene abbandonato dalla madre in un canestro e, nutrito da una gazzella, arriva poco a poco, con la sua riflessione, alla conoscenza alle cose più alte, alla conoscenza della legge di Dio. Anzi, in un certo senso, senza quell’imperfezione che c’è nella legge positiva. Tanto è vero che viene a trovarlo un altro, si chiama Hasal, da un isola vicina, che è religioso nel senso profondo e che gli dice: “Ma tu hai scoperto tutto, vieni con me, nella mia isola, vicina a questa, e insegna alle gente questa verità filosofica”. Però l’impresa fallisce, perché Salaman, che è fratello di Hasal, rifiuta questa visione più profonda.

Due isole: dentro di noi ci sono due discorsi possibili, quello religioso e quello filosofico che, nella loro essenza, nel loro nucleo, dicono la stessa cosa. Se non la dicono, vuol dire che qualcosa non funziona, o da una parte o dall’altra. Questa è la mia posizione.

L’ultimo punto è la regola d’oro: alla fine di un percorso, che appunto sono passi verso un ethos condiviso, verso una morale condivisa, si dice quale potrebbe essere la sintesi. La cosiddetta regola d’oro, che sarebbe: “Fa agli altri ciò che vorresti ti fosse fatto”. Questa regola c’è in molte tradizioni e c’è anche in quella islamica: “Non è un credente colui che non desidera per suo fratello quello che desidera per se stesso”. Ma questo si trova nell’ebraismo, nel cristianesimo, nel buddismo e via dicendo e, soprattutto, nella tradizione cinese, in maniera molto profonda.

Qui, appunto, si riflette su questo, e questa regola vale entro certe basi. Detta così  può essere anche un poco banale: due delinquenti possono accordarsi per delinquere, ma questa non è una regola buona, bisogna che vi sia una dimensione oggettiva di legalità.

Poi bisogna essere capaci di interpretare il desiderio dell’altro, il suo bisogno, quindi bisogna che io non faccia all’altro quello che io farei a me stesso ma l’altro non vuole: quindi c’è una dimensione di legalità oggettiva e di cura soggettiva dell’altro, che è diverso da sé, che dà a questa regola un significato profondo. Altrimenti potrebbe essere una regolina un poco banale, come nella storiella del boy scout che fa attraversare la strada alle vecchiette che non vogliono passare: lui vorrebbe passare, non loro. Questo è il percorso. Accanto a questo ci sono tante letture e, tutto questo, dura dieci settimane. 

Mi sembra che la cosa interessi gli allievi: sono sempre dieci o quindici ragazzi stranieri, soprattutto magrebini, ma anche albanesi. Una volta abbiamo fatto anche due corsi separati, adesso abbiamo riunito ma essenzialmente rivolgendoci agli stranieri, perché ci si occupa meno di loro.

Accanto a questo lavoro ci sono tre sviluppi.

Primo sviluppo, ho cominciato a visitare le famiglie dei detenuti in Tunisia: già cinque volte, lo scorso anno. Forse andrò anche in Algeria o in Marocco, è interessante, porto messaggi, faccio delle foto, insomma c’è quindi un rapporto con le famiglie, c’è un lavoro di recupero di identità. Talvolta porto notizie a famiglie che non sanno nulla. È un lavoro che mi piace molto, purtroppo non conosco la lingua a sufficienza e sto studiando il dialetto.

 

Ristretti 

Fa il portatore di sentimenti?

 

Pier Cesare Bori 

Sì, infatti ad un mio amico - eravamo in un bar di Tunisi - gli fu chiesto di me: “Ma perché è qui il tuo amico?”. E lui gli rispose: “Sono questioni d’amore”. Sì, è vero, è bello, sono esperimenti molto belli, molto interessanti, per cui io faccio le cose prima di pensarci tanto. Probabilmente dietro c’è molto, ci sono molte cose dietro, faccio più per l’emozione che non per tanta riflessione.

Secondo sviluppo: è il lavoro, l’insistenza sulla biblioteca: il corso è molto breve, però se noi riusciamo a potenziare l’uso della biblioteca, potenziamo il primo punto, la cura di sé attraverso la lettura. Bologna è molto in ritardo su questo, quindi cominceremo proprio domani: turni regolari delle diverse sezioni e bracci nella biblioteca, per leggere nella biblioteca centrale, non solo in prestito nella biblioteca di piano. Leggere in una bella biblioteca, sotto utilizzata, che noi abbiamo, vedere i libri, scegliere, parlare, consultarsi, prendere a prestito, ritornare.

Terzo sviluppo: adesso i ragazzi alla Dozza cominciano ad uscire, in permesso giornaliero, o di qualche giorno, oppure usciti, che lavorano, vengono alla  nostra riunione, con gli studenti, un poco come questa, una riunione settimanale che è fatta di tre momenti.

Dunque, la mia Associazione si chiama “Una via”, una associazione laica, non religiosa, ma spirituale, in quel senso che vi dicevo prima: la dimensione religiosa può esserci o non esserci, “spirituale” comprende filosofico e religioso. Una riunione settimanale con un po’ di silenzio, 20 - 25 minuti, una lettura tipo questa, ma possono anche essere molto diverse, e uno scambio sul lavoro.

 

Ristretti 

Venti minuti di silenzio, insieme?

 

Pier Cesare Bori 

Sì, venti minuti di silenzio insieme! Silenzio, lettura e organizzazione del lavoro in carcere. E silenzio può essere inteso in molti modi: può essere preghiera, può essere contemplazione, può essere meditazione orientale, può essere che uno ha sonno e dorme un poco.

Questa riunione avviene all’Università, nel mio studio, quindi lì cominciano a venire i ragazzi in permesso dal carcere, e questo è molto bello perché condividiamo. Di più non so se posso fare perché io penso che ci sia un compito formidabile della cultura, cioè aldilà dell’aiuto materiale, che è molto importante, aldilà anche dell’istruzione, importantissima, scuola media, scuola superiore, etc., c’è la cultura, che è una dimensione più ampia, più indefinibile anche ma più profonda, perché vuole dire anche gusto della bellezza, vuol dire sapienza di vita.

La cultura ha un ruolo centrale e noi pensiamo che un forte impulso culturale in questo senso, cioè culturale e spirituale, debba veramente essere messo a fondamento di tutto. È chiaro che ci vuole un’istruzione, è chiaro che ci vuole una dimensione lavorativa, per chi se la sente una dimensione  religiosa può essere importantissima, ma sicuramente non si può rinunziare a questa dimensione culturale in senso profondo, in senso cioè di una sapienza di vita che poi ti aiuta, non si sa bene come.

Ciascuno si troverà a fare delle scelte, ma se alle spalle c’è stato qualcosa, allora le scelte forse saranno diverse… forse... alla fine non ci si può sostituire alla persona. Sarebbe anche molto bello poter ospitare, però noi non abbiamo la forza, noi siamo degli studenti, delle ragazze, soprattutto, cosa si può fare? Però se riusciamo a mettere al centro questa dimensione culturale, dentro ed anche fuori, penso che qualcosa può cambiare, in qualcuno e, se non cambia, insomma, cambierà la prossima volta, c’è sempre tempo.

 

Ristretti 

Lei parlava di filosofie morali di oriente e occidente. Pensa che si possa individuare una morale comune, che leghi a tutte le religioni, che leghi tutti i movimenti di pensiero?

 

Pier Cesare Bori 

Penso che sia impossibile mettere insieme le visioni del mondo e forse anche le visioni dell’uomo, invece è possibile trovare un consenso su alcune regole minime, alcune regole fondamentali, perciò sì, penso che sia possibile. La regola: “Fa ad altri ciò che vorresti ti fosse fatto” è un esempio. È possibile su alcune regole minime fondamentali, tradizionali, e poi anche su un altro aspetto, sui diritti dell’uomo. Quindi: regole morali fondamentali e diritti dell’uomo come una base comune, aldilà o al di sotto della diversità della cultura, qualcosa che possa unire per sempre

 

Ristretti 

Dal punto di vista dell’etica laica, che lei propone, come considera la sofferenza - in contrapposizione al piacere - un po’ vista come elemento di redenzione. Per fare un esempio concreto: leggevo di una struttura a Torino, dove vengono aiutati dei tossicodipendenti. Due persone, in fin di vita perché malati di AIDS, avrebbero avuto bisogno di una prescrizione di eroina, per poter morire senza sofferenza. Questa prescrizione non è stata fatta perché ritenuta moralmente inaccettabile. Naturalmente c’è dietro un impedimento legale, però lei sa che le leggi discendono dalla concezione morale che c’è a monte. Quindi, dal suo punto di vista, il piacere è morale o immorale, il dolore è morale o immorale? Anche il carcere è un luogo di sofferenza, che ci viene inflitta perché ripaghiamo con la nostra sofferenza il male fatto. Lei è d’accordo con questa visione?

 

Pier Cesare Bori 

Qui c’è un problema molto profondo, anzi ci sono due problemi: il tema del piacere e il tema della pena. Sul tema del piacere, ecco io, forse il piacere no, ma la felicità sì, la metterei al centro della morale, al modo degli antichi. Noi cerchiamo la felicità, naturalmente poi il problema è che cosa bisogna fare per cercare la felicità, ma sarei per di un approccio alla morale che metta al centro il tema della ricerca della felicità, tra cui c’è anche il piacere, ma forse non solo il piacere.

 

Ristretti 

Il piacere lo intendo anche come limitazione della sofferenza, non tanto come piacere nel senso di voluttà: il piacere che si ottiene nella condizione di minima sofferenza possibile.

 

Pier Cesare Bori 

Sicuramente questo è uno dei modi per formulare il tema della felicità, per esempio nel modo di Leopardi. Io ritengo che bisogna cercare il più possibili felici, ma anche se una connessione oggettiva tra il bene e la felicità. Non voglio apparire moralista, perché io stesso non sono molto buono, sono una persona molto mediocre dal punto di vista morale, ma cerco di migliorarmi e mi accorgo che sono più contento quando agisco bene e penso che quella contentezza sia la contentezza più alta, sia la felicità più alta: quella che è legata alla agire bene.

Marco Aurelio diceva: “Collegare una buona azione all’altra, come le assi di un pavimento, senza lasciare nessuna fessura, questo io chiamo godersi la vita”.  Questo, vedete, è un edonismo del piacere connesso però alla dimensione morale. La cosa migliore è sperimentare questo, cioè capire che sono contento davvero quando mi comporto bene e pago un po’ di prezzo per questo.

Bisogna provarci. La mia esperienza, anche attuale, è questa: quando perseguo il bene allora sono contento, quando cedo un po’, sono meno contento. Quella felicità è la felicità veramente più alta, lo dico nel senso non religioso, lo dico anche nel senso più semplice. Uno può anche provare al contrario, io credo che l’esperienza valga più che l’enunciazione.

Con l’altro tema, quello della pena, tu tocchi il punto cruciale. Ci sono due concezioni della pena, una è la concezione retribuzionistica, retributivistica: si usa Seneca “punire perché è peccato”; l’altra è una concezione invece preventiva, punire perché non si pecchi di nuovo.

Ho scritto un articolo, per questo, per la rivista del Dipartimento: un articolo filosofico, difficile, ma dietro c’è una posizione, ahimè, che non vi piacerà molto, però forse la potete capire, soprattutto perché chi è di cultura più tradizionale capisce un po’ questo. La tendenza, diciamo, più moderna, dei grandi giuristi di sinistra, etc., è la concezione puramente preventiva. Lo Stato promette che punirà e, punirà!

Non interessa l’idea della correzione, o dell’espiazione, o della retribuzione. Io penso che invece un poco di questa ci vuole, cioè chi ha fatto male deve in qualche modo pagare il prezzo. Non paga solo da spaventare gli altri, ci vuole questa dimensione che poi è quella antica, islamica, cristiana, biblica, indiana: chi sbaglia paga perché l’errore deve essere in qualche modo riparato… ci vuole.

Il punto fondamentale è: come si paga? Se per esempio si riuscisse a stabilire un rapporto personale tra la vittima e il trasgressore, in rapporto in cui per esempio io mi impegno a fare qualche cosa, invece che mandare tutti in carcere. Insomma trovare delle forme che non siano così massificanti e spersonalizzanti, però anche qui attenzione, perché anche il carcere è un passo avanti, per rapporto a situazioni di violenza fisica o a situazioni in cui ci sarebbero poi delle forti discriminazioni sociali, perché il nobile non andrebbe in carcere, e quindi il carcere è un progresso.

Si possono trovare degli altri modi, però la mia posizione è che un po’ dell’antica concezione retribuzionistica va recuperato. Bisogna un po’ capire perché siamo qui, allora tutto prende un po’ più senso.

Non per punire, non per infierire, ma perché bisogna in qualche modo ricostruire una giustizia ed un ordine e non solo per spaventare gli altri ma perché sei tu che hai bisogno. Non so se vi piace questa posizione, io comunque l’ho maturata nel rapporto con il carcere, se non avessi frequentato questa realtà sarei tranquillamente, come i criminologi, contro tutto e avrei un’idea molto garantista, della pena unicamente come spavento degli altri.

Invece penso che una dimensione laica, ma seria, di pena, debba esserci. Un grande progresso potrebbe essere il discorso poi della conciliazione, comincia poi tutto un lavoro di recupero, comincia il lavoro di lavoro di se stessi, etc.. Da quel momento in poi comincia, però un po’ di pena ci vuole.

 

Ristretti 

Sono soddisfatto solo per metà delle sue risposte. Vorrei un approfondimento maggiore sulla possibilità di intervenire per attenuare la sofferenza. Facendo ancora degli esempi pratici, in redazione abbiamo incontrato anche dei medici che si occupano di tossicodipendenza, che ci hanno spiegato come l’uso delle droghe sia a volte uno strumento curativo, perché la persona vive una sofferenza esistenziale e si autoprescrive queste sostanze? Vorrei che, dal punto di vista morale, inquadrasse questo problema. Ci sono anche dei casi estremi, nei quali si chiede il ricorso all’eutanasia. Questo è un problema sul quale c’è un ampio dibattito: se e quando la lotta contro la sofferenza può giustificare il ricorso a mezzi “illegali” di cura?

 

Pier Cesare Bori 

Io sarei per l’eutanasia, cioè che uno possa decidere della propria vita. Teologi cristiani, come Hans Kung, sono favorevoli a questa posizione. I discorsi che fanno i teologi che Dio è padrone della vita, però ha affidato a te, alla tua libertà, la tua vita. È un tema però che non riguarda solo il carcere, perché il problema dell’eroina potrebbe essere stato anche fuori, ma io non accetto il discorso della sofferenza, del fare soffrire il malato, dell’accanimento terapeutico etc.. Non è questo il mio discorso, che è legato piuttosto ad una certa teologia cristiana della sofferenza. Però, non voglio neanche negarla quando c’è, cioè non vorrei mai imporla, ma non voglio negarla quando c’è, e vorrei che se ne fosse fatto un uso migliore.

 

Ristretti 

Una condizione diciamo di anestesia fisica corrisponde ad un’anestesia dello spirito? Vuol dire questo: la sofferenza serve anche allo spirito? Se il corpo non sente certe sensazioni, è impoverita anche la mente?

 

Pier Cesare Bori 

Queste sono cose difficili su cui non so dire, vorrei che più possibile che la mente potesse portare la sofferenza, piuttosto che esportarla sul corpo. Il più possibile riuscire ad affrontare la sofferenza, perché ritengo che questo sia importante, altrimenti si scappa da altre parti. La psicanalisi insegna questo, però non ho una risposta piena da dare alla tua domanda.

 

Ristretti 

Lei diceva che la mente deve sopportare la sofferenza. In carcere accadono molti suicidi, proprio perché la mente non regge più la sofferenza, sofferenza che nella maggior parte dei casi può essere causata dai ricordi. Questi ricordi diventano talmente pesanti, non tanto per la sofferenza fisica di essere rinchiusi, ma per la nostalgia degli affetti e di tutto quello che è stato, che le persone arrivano ad una debilitazione mentale, ad una non sopportazione della sofferenza mentale.

 

Pier Cesare Bori 

Io dico che bisogna il più possibile cercare di portare questa cosa, però so che può essere durissimo, io stesso la sfuggo, molto spesso. Il problema non c’è solo in carcere, c’è una diffusione di sofferenza mentale enorme nella società: pensiamo agli anziani, quanta solitudine e quanto senso di impotenza, quanta depressione, quanti suicidi ci sono.

Mi dispiace di non potere o sapere rispondere, ma penso che bisogni distinguere tra sofferenza e dolore: il dolore è inevitabile, forse la sofferenza no. Penso che non si possa evitare il dolore, perché il dolore è il senso della divaricazione tra l’armonia che dovrebbe essere e la rottura, il disordine. Il dolore è un elemento di conoscenza straordinaria per l’uomo: bisogna sentire il dolore per il mondo e per se stessi.

La sofferenza, invece, nel suo portato fisico, quando diventa insopportabile, quando ti porta appunto all’idea di sopprimere te stesso, totalmente o in parte, è un altro problema e forse è giusto correre ai ripari: se non riesci a portarla, la sofferenza allora la curi.

È importante invece sentire il dolore, perché il dolore è un fatto morale e nel dolore sta il principio del cambiamento, il principio di quello che ripara questa frattura tra “l’essere” e il “dover essere”. Anche il dolore per il mondo può essere il principio di un’azione per trasformare il mondo. La sofferenza accompagna il dolore ma, nella misura in cui essa è intollerabile, quindi diventa un rischio, un pericolo per sé e per gli altri, se c’è una terapia, vi si può ricorrere.

 

Ristretti 

I suoi studenti, magari di religione cattolica, nel momento in cui vengono a confrontarsi con altri sistemi di pensiero e altre religiosità, diventano instabili, o atei? Non le è mai capitato che uno studente le dica: “Professore, mi trovo in imbarazzo, dopo quello che ho capito e ascoltato da lei!”.

Le dico questo perché, per mia fortuna o disgrazia, l’educazione che ho ricevuto è stata quella cattolica e girando un poco per il mondo sono diventato ateo, anzi credo in qualcosa, credo ad un Supremo, ma non c’è più una distinzione ben precisa.

 

Pier Cesare Bori 

Da me gli studenti proprio integralisti non vengono. Non so come sia, ma non mi trovo mai degli studenti così: sanno già che io insegno una pluralità di vie e così non vengono. Però molti studenti sono religiosi e la visione religiosa che io insegno li aiuta, li aiuta su una linea che è quella di dire: “Io ho la mia religione, che è una buona religione; gli altri hanno la loro religione che io devo rispettare”. C’è forma di Simon Weil, che dice: “Ogni religione è l’unica vera”, ma non dice che tutte le religioni sono vere o che nessuna è vera ma che, nel momento in cui tu la vivi, devi viverla come fosse l’unica vera, sapendo però che anche per gli altri è così. È un paradosso, però un paradosso di una credente. Io so che la mia religione è vera, anzi, se devo viverla devo viverla come fosse l’unica vera (non posso pregare molti dei), però so che l’altro prega allo stesso modo.

I cattolici vanno a Roma ma la mamma del mio amico Mohamed, quando vede la Mecca alla televisione, piange, e dice: “Mohamed perché non vai in pellegrinaggio? Te l’ho detto vai, vai”. E lo dice con la stessa intensità con cui l’altro dice: vai a Roma, o vai a Lourdes. Con la stessa verità e sincerità, perché per lei quella è l’unica religione vera.

 

Ristretti 

È un poco la stessa cosa della regola d’oro diciamo: “Io credo, però so che l’altro esiste e crede nello stesso modo”. La regola d’oro, reinterpretata.

 

Ristretti 

Io vedo che molte persone sono attaccate alla religione quando sono in particolari situazioni di disagio o di sofferenza, nella povertà. Per quella che è la sua esperienza, perché l’essere umano si attacca alla religione?

 

Pier Cesare Bori 

Questo è un antico argomento. La religione, in una formula estrema diventa l’oppio del popolo, come diceva Marx. Però questo non è un argomento né pro né del contro: se esiste una potenza e se noi dipendiamo da questa, è normale ricorrere a questa nel bisogno. Invece, se non esiste, è chiaro che questa è una creazione etc. Il fatto che la gente prega quando ha bisogno non è la dimostrazione che si crea il Dio per il bisogno di quel momento. Le tradizioni parlano di dipendenza da un principio, una potenza, nel quale viviamo e siamo ma da cui dipendiamo.

Io penso che si possano fare tante riflessioni e, nell’Islam, ci sono tante riflessioni profonde. È una riflessione superficiale quella della preghiera come bisogno e invocazione: l’esperienza più profonda, quella mistica, toglie anche la dimensione stessa della preghiera ed è un’esperienza di unità, di unità dell’essere, di essere nella stessa realtà di Dio.

Un’esperienza esaltante di estremo potenziamento del soggetto, cioè la dimensione della preghiera come bisogno è una dimensione umana e importante, inevitabile, che non va disprezzata, ma è solo il principio. Poi la dimensione più profonda è nell’essere nella divinità, ed a questo punto il termine stesso “Dio” non ha più senso. Insomma per fare un discorso sulla religione bisogna conoscerne non solo gli aspetti popolari e deboli, bisogna conoscere anche gli altri aspetti più alti.

Allora, per esempio, la grande esperienza mistica islamica è straordinaria, per certi versi più importante di quella cattolica, che è molto sentimentale e personalistica. In una dimensione più profonda si vede che le obiezioni antiche “Dio creato ad immagine dell’uomo”, sono obiezioni di chi in realtà è uno che non conosce.

 

Ristretti 

La religione mussulmana dice che devi cercare di capire le altre religioni, perché chi come me è nato nell’islam non deve restare senza capire ma devi andare a cercare, a capire e vedere cos’è il cristianesimo, cosa sono tutte le altre religioni. Non è una cosa negativa, questo ti arricchisce e conferma le tue convinzioni.

 

Pier Cesare Bori

Ma non è sempre così.

 

Ristretti 

Io credo che quando uno è contento della sua religione non teme il confronto con altre persone o altre religioni, se teme qualcosa è perché non ha certezza nella sua fede. Bisogna confrontarsi, perché vi sono cose talmente uguali, nelle nostre religioni, che basta uno creda davvero e nessun confronto può mettere a rischio la sua fede. A volte, in una particolare situazione di disagio, la religione può diventare un’ancora di salvezza, ma questa per me non è vera fede.

 

Pier Cesare Bori 

Una statistica dice che, negli Stati Uniti, il 90 % delle persone pregano, quindi non credo che preghino perché stanno male. È un tipo di mentalità che nasce individualistica ma con una dimensione di rapporto con la divinità molto profondo. La Cina è la prova inversa, sono molto poveri, sono bisognosi, però non pregano tanto: si rifanno agli antenati, però non c’è una preghiera forte, c’è una religione molto debole. Due grandi realtà che contraddicono il semplice ricorso alla religione da parte del bisogno dei poveri.

 

Carlo Mozzi (volontario penitenziario) 

Se si va in ambienti ONU, anche alla FAO di Roma, c’è una stanza di meditazione, e lì si trova gente molto diversa, c’è chi si inginocchia, chi sta in piedi, ma mi ha colpito il fatto che prima delle riunioni importanti gli americani andavano tutti in chiesa, gli italiani andavano a prendere il caffè.

Pier Cesare Bori 

Io ho fatto un’esperienza nei Campus americani, dove c’è un luogo di preghiera e meditazione in cui si alternano le due dimensioni. Ho chiesto questa cosa anche a Bologna ed è stata accettata dal Senato accademico. Sarà un luogo di meditazione dell’università, fisicamente non c’è ancora, ma ho chiesto questo e sarà molto importante averlo. La laicità, oggigiorno, si intende come pluralismo, piuttosto che il togliere di mezzo qualsiasi qualifica.

 

Ristretti 

Lei prima a detto una frase: “Ricostruire una giustizia”. In questa ricostruzione ci può essere ancora posto per la religione?

 

Pier Cesare Bori 

Francamente, nel trattamento carcerario, c’è un po’ troppo una posizione di privilegio della religione cattolica, mentre invece bisognerebbe trovare prima di tutto un maggiore pluralismo e, comunque, sapere che è possibile un discorso morale e che non si rifà a solo quella religione ma che ha una sua autonomia. Per esempio, i mussulmani sono poco presenti nelle carceri.

 

Carlo Mozzi (volontario penitenziario)

A Padova c’è un Imam che è somalo, una volta è venuto, ma qui molti musulmani sono di origine balcanica, quindi c’era un grosso problema di comunicazione, per via della lingua. In un’altra occasione, ho parlato con il Presidente di tutte le Comunità Islamiche del mondo, l’avvocato Scialoia, a cui ho fatto presente, anche molto polemicamente, che la Comunità islamica si prende posa cura degli arabi detenuti. Mi ha risposto che, in fondo, la religione mussulmana viene percepita sull’individualità, piuttosto che sulle pratiche collettive.

 

Ristretti 

I suoi studenti nel carcere di Bologna sono prevalentemente magrebini e, questo, mi ha fatto sorgere una curiosità: io percepisco delle forti diversità fra di loro, che non vengono fuori spesso, sono emerse solo un giorno in cui si parlava di scrittura giornalistica e la lezione prevedeva che si parlasse di religione. Quel giorno sono saltate fuori molte contraddizioni, che oggi non sono più risaltate, purtroppo, tra di voi. Non so se trai i suoi studenti emerge questa stessa situazione.

 

Pier Cesare Bori 

Ho trovato, tra i miei studenti, la stessa spaccatura che troviamo tra altre persone: ci sono quelli religiosi, che scrivono anche delle belle cose, poi ci sono degli spiriti molto laici, molto critici, ed allora ecco vengono fuori delle obiezioni del genere: “E perché Dio, che ama tanto il suo popolo, fa venire il terremoto sui più poveri di tutti”; “Il maiale è umilissimo e adesso lo usano anche per fare il trapianto del cuore”…

Discussioni di questo tipo che attraversano il gruppo, invece le differenze tra tunisini, algerini, marocchini, etc., so che ci sono, ma non vengono fuori tanto facilmente. L’interessante sarebbe che venissero fuori e dicessero come siamo noi e come sono gli altri, perché in realtà ci sono delle divisioni molto forti. Anche tra i tunisini stessi, per esempio, ci sono alcune spaccature fortissime.

Il problema della comunità di provenienza e dell’identità è un altro problema che stiamo tentando di affrontare con il giudice perché, se ci si confronta con il trattamento in maniera approfondita, per esempio sarebbe interessante recuperare una carriera scolastica, ma se non so se il ragazzo si chiama Abdel, o si chiama Shel, io non posso recuperare il suo certificato scolastico. Se uno dice di essere marocchino, invece è tunisino, questo crea problemi di per sé, però sarebbe fondamentale, in questa azione di recupero in dimensione morale, poter dire: “Io sono io”.

 

 

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