Incontro con Carmelo Cantone

 

Un direttore di un carcere che ha scelto di non essere anche il direttore del giornale realizzato nel suo istituto

 

(Realizzato nel mese di settembre 2001)

 

Un’intervista a Carmelo Cantone, direttore della Casa di Reclusione di Padova, dove si parla di giornali del carcere, di censura, e del rischio che a censurarsi siano i detenuti stessi

 

"Il direttore fissa la linea del giornale e ne cura la compilazione in tutti i suoi dettagli, i redattori e i collaboratori adempiono ai compiti loro affidati. Non hanno alcuna voce sulla linea politica del giornale. Se non gli piace si dimettono. Se restano, obbediscono": attenzione però, qui non si parla affatto del direttore di un giornale del carcere, qui si parla di giornali "liberi", e di poteri dei loro direttori, e a parlarne è Eugenio Scalfari, per anni direttore di "la Repubblica". Allora dovrebbe essere chiaro a tutti che è un rischio concentrare, in un’unica persona, ben due poteri: quello di direttore del carcere e quello di direttore del giornale di quello stesso carcere. A Padova questo non è successo, dunque abbiamo potuto incontrare in redazione e intervistare il direttore della Casa di Reclusione, senza che a darci la linea politica fosse lui.

 

Un primo problema è questo: in molti giornali carcerari il direttore del carcere è anche il direttore del giornale, quindi una azione di pre-lettura degli articoli che saranno pubblicati è praticamente inevitabile. Noi questo problema l’abbiamo affrontato con una separazione dei due ruoli: può spiegare lei, allora, il suo rapporto con il nostro giornale e con questa realtà dell’informazione che c’è nel carcere di Padova?

Ornella Favero, come caporedattore, più di altri forse ricorda che, fin dall’inizio, con le prime prove e le prime bozze di Ristretti (questo è avvenuto nel ‘97) ci siamo interrogati vicendevolmente su chi doveva essere l’editore del giornale.

A quei tempi eravamo un po’ a livello pionieristico, dovevamo fare alcune scelte di fondo, e sembrava quasi naturale e ovvio seguire lo schema di altre esperienze, rispettabilissime, che c’erano in giro (e che sono andate avanti con maggiore o minore fortuna), cioè quello di una sorta di organo d’informazione dell’istituto con il Direttore dell’istituto in veste di Direttore responsabile.

La scelta è stata di tipo diverso e, secondo me, l’essere Direttore dell’istituto non significa per questo poi di dover essere il responsabile, il direttore, di qualsiasi operazione che si svolga all’interno della struttura. Questa è naturalmente una mia valutazione, perché in merito non ci sono mai stati degli input da parte dell’Amministrazione centrale. È bene sottolineare che l’esperienza dei giornali penitenziari, nata da La Grande Promessa in poi, non ha mai comportato un grosso dibattito all’interno dell’Amministrazione. E non c’è mai stata, né in anni lontani, né in anni vicini, un’indicazione sul tipo di rapporto che i direttori dovessero avere con la creazione di un giornale carcerario.

La scelta che facemmo qui, dunque, fu molto ragionata sulle nostre personali convinzioni, che sono poi confermate, secondo me, dall’esperienza fatta in questi anni: un giornale in carcere non deve vedere il Direttore come responsabile. Tanto più quando abbiamo fatto un’altra scelta agile e, alla fine, importante, e cioè che l’editore di riferimento non fosse nemmeno l’Amministrazione penitenziaria, ma un’associazione di volontariato, e, quindi, tanto più è giusto che questo editore esprima il suo direttore responsabile.

La scelta fatta è stata quindi in termini opposti rispetto a quella di un eventuale intervento di pre-lettura. È vero che, nei primi tempi, nella fase sperimentale, ho avuto la possibilità di leggere le bozze, prima che il giornale fosse pubblicato: mi avete fatto avere i numeri zero, ne abbiamo parlato, forse qualche volta su certi articoli potevo anche non essere d’accordo, ma non essere d’accordo è un conto, l’intervento preliminare di censura invece non ha proprio senso.

Non ha senso nemmeno, secondo me, preoccuparsi del problema. Cioè, nel momento in cui voglio effettuare un intervento preliminare di censura (detta brutalmente per quella che è), che valore voglio difendere? In questo modo non faccio altro che sottolineare una differenza (che poi è quella che, in questi anni, si va cercando di evitare) tra il giornale carcerario e il giornale esterno, quindi fra il redattore in libertà e il redattore detenuto.

Ma se parlo di professionalità del redattore detenuto, devo anche accettare che il redattore detenuto, come qualsiasi altro giornalista, si assuma la responsabilità di quello che dice, di quello che pensa, di quello che scrive e che fa, e che poi venga valutato per quello.

Possiamo allora parlare di "vincoli" che un giornalista-detenuto ha, più che di censura? È vero che anche un redattore di un giornale esterno, quando scrive, si deve comunque attenere alla linea editoriale del suo giornale, ma un detenuto di limiti e vincoli ne ha ben di più, no?

Il problema della libertà di stampa è delicato, è "tosto" anche per gli addetti ai lavori… figuriamoci per i non addetti. È chiaro che, se è legittima una censura, è legittimo che il prodotto abbia un certo taglio dopo. Ma io, come Amministrazione penitenziaria, se per assurdo dovessi accettare un intervento di lettura preliminare, di censura, di che cosa mi preoccupo? Che vengano fuori notizie a me non "gradite"? Su questo c’è da discutere, perché se si tratta di notizie non gradite bisogna poi chiarire il confine del "non gradito".

Andando così, a memoria, ci possono essere in questi quattro anni alcuni articoli di Ristretti Orizzonti a me non graditi, nel senso che erano articoli sul cui taglio, sulle cui valutazioni, a volte io potevo anche non ritrovarmi d’accordo, come leggendo qualsiasi altro giornale. Per esempio, un articolo nel quale si parlava dell’esperienza del I°A (N.d.R.: la sezione giudiziaria, tutta composta da stranieri, che c’è all’interno della Casa di Reclusione), un’esperienza poi positiva, per come si è passati da una situazione di grande chiusura, anche nei rapporti tra operatori e detenuti, di pessima vivibilità della sezione, ad un’evoluzione positiva. Quell’articolo aveva un certo tipo di taglio che, come dire, io avvertivo "contropelo". Ma perché, poi, in fondo? Perché, dalla mia visuale, nell’articolo non si dava atto del percorso che avevamo fatto, come gruppo di lavoro dell’istituto, cioè come direttore, come personale di polizia penitenziaria, come educatori: di come avevamo affrontato la cosa e ci eravamo evoluti su quel problema. Mentre, a parere mio, in quell’articolo appariva invece molto evidente l’impegno e il travaglio che avevano avuto i detenuti e poco altro.

Possiamo dire che l’articolo non mi è piaciuto? No, possiamo dire che avrei voluto vedere un articolo più ricco su certe cose. Immaginiamo, però, sempre rifacendoci a quell’esempio, se io avessi fatto un intervento censorio chiedendo alla redazione del giornale di mettere altre cose… Dire preventivamente "Dovete mettere questo", francamente, mi sembra un’esperienza da evitare.

Però il problema più avvertito, da parte nostra, resta quello dell’autocensura. Nel momento in cui devi scrivere delle cose, che presumi dispiacciano alla direzione, puoi anche avere la tentazione di tirarti indietro, perché valuti quali potrebbero essere poi le conseguenze, le ripercussioni. Noi, a questo problema, cerchiamo di rispondere raccontando ogni fatto, anche il più "pesante", attraverso quello che dicono più fonti d’informazione possibile, ma naturalmente non è che questa sia sempre una soluzione valida.

A volte non è soltanto una questione di contenuti, di ciò che si dice, ma anche di "come" lo si dice, cioè è un problema di stile, di toni… guardiamo alcune grandi firme del giornalismo italiano: Indro Montanelli, grandi polemisti come Giorgio Bocca, o Enzo Biagi, di varie posizioni, di varia estrazione culturale; indipendentemente dalla loro visuale, questi grandi editorialisti vengono valutati per i toni o per i contenuti? Credo per i contenuti. Allora, il problema qual è: il modo più o meno diretto con cui viene scritto un articolo? Sono molto più libero se uso certi toni forti?

È chiaro che c’è una specificità nello scrivere di problemi penitenziari e di scriverne nella qualità di "fruitore dei servizi dell’Amministrazione penitenziaria", di detenuto. C’è questa specificità e non ce lo dobbiamo dimenticare, però nel momento in cui si fa esercizio di professione giornalistica ci si misura con quello che si fa e con il prodotto che si offre. Cioè, ciascuno di voi, come qualsiasi giornalista, può mettere in conto di beccarsi una querela per diffamazione a mezzo stampa, non perché è un redattore detenuto, ma perché è un giornalista come qualsiasi altro, né più, né meno.

Se poi la scelta redazionale è quella di fare una denuncia frontale, rispetto a quella che è l’istituzione penitenziaria, lo si può fare tranquillamente. Io credo ci si debba poi misurare sulla qualità del prodotto e senza dimenticare cos’è il "gioco dei ruoli": se io vedo un fatto, posso vederlo nella lente del detenuto, come in quella dell’operatore volontario, o professionale.

Ognuno ha una sua lente di lettura, e lo sforzo che bisogna fare è quello di non lasciarsi troppo prendere dal gioco dei ruoli. Credo che, come istituto, questo sforzo l’abbiamo fatto e, mi pare, questo sforzo lo stiate facendo pure voi, immagino anche con qualche difficoltà.

Ricordo, qualche anno fa, di un detenuto che mi ha scritto una lettera dove diceva: "Caro direttore, avete fatto la festa del Corpo degli agenti, avete dato ricchi premi e cotillon, avete fatto un bel rinfresco, etc.. Ecco, per fare queste cose i soldi li avete. Per comprare palloni, racchette da ping - pong, o per farci stare un pochino meglio i soldi non ci sono". Questa, per esempio, è una mezza verità, nel senso che oggettivamente il fatto è vero: in quell’istituto, in quel momento, si è fatta la festa degli agenti però i soldi per comperare gli attrezzi sportivi ai detenuti non c’erano. Ma c’è anche una non conoscenza del problema, della verità totale, perché un conto è il capitolo di bilancio sulle spese per le attività culturali e sportive dei detenuti, un conto è quello per la festa degli agenti. Quindi, se faccio un discorso senza conoscere per intero le cose, faccio un discorso da bar e nulla più.

Un’altra specificità di noi redattori detenuti è quella di dover rispondere anche ai nostri compagni di ciò che scriviamo. Spesso, tornando in sezione, ci sentiamo rimproverare d’essere troppo "cauti" nel presentare i problemi, perché magari i nostri compagni vorrebbero vedere delle denunce più dirette, più esplicite, ritenendole il modo più efficace di affrontare le questioni. Quindi noi siamo un po’ presi tra due fuochi…

Il problema, mi pare, è più generale, cioè che il livello di comunicazione che c’è tra tanti dei detenuti che qui lavorano in una serie di attività informative (giornale, TG 2 Palazzi, Rassegna Stampa, scuole, etc.) e l’istituzione è qualificato, diciamo pure buono, rispetto a quello che tanti altri detenuti possono avere.

Lo specifico è che, in questo carcere, questo livello di comunicazione coinvolge 200 - 300 detenuti (forse meno o forse più non ha importanza) e magari in un altro istituto, un circondariale, queste percentuali sono molto più basse.

Ma, in effetti, uno degli aspetti importanti è cercare di fare in modo che questa comunicazione qualificata e responsabile, da ambedue le parti, che comprende anche livelli di tolleranza, di comprensione, di dirsi delle cose senza temere che ci siano chissà quali conseguenze, sia allargata anche agli altri detenuti. Non è un’operazione facile, è un percorso che stiamo facendo e nel quale bisogna anche accettare, ripeto, il gioco dei ruoli.

Su questo aspetto, della comunicazione qualificata, vorremmo fare un appunto. Poniamo a confronto il nostro giornale e il giornale dell’Amministrazione penitenziaria, "Le due città". A noi viene richiesto, un po’ da parte di tutti, un forte senso critico in ciò che scriviamo. Tutti noi diciamo che la realtà di Padova è senz’altro più positiva di tante altre, ma non le sembra, per esempio, che l’articolo sul carcere di Padova pubblicato su "Le due città", più che un articolo, fosse un "santino"?

Sicuramente, ma si tratta anche di due giornali ben diversi. Quello è un periodico, un bollettino dell’Amministrazione penitenziaria, come ce l’hanno tante altre amministrazioni, pubbliche e non. Io so che la redazione di quel giornale, direttore in testa, si pone il problema di cercare di fare un giornale che non sia una sorta di parata per far vedere come è bella l’Amministrazione penitenziaria. Se lo sta ponendo, con qualche difficoltà. Dall’altro lato, però, bisogna rendersi conto che c’è il desiderio di far capire che l’Amministrazione penitenziaria è in grado di offrire un prodotto, non tanto dal punto di vista giornalistico, ma come servizi, come uffici, che ha delle positività.

Se questo, poi, nella illustrazione delle esperienze dei singoli istituti, numero per numero, viene fuori come parata, come "santino", questo è un rischio su cui sono convinto (perché ne ho parlato anche con loro) che il gruppo redazionale della rivista "Le due città" sta riflettendo.

Parliamo invece di garanzie: non pensa che l’Amministrazione dovrebbe porsi il problema del rispetto degli spazi che vengono dati a un giornale? Lei sa benissimo che se il direttore dice che non ci sono agenti, qui non entriamo più, quindi di fatto siamo tutti ricattabili, detenuti

e volontari. Esiste, secondo lei, non proprio una soluzione, ma almeno la possibilità che l’Amministrazione sia interessata a tutelare queste esperienze d’informazione dal carcere?

Man mano che crescono le esperienze dei giornali carcerari, una maggiore chiarezza, un patto se vogliamo, tra l’istituzione e anche un’ipotetica Federazione dei giornali dal carcere, sicuramente avrà un senso.

Poi c’è il problema dei condizionamenti: se mi staccano la luce, se mancano gli agenti, se trasferiscono i detenuti… i condizionamenti dell’Amministrazione penitenziaria come editore di riferimento, insomma. Questi condizionamenti possono esistere come esistono anche per un giornale all’esterno: l’editore può esercitare diecimila pressioni sul direttore, sul comitato di redazione del più grosso giornale a tiratura nazionale, e riuscire ad arrivare ai suoi risultati.

Tutto non funziona nel momento in cui non c’è chiarezza e trasparenza. Per esempio, se l’operatore volontario non rispetta le regole, glielo si deve dire con chiarezza. Invece, se io mi metto a fare il dispettuccio, lo sgarbo, all’operatore che ha pubblicato le denunce dei detenuti, è chiaro che l’operazione viene vista come un’operazione di mero potere, come un’azione di forza istituzionale, il che, ovviamente, è diseducativo e distruttivo per tutti.

Io non credo che il futuro disegni segnali di chiusura o di difficoltà: più si allargano le esperienze dei giornali carcerari, con maggiore facilità si arriverà ad una specie di decalogo, che l’Amministrazione adotterà a garanzia della vita dei giornali e che, a sua volta, la redazione del giornale farà propria. Ma tutto questo deve avvenire fuori dai meccanismi della censura.

 

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