Giovanni Tamburino

 

Rieducazione e trattamento. È vero che l’etica, l’ideologia, l’impostazione normativa sul trattamento sono in crisi?

 

(Realizzata nel mese di giugno 2002)

 

A cura della Redazione

 

Ne abbiamo parlato con Giovanni Tamburino, magistrato, direttore dell’Ufficio Studi del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria

 

Giovanni Tamburino, magistrato, è direttore dell’Ufficio Studi del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e degente di lungo corso delle patrie galere, come si è definito lui stesso, in un incontro nella Redazione di Ristretti Orizzonti: anni di "frequentazione" delle carceri gli hanno dato infatti una conoscenza più che approfondita delle nostre galere. Con lui abbiamo parlato di "trattamento", parola orrenda che usiamo per definire tutto quello che viene fatto, o dovrebbe essere fatto per favorire un reinserimento del detenuto nel tessuto sociale. 

Giovanni Tamburino: Vorrei fare una premessa. Io seguo la vostra rivista, la leggo e la apprezzo perché è una rivista che mi sembra faccia uno sforzo di sincerità, e che si distingue da tante altre, dato che spesso la produzione scritta che viene dagli istituti è un po’ impostata sulla giustificazione, il giustificazionismo, o l’autocompatimento. Questo ha naturalmente delle ragioni, che chiunque capisce: tenete presente che io frequento le carceri ormai da oltre trent’anni, esattamente da trentadue, e quindi possiamo parlare con franchezza.

Ora, questa vostra rivista cerca, direi in modo particolarmente forte, di liberarsi da questo aspetto, ed è una cosa positiva, che io apprezzo, perché i problemi vanno considerati da tutti gli angoli visuali. Evidentemente ognuno parte dal proprio e conosce meglio il proprio, questo è ovvio e non è eliminabile, però è importante confrontarsi con gli altri, sennò si fa una cosa rivolta solo a se stessi. Voi cercate di fare una rivista che parla anche agli altri, grazie alla rottura di questa specie di capsula, in cui spesso si trova la produzione letteraria delle carceri, che finisce sempre per essere, appunto, segnata da una nota di compatimento o di giustificazione.

 

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): Questa premessa naturalmente ci fa un gran piacere, ci piace soprattutto che venga apprezzato il nostro "sforzo di sincerità".

Oggi con lei vorremmo parlare del "trattamento", che ci sembra veramente in crisi, per l’insufficienza di personale (a Padova ci sono due educatrici e "mezza" per 700 detenuti) ma, forse, anche perché c’è un forte disinteresse al riguardo, e pare che in tanti non ci credano più.

 

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti): Partiamo comunque da un problema particolare del trattamento, il fatto che negli ultimi anni è cambiato anche il ruolo degli agenti, che oggi dovrebbero essere più direttamente coinvolti in una funzione trattamentale. Secondo lei, la loro formazione è fatta tenendo conto di questo nuovo ruolo che gli è attribuito?

 

Giovanni Tamburino: L’attribuzione al personale di custodia di compiti anche trattamentali risale alla legge del ‘92, che ha riformato il corpo degli agenti di custodia, facendoli diventare polizia penitenziaria: cambiamento di denominazione, civilizzazione, cioè non più corpo militare ma corpo civile e, in uno degli articoli della legge, si dice chiaramente che la polizia penitenziaria concorre, con gli altri operatori, all’attuazione delle attività trattamentali.

Da allora, sul piano della formazione, direi che si fa abbastanza per dare questa nuova impostazione, questo nuovo taglio, alla polizia penitenziaria. Diciamo però che rimane un problema di fondo, quello di mettere insieme due competenze che, a un certo momento, divergono e, forse, sono difficilmente compatibili.

Esistono anche altri modelli, e ve ne voglio citare uno: quello spagnolo. La Spagna è un paese di recente accesso alla democrazia, ma proprio per questo è quello che si è avvalso di più e meglio delle esperienze degli altri, in vari campi. Nel campo penitenziario qual è stata la soluzione adottata? Praticamente nelle carceri c’è un personale che ha compiti trattamentali e insieme compiti di sicurezza, con delle specializzazioni; all’interno.

Il servizio di sicurezza vero viene effettuato dall’esterno, dalla polizia normale: è un servizio perimetrale e, naturalmente, ove occorra la polizia interviene, però tutto il personale interno ha compiti trattamentali. Questo modello non riguarda tutto il settore penitenziario spagnolo, però la maggior parte degli istituti: al primo contatto lascia anche perplessi, ed è difficile, dal nostro punto di vista, immaginare che possa funzionare, però funziona, abbiamo visto che funziona.

Probabilmente il problema di conciliare questi due compiti (la custodia e il trattamento), ma anche due mentalità, due preparazioni diverse, esiste dappertutto. Parliamoci con franchezza, la preparazione destinata alla custodia, alla tutela dal rischio, è una preparazione che deve basarsi sulla sfiducia, sul sospetto, sulla preoccupazione. Questo atteggiamento è difficile da conciliare con l’atteggiamento educativo, che si fonda invece sulla fiducia. Allora vedete che qui, alla radice, c’è una spaccatura che è difficile da conciliare.

 

Nicola Sansonna (Ristretti Orizzonti): Io volevo chiedere se c’è un criterio di distribuzione, sul territorio nazionale, degli educatori. In tutta Italia ci sono 600 educatori per quasi 60.000 detenuti, quindi un educatore ogni 100 reclusi. Ma in carceri come Padova, dove ci sono circa 700 detenuti, ne abbiamo due e mezzo. Le conseguenze ricadono su di noi, molte camere di consiglio vengono rinviate perché non ci sono le relazioni di sintesi e questo è un problema forte, che noi sentiamo molto.

 

Giovanni Tamburino: Riguardo alla distribuzione del personale devo premettere che è un settore dell’amministrazione penitenziaria che conosco poco e che viene gestito da un’apposita direzione generale che, come si può immaginare, è afflitta da molti problemi.

La realtà del personale (che poi è fatta di uomini, persone, con tutti i loro problemi), tende a diventare una cosa autonoma, che ha le sue esigenze, per cui quella domanda che si potrebbe porre dall’esterno in termini molto semplici "Ma perché, se in quel posto occorrono due persone, ce n’è solo una o ce ne stanno zero?", poi diventa molto complicata quando la si va a rapportare con i bisogni delle persone, per tutti i motivi che sono intuibili, come lo stare vicino alle famiglie.

Per fare un altro esempio, noto a tutti, sapete che c’è anche un criterio che riguarda la polizia penitenziaria. Questo è notissimo, non occorre che lo dica io: se si va a vedere nel meridione d’Italia ci sono dei rapporti numerici molto diversi da quelli che ci sono a Monza, a Padova, a Tolmezzo, a Udine, c’è una sproporzione da uno a due.

La domanda sulla distribuzione del personale potrebbe essere posta anche in relazione a questo, e non potrei che rispondere come ho detto un attimo fa, cioè che giocano tutta una serie di fattori, a volte anche di carattere personale. Con questo non intendo dire che siano capricci, magari ci sono esigenze anche serie, abitative, familiari, però alla fine il risultato è che l’amministrazione non risponde, o risponde poco, a certe esigenze.

Il secondo aspetto è quello di una stasi nelle assunzioni, o comunque nell’aumento del personale destinato alle attività trattamentali. Anche questa è una domanda difficile, perché dovremmo riprendere un punto toccato nella prima domanda, e cioè: "Il trattamento è in crisi? L’etica, l’ideologia, l’impostazione normativa sul trattamento, sono in crisi"?

Noi abbiamo una legge degli anni 70 che ha abbracciato abbastanza con convinzione questa ideologia, o etica, del trattamento. Sono passati 25 anni, da quel momento (di più se si guarda alla concezione della legge), e in questo periodo molte cose sono cambiate. La fiducia nel trattamento, in campo internazionale, è calata, ed è calata per due ragioni essenziali: una di carattere economico, perché costa, e la seconda, strettamente collegata a questa, perché sembra che renda poco.

La crisi di questa ideologia è arrivata proprio quando si è cominciato a cercare di misurare quanto "rende" in termini di recidiva, perché è questa l’unica domanda legittima che si può porre ad un sistema trattamentale. Se a questa domanda si dà una risposta negativa, si dice che incide poco o, peggio, non incide per nulla, la ragione della spesa viene meno, o diventa meno forte.

A questa obiezione degli antitrattamentalisti, cioè quelli che sono critici verso il trattamento, si risponde dicendo che non è il trattamento che non rende, ma è la circostanza che non viene fatto come dovrebbe essere fatto, o non viene fatto per niente.

Dire quale di queste due posizioni sia fondata è difficile, perché dovremmo approfondire molto questo punto. Sta di fatto che, sul piano internazionale, un certo numero di paesi si è orientato per abbandonare l’ideologia del trattamento, e sostituirla con altre forme o con altri tipi di risposta, magari spendendo gli stessi soldi, o investendo addirittura risorse maggiori, però nella convinzione (o nell’illusione) che siano soldi spesi meglio. Ripeto, a volte è soltanto un’illusione, però questo è il panorama generale nel quale ci muoviamo.

Nel nostro paese non c’è stato il rifiuto dell’ideologia del trattamento, né sul piano normativo né sul piano politico-ideologico, anche perché abbiamo un ancoraggio, che è molto forte, nell’articolo 27 della Costituzione, che pone un obiettivo della pena, tendere alla rieducazione. Quello è un pilastro che non esiste in altri paesi a livello costituzionale, e che nel nostro paese invece esiste.

Quindi sul piano dei principi e anche delle disposizioni di legge non c’è stato un rifiuto, un tornare indietro, però la crisi complessiva di questa ideologia può spiegare (assieme ad altri fattori) perché sia stata un po’ abbandonata, cioè perché in sostanza si sia detto: "Lasciamo pure che il fiume scorra, però noi non costruiamo più argini. Che vada, continui ad andare, però non ci impegniamo molto a lavorare, perché non sappiamo se serve, non sappiamo se facciamo una cosa utile, non sappiamo se sono soldi ben spesi".

È interessante appunto vedere che nel ‘92, quindi in epoca recente, si è cercato, più che di investire specificamente nel trattamento, di utilizzare gli operatori esistenti: non pensiamo più ad una specializzazione, a qualcuno che lavori solo per il trattamento, ma utilizziamo le risorse che abbiamo.

Poi c’è da dire che la stessa idea del trattamento non è del tutto chiara, cioè su cosa significhi il trattamento, su come si possa fare trattamento, occorre ancora approfondire: bisognerebbe capire di più cosa vuol dire, quali sono gli obiettivi. Io vivo le cose dall’altra parte, però mi chiedo molto spesso se il detenuto ci crede, quanto ci crede, quanti detenuti ci credono.

Per essere banale (e, se volete, anche brutale) faccio un esempio molto chiaro: se si dicesse che quel denaro viene messo da parte per un’attività lavorativa, quanti detenuti direbbero "Preferisco così"?

Mi rendo conto che sono esempi estremi, ma li faccio per mostrare qual è il punto finale del ragionamento: credere al trattamento fino in fondo significa condividerne le finalità, ma condividere le finalità del trattamento vuol dire uscire da un’ottica di recidiva.

 

Nicola Sansonna: Ma per uscire dalla recidiva devi anche trovare una situazione esterna dove non sei lasciato a te stesso e, secondo me, questa è una delle cose che mancano di più. Io sono in galera da 24 anni, ho avuto anche qualche fallimento, rientro un po’ in quelli che vengono chiamati i casi di recidiva, e posso dire però che all’interno del carcere il trattamento mi è servito a ricostruire la mia personalità, mi ha aiutato ad avere fiducia in me stesso, a cercare di andare avanti, a trovare la forza di dire che ce la posso fare.

Però tante volte esci fuori in misura alternativa e la realtà che trovi non è quella che hai qua, dove puoi usare strumenti informatici, frequentare corsi ed essere in contatto con persone di un certo livello. Fuori magari devi tagliare l’erba per 400 euro al mese, e poi tornare dentro a dormire. Non hai altri spazi, non hai la possibilità di curare degli interessi culturali, se io fossi religioso non potrei andare nemmeno a messa, perché chi è in articolo 21 o in semilibertà non lo può fare. Dal punto di vista umano bisognerebbe ripensare qualcosa, dare anche qualche opportunità di contatti culturali e di relazioni.

 

Alessandro Pinti (Ristretti Orizzonti): Io aggiungerei che i risultati del trattamento non devono essere misurati soltanto in termini di recidiva, il suo successo è stato che oggi le carceri sono governabili, sotto tutti i punti di vista, proprio per la maturità e la consapevolezza che è più forte nei detenuti. Perché oggi un detenuto, per quanto possa fingere, sta cercando con maturità di rivedere parte degli errori che ha commesso. È chiaro che se uno, dopo vent’anni, va fuori e va a tagliare l’erba e basta, è molto facile che gli venga voglia di andare a rubare un’altra volta, ma se una persona viene messa nelle condizioni di fare un percorso di analisi critica, complessiva, del proprio passato, quando andrà a tagliare l’erba probabilmente gli verranno in testa altri progetti, altre relazioni sociali. Cioè un eventuale fallimento concreto nella sua vita fuori non sarà il fallimento del trattamento, ma sarà la constatazione che la vita è dura, che bisogna guadagnarsi gli spazi per vivere e per andare avanti.

 

Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Io vorrei dire invece che mi ha un po’ "spaventato" la sua ultima affermazione, quella dove lei ha detto che forse non ne vale la pena, e mi sono visto l’ammalato di cancro al quale si decide quasi di negare l’operazione o le cure perché ha solo il 30 % di possibilità di salvarsi, e allora tanto vale non sprecare soldi. Anch’io penso che probabilmente il trattamento avrebbe bisogno di essere rivisto, così com’è non è sufficientemente incisivo, ma sono anche del parere che a nessuno debba essere negata la possibilità di rivedersi e recuperarsi, e senza il sostegno delle attività trattamentali questo non è facile, per non dire impossibile.

Recuperare anche "solo" il 30 % di 60.000 persone significa reinserire nel tessuto sociale circa 18.000 individui che non rappresentano più un pericolo per la collettività, che rispettano le regole, e in questo caso non mi sembra si siano sprecate risorse economiche, ma penso piuttosto che si sia effettuato un investimento lungimirante. È forse giusto gettare la chiave dicendo "Se ce la fate bene, altrimenti arrangiatevi, per voi non spendiamo più nulla?". Lei ha anticipato che era un’affermazione cruda, che non rispecchia il suo punto di vista, ma la strada imboccata ultimamente e lo scarso interesse per il carcere sembrano portare proprio in questa direzione.

 

Graziano Scialpi (Ristretti Orizzonti): Rispetto al doppio ruolo degli agenti di polizia penitenziaria, quello della sicurezza e quello rieducativo, è una schizofrenia che si sente, all’interno del carcere italiano, che dovrebbe avere questo compito… ma più che un compito si rivela una velleità rieducativa. Può essere che i numeri della recidiva arrivino anche un po’ da questa contraddizione del carcere. Molti lamentano che c’è solo il 30 % che non ricade nella recidiva, ed io ogni tanto mi meraviglio che ci sia addirittura il 30 % che non ci ricade, perché la mia impressione è che quando ci sono dei percorsi di ravvedimento - e ci sono, all’interno del carcere - questi avvengano non "grazie" ma "nonostante" il carcere.

Il carcere mette la persona di fronte a un modello che dovrebbe seguire, ma in realtà è un modello schizofrenico, è un modello che a volte gli dà esempi di ingiustizia, se non di abuso e sopraffazione.

 

Giovanni Tamburino: Faccio una premessa: io non sono contro la rieducazione, e da questo punto di vista non sono neanche contro il trattamento anche se, in questa nozione, c’è qualcosa che mi sembra un po’ oscuro, che richiederebbe un ulteriore chiarimento che io non riesco a darmi. Questa è una riserva che non significa però contrarietà, perché se avessi una ragione di contrarietà avrei già risposto dicendo che è fatica sprecato. Penso che, alla fine, questo chiarimento può e deve venire dagli utenti. In sostanza il trattamento è una sorta di servizio e sono gli utenti, alla fine, che dicono se questo servizio serve, se va bene, se è efficace, se lo vogliono e se giova, se ha qualche risultato. Anche se poi è vero che la società magari è sempre più avara e pian piano si abbandona all’idea che ognuno si arrangi.

Questa è esattamente l’opposto della mia idea, e direi che è l’opposto dell’idea della società voluta nella Costituzione del ‘48, è la negazione radicale dell’idea di società della Costituzione, che è una società di solidarietà. E questo non per ragioni etiche o religiose, ma perché il costituente nel ‘48 usciva da una situazione per la quale sapeva che l’altro modello, la società non solidale, non può che portare al conflitto, alla violenza, alla guerra, e noi uscivamo appunto da un conflitto che era diventato conflitto generale, e dall’idea di distruggere una popolazione perché era di una determinata razza.

Però, attenzione, nella storia non esiste un vaccino che duri per sempre, non esiste a livello individuale e neanche a livello sociale. In alcuni paesi il trattamento è iniziato decenni prima che nel nostro paese, ed è lì che si sono manifestate le critiche, cioè ad un certo momento si è detto di fare un bilancio, di vedere cosa ne è venuto fuori.

Non è che queste critiche siano condivise da tutti, però è sorta una forte tendenza a criticare il trattamento, in sostanza dicendo che si parla di una cosa che non si capisce bene cos’è, che spesso i detenuti, i diretti interessati, gli utenti finali, se andiamo a farli parlare sinceramente, a distanza di tempo, dicono che è servito poco o non è servito per nulla.

Siccome il trattamento ha dei costi alti, questi argomenti hanno portato a quel tipo di critica. In più c’è quell’atteggiamento, di carattere politico generale, tendente a dire che è necessario ridurre le spese in generale, per cui se le riduciamo per la scuola, le riduciamo per la sanità, perché non le dobbiamo ridurre per il carcere?

Nell’altra osservazione, invece, si parla della governabilità degli istituti, ma su questo aspetto bisogna fare un po’ di attenzione… lasciate che vi riferisca la mia esperienza personale. Io sono entrato in carcere nel 1970, ed ho visto il carcere di prima, l’ho visto per sei anni, perché la riforma è cominciata parecchio dopo: ebbene, la gestibilità esisteva anche prima della riforma, anche se abbiamo avuto un periodo di forte turbolenza, il periodo della transizione, perché come sempre le turbolenze si hanno nelle transizioni.

La gestibilità degli istituti, anche senza ricorrere a strumenti di rigore, si può ottenere per esempio attraverso la gestione dei benefici, che non sono il trattamento. Non dobbiamo confondere, ancora una volta, due idee diverse, perché il beneficio di per sé non è trattamento. Il punto è che il trattamento non è solo un problema di gestibilità, anzi non deve essere problema di gestibilità, deve essere un’altra cosa.

Torno alla recidiva. Non c’è solo quella, c’è anche il problema di agevolare la ricostruzione della persona: ecco, questo è un obiettivo importante, reale, è un obiettivo ulteriore rispetto alla recidiva, ed è un obiettivo positivo. Mi chiedo, però, se possa essere incluso negli obiettivi della pena.

Questa domanda ha due versanti, è un punto difficile da chiarire. Il primo versante è questo: in sostanza, la società ha diritto di utilizzare la pena per intervenire sulle persone che sono soggette alla pena stessa? Il secondo versante, che è collegato, è questo: perché dovremmo dare questo tipo di servizio a persone che sono condannate, quando non lo diamo agli altri?

Dal punto di vista giuridico la risposta è molto semplice, la legge prevede questo, punto e basta, ma qui stiamo discutendo su un piano precedente, per così dire, rispetto alla legge. Stiamo vedendo quanto tiene questa costruzione, e arriviamo al nocciolo di tutta la questione: la rieducazione, spesso, avviene non "grazie al carcere", ma "nonostante il carcere".

C’è una forte resistenza, da parte di chi opera nelle istituzioni, ad ammettere questo, però, realisticamente, oggi sarei portato a dire che quest’affermazione coglie un aspetto di verità. È il problema principale del carcere, di questa sanzione che sembra non avere alternative, che oggi non ha alternative reali, nel mondo, nella storia. Però tutti devono ammettere che non è una buona cosa, e, allora, ci ritroviamo tutti nella stessa situazione, ad essere disarmati, pur su posizioni diverse.

 

Ornella Favero: Io sono convinta che nel discorso del trattamento ci sia un difetto di fondo, che è uno scarsissimo legame con il "fuori". Il trattamento, che dovrebbe preparare ad uscire, in realtà molto spesso è troppo "rinchiuso" nel carcere. Se invece il discorso del trattamento toccasse, in qualche modo, tutta la vita della persona, con il lavoro, ma anche gli affetti, il bisogno di relazioni, la cultura, con una forte proiezione verso l’esterno, forse ci si potrebbe anche credere di più, non nei termini tradizionali della rieducazione, perché è difficile che io rieduchi una persona di 40 - 50 anni, però nel senso di ricreare un rapporto con il mondo esterno, che si è spezzato o in certi casi non è mai esistito. Forse bisognerebbe rimettere in discussione il concetto di trattamento, più che decretarne troppo in fretta il fallimento.

 

Giovanni Tamburino: Torno a dire che non condivido l’idea che il trattamento sia un fallimento, e mi sembra, però, che anche da tutto quello che è venuto fuori oggi, sia vero che esistono degli aspetti problematici. Però lo sforzo che stiamo facendo è di capire, perché sempre da là si parte. C’è un momento in cui certe cose sono credute dalla società, e allora la politica segue, mentre ci sono delle cose alle quali ad un certo punto la società crede meno, o non crede più, o dubita, o si insinuano delle perplessità, e allora la politica si tira indietro, soprattutto in un momento in cui c’è questa tendenza a smobilitare. Lo Stato fa passi indietro, ripeto, non nel settore penitenziario, ma in tanti altri settori, smobilita, lascia, e allora bisogna porsi effettivamente questi problemi.

Manca qualcosa di positivo come riscontro, occorrerebbe questo qualcosa di positivo, per rilanciare un concetto che, altrimenti, visto appunto il clima nel quale siamo, corre dei rischi, a mio parere. Ecco, occorre rilanciare qualcosa di positivo, perché queste cose positive ci sono, e voi nella vostra rivista lo evidenziate. Anche noi, come Dipartimento, un po’ cerchiamo di farlo, forse non abbastanza o non abbastanza bene. Nella nostra rivista, Le due città, ad esempio, mostriamo senza trionfalismi come in molti istituti il trattamento sia una realtà, e non sotto il profilo della governabilità, ma sotto il profilo che gli operatori sono più contenti, vivono meglio, si vive meglio. Anche questa è una comunità, è una piccola società, ma è un settore della società e, quindi, se questo settore è meno intossicato, tutta la società è meno intossicata.

 

 

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