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Incontro con Luigi Morsello, direttore del carcere di Lodi
Di Ferruccio Pallavera - Il Cittadino, 3 luglio 2004
Luigi Morsello è nato il 3 gennaio 1938 ad Avigliano (Potenza), dove c’era un Istituto Minorile nel quale lavorava il padre, come agente di custodia. Il padre era di origini napoletane, la madre siciliana di Buscemi, in quel di Siracusa.Nel 1943 i Morsello si trasferiscono a Eboli, in provincia di Salerno, dove esisteva una Casa di rieducazione riservata a ragazzi provenienti da famiglie difficili, presso la quale lavorava il capofamiglia. Il piccolo Luigi Morsello trascorre gli anni della giovinezza a Eboli. Frequenta l’Università a Napoli, si laurea in giurisprudenza. Nel 1964 partecipa a un concorso pubblico per la direzione carceraria, e lo vince. Il posto di lavoro glielo assegnano tre anni più tardi.Nel 1967 viene inviato quale vicedirettore agli Istituti penitenziari di Firenze. Nel novembre 1969 è direttore titolare del carcere di San Gimignano, dove rimane fino al 1981. Nel frattempo si occupa per brevi periodi anche della reggenza a scavalco di altre strutture di pena, e cioè le carceri di Volterra, Siena, Pisa, Lucca, Pistoia, Montepulciano, Arezzo, Capraia, Gorgonia, Pianosa e gli stessi istituti penitenziari fiorentini.Nel 1981 lo mandano per pochi mesi a dirigere la struttura aperta di Lonate Pozzolo, in provincia di Varese, finalizzata a far lavorare i detenuti sieropositivi o ammalati di Aids. Nello stesso anno viene trasferito ad Alessandria, direttore di un carcere che ospita i pentiti e i dissociati dal terrorismo. Nel 1984 fa ritorno a Lonate, ma viene incaricato contestualmente di aprire il nuovo carcere di Busto Arsizio, che dirige fino al 1986. Quindi torna ad occuparsi unicamente della realtà di Lonate Pozzolo, che lascia nel 1988.In quel frangente fa ritorno nella città delle origini, a Eboli, presso l’Istituto Penale per minorenni che dirige fino al 1990, anno della sua chiusura. Morsello torna al nord, e nel 1990 è il nuovo direttore del carcere di Pavia: durante la permanenza nella città lombarda inaugura la nuova struttura. Dal 1995 al 1997 è a Milano, presso il Provveditorato. Nel settembre 1997 viene nominato direttore della Casa Circondariale di Lodi. Da allora si occupa della realtà ubicata in via Cagnola. La sua è stata una vita molto avventurosa, scandita da avvenimenti che si sono incrociati con personaggi e storie dell’Italia contemporanea. Una vita, quella di Luigi Morsello, per certi versi avventurosa e piena di colpi di scena. Essendo prossimo alla pensione - si metterà a riposo nel febbraio del 2005 - gli abbiamo chiesto di raccontarci quanto ha vissuto.
Dottor Morsello, a parte i primissimi anni della sua vita, lei è praticamente originario di Eboli, la località resa immortale dal celebre libro di Carlo Levi… "La casa di rieducazione presso la quale lavorava mio padre era ospitata nell’antico castello che apparteneva ai Principi Colonna. Il castello si trova sulla sommità che guarda Eboli e ancora oggi è adibito a funzioni pubbliche, perché ospita una struttura chiusa riservata ai detenuti tossicodipendenti. Ricordo, da piccolo, quando i ragazzini la domenica pomeriggio venivano portati al cinema. Uscivano dalle porte del castello e scendevano a piedi nella parte bassa del paese. Indossavano divise nere, con cappello e mantello nero. Erano incolonnati come militari".
Lei ha una laurea in giurisprudenza. Perché ha scelto questa professione presso il Ministero di Grazia e Giustizia e non ha fatto l’avvocato? "Avrei voluto frequentare la facoltà di medicina, così come mi sarebbe piaciuto iscrivermi al Conservatorio. Ma la mia famiglia non aveva la forza economica per sostenermi. Avrei anche voluto entrare all’Accademia Aeronautica, ma non ero ancora maggiorenne, ci voleva il consenso del padre, che mi fu negato. La professione di avvocato era impossibile da svolgere a Eboli, in quanto il tessuto sociale era poverissimo. Optai per un concorso pubblico".E allora?"Quello fu il primo e unico concorso pubblico della mia vita. Era il 1964. Lo vinsi, ma il posto me lo assegnarono solo nel 1967, mandandomi in Toscana, a Firenze, quale vicedirettore degli Istituti penitenziari cittadini. Arrivai a Firenze nel luglio del 1967. Pochi mesi addietro, nel novembre 1966, c’era stata la tragica piena dell’Arno che aveva causato danni ingenti anche alle strutture carcerarie, ubicate in prossimità del fiume. Sa quale fu il mio primo incarico?".
Dica… "Mi dissero di occuparmi del restauro straordinario delle strutture che avevano subito i danni dell’alluvione. La cosa mi appassionò subito. Nel giro di sei mesi appaltati opere per mezzo miliardo di lire, una somma che, nel 1967, era molto ingente. Dovetti pensare a tutto, dal rifacimento di alcuni pavimenti antichi agli arredi. Quel primo contatto con i detenuti mi giovò. Fu a Firenze, infatti, che feci nascere un laboratorio di legatoria, per dare ad essi lavoro. Di lì a qualche anno avrei fatto di meglio".
Ossia? "Nel novembre 1969 mi nominarono direttore titolare del carcere di San Gimignano, dove sarei rimasto fino al 1981. Quell’esperienza avrebbe segnato la mia vita, per una serie di aspetti molto positivi ed esaltanti, ma anche negativi e tragici".Ne vogliamo parlare? Incominciamo dal rapporto con i detenuti."Riuscii ad aprire, all’interno del carcere, un laboratorio di falegnameria al quale lavoravano 35 detenuti, e un laboratorio di sartoria che ne occupava altri 40. Grazie a queste due attività l’ottanta per cento dei reclusi aveva un’occupazione. Lavoravano e guadagnavano, perché ero riuscito ad ottenere una serie di commesse ministeriali".
Mi colpisce questo suo entusiasmo… "Ricordo la Pasqua del 1970, quando all’interno del carcere tenemmo una sacra rappresentazione messa in scena dai detenuti, alla quale intervennero tutte le autorità della regione Toscana. E in occasione della Pasqua del 1971 il Lyons Club di Colle Val d’Elsa offrì un pranzo collettivo a tutti gli ospiti del carcere, che vi parteciparono insieme a tutti i loro famigliari. Avevo instaurato un bellissimo rapporto con i detenuti".
Racconti… "Quando arrivai a San Gimignano nel carcere esistevano solo due salette televisive. Vi si poteva accedere solo due volte alla settimana e ai reclusi era impedito di vedere il telegiornale. Questo significava farli vivere fuori dal mondo. Non appena assunsi la direzione del carcere, con un provvedimento formale li autorizzai a guardare la televisione tutte le sere, telegiornale compreso. Il carcere di sera era costantemente buio, caratterizzato dalle luci fioche. I detenuti erano costretti a coricarsi non appena scendeva il sole. Cambiai radicalmente le cose. Inondai il carcere con oceani di luce, di notte il carcere era distinguibile da tutti, anche da lontano, era diventato una luminaria natalizia permanente".
Quindi si impegnò anche a livello di strutture… "Il carcere era all’interno della città. Occupava i locali di un antico convento, che aveva un chiostro molto bello, ma l’intera struttura era in condizioni pessime e fatiscenti. In accordo con l’amministrazione comunale iniziammo le pratiche per poter costruire una nuova sede, all’esterno e a nord della città, che potesse essere più moderna e funzionale". E in effetti oggi San Gimignano ha un nuovo carcere. Chiunque giunga in visita alla città medioevale se lo trova davanti. Lo costruirono in epoca recente, quando io avevo già lasciato la città. Ma invece di edificarlo a nord, dove l’avevamo previsto, lo costruirono a sud, in una conca, e in un luogo strategicamente non esaltante. È ubicato a circa 7 chilometri dalla città. Tutti, dall’alto della colline circostanti, guardano sopra il nuovo carcere, e questo non è bello. Comunque sia, riuscii a realizzare corposi interventi manutentivi della storica struttura, grazie ai detenuti".Grazie ai detenuti? E come?"Tutti coloro che quando erano in libertà avevano lavorato in edilizia, costituirono una squadra di muratori provetti. Con il coinvolgimento di questi ultimi riuscimmo a fare cose impensabili. Guardi questa fotografia. Vede i cinque uomini che vi sono ripresi? Si tratta di quattro detenuti e di un agente di custodia. È una squadra di muratori che sta lavorando all’esterno del carcere, per realizzare una conduttura dell’acqua. Noti che siamo fuori dalla prigione, che i quattro detenuti sono liberi, che c’è un solo agente con loro e che quest’ultimo non è armato. Capisce cosa voglio dire?"
È un aspetto inimmaginabile… "E non è tutto. Vede questa cartella gonfia di documenti? Custodisce un pacco di lettere di ex carcerati che ho conosciuto a San Gimignano. Ad alcuni di essi riuscii a far ottenere la grazia dal presidente della Repubblica. Usciti di prigione e tornati in libertà, scrivevano ripetutamente a me e mia moglie, raccontando le loro vicende e ricordando i momenti che avevamo trascorso insieme. Tante volte fecero ritorno a San Gimignano per farci visita. Legga il finale di questa lettera: chi scrive mette in risalto la bontà degli agenti di custodia e ringrazia la mia famiglia perché - dice il detenuto - "mi è stata di conforto per tanti anni. Capisce il clima che si era instaurato?"
Lei mi sta fornendo dei dodici anni trascorsi a San Gimignano un’immagine irreale, addirittura idilliaca… "Fino ad ora ho messo in evidenza alcuni degli aspetti positivi e delle cose belle che ancora oggi affiorano nella mia mente. Ma non erano tutte rose e fiori. A San Gimignano vissi anche parecchi episodi di fortissima tensione sociale, e quando questo avveniva, ero costretto a chiamare i rinforzi e a far intervenire le forze dell’ordine. Il carcere, come ho detto, si trovava all’interno delle mura castellane del centro storico della città, e ogni volta San Gimignano finiva in stato d’assedio".
Cosa sono questi episodi di "fortissima tensione sociale"? Non dimentichiamo che quelli erano gli anni del ‘68 italiano, gli anni delle rivolte operaie e studentesche, delle rivolte in carcere. Erano i momenti terribili che sarebbero sfociati negli Anni di piombo delle Brigate rosse. Anni devastanti. In tutte le altre strutture carcerarie della Toscana i miei colleghi avevano iniziato a tenere aperte le porte delle celle, per far sentire il meno reclusi possibile i loro ospiti. Questo però creava problemi enormi dal punto di vista dell’ordine pubblico e della disciplina e sicurezza interne. Io non volevo saperne. Alla fine fui costretto anch’io a comportarmi in questa maniera. E fu il caos".
Perché? "Aprii le porte delle celle nel Natale del 1974. Il disordine che ne scaturì diventò immediatamente incontrollabile. Gli agenti di custodia non riuscivano ad avere in pugno la situazione, io ero preso di mira, mi trovavo ripetutamente tra due fuochi. Finalmente, nel 1976-1977, quando arrivò il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a istituire il circuito dei carceri di massima sicurezza, io mi adeguai subito. Aveva ragione il generale. Fui il primo direttore di carcere della Toscana a rinchiudere le celle, come ero stato l’ultimo ad aprirle. Non ce la facevamo più".
Un episodio? "L’aver autorizzato l’apertura di tutte le celle finì per mettere l’intera struttura carceraria alla mercè dei detenuti. Vissi momenti pesantissimi, con tre sequestri. Emanai una precisa disposizione affinché venissero controllati i contenuti dei pacchi che i famigliari spedivano ai detenuti, ma la mia decisione non venne applicata. Attraverso questi pacchi nel 1975 entrarono in carcere tre pistole, che servirono per sequestrare alcuni agenti. Io stesso sfuggii per un caso fortuito al sequestro. In quel periodo mi avevano assegnato anche la direzione del carcere di Volterra, e io mi ero recato là".
Come andò a finire? "Il sequestro durò tre giorni, facendo un grande scalpore. Ero molto preoccupato. Poi arrivò l’ordine di sparare. Mandarono sul posto dei tiratori scelti, e la vicenda si concluse con l’uccisione di uno dei due detenuti in rivolta. L’altro si arrese e si fece disarmare. La cosa non finì lì. A quell’episodio fecero seguito altri due sequestri, fortunatamente limitati a una sola cella".
Un’uccisione in carcere... Non deve essere stata una cosa bella, per lei. "Il peggio per me doveva ancora venire. Il 21 gennaio del 1981 si verificò dal carcere di San Gimignano un’evasione che avrebbe mutato il corso della mia vita. Si trattava di un detenuto "eccellente", che in carcere faceva lo scrivano allo spaccio, ma uno dei miei collaboratori gli aveva mutato mansione, facendogli fare lo scopino in portineria. Con il suo modo di fare riuscì a manipolare e a corrompere la buona fede degli agenti. Trovandosi in portineria, aggredì l’unico agente presente, lo sopraffece, gli spezzò in testa un posacenere di vetro lasciandolo tramortito. Aprì la porta del carcere e si diede alla fuga".
Un’evasione organizzata in tutti i piccoli particolari, quindi… "Si era conquistato talmente la buona fede del personale che l’agente che si trovava all’esterno nella garitta lo vide e lo salutò dall’alto, non immaginando che quello stava scappando. Non appena mi avvisarono scatenammo una caccia all’uomo, con l’uso dei cani. Ma il detenuto arrivato alla strada provinciale si fece dare un passaggio da un automobilista e fece perdere le sue tracce. L’evaso era un personaggio importante, ma noi non eravamo al corrente di chi fosse realmente".
Chi era? "Giovanni Guido, detto Gianni. Era uno dei tre dei Parioli accusati della strage del Circeo. Nessuno ci aveva detto che non era solo un assassino, ma anche un pericoloso terrorista, appartenente alla destra extraparlamentare".
Poi lo catturarono? "Sì. Ma in Sudamerica, dopo essere stato latitante per quattordici anni. Oggi si trova ancora in carcere, come è in carcere l’altro suo collega. Il terzo degli accusati della strage del Circeo invece ha fatto perdere per sempre le sue tracce. Quell’evasione costituì comunque un avvenimento drammatico".
Perché drammatico? "Con quella incontrollata dose di ingenuità che possiedo, io mi assunsi tutte le responsabilità di quanto era avvenuto, anche se mi trovavo lontano dal carcere. Dissi che garantivo io per il mio personale. E aggiunsi che ero al corrente dei motivi per i quali Gianni Guido si trovasse in portineria. Non era vero. Solo qualche giorno dopo, quando capii di cosa stava per franarmi addosso, ritrattai tutto, ma ormai era troppo tardi".
Per quale motivo? "Si pensò subito alla corruzione, iniziarono a dire che qualcuno aveva intascato dei soldi. Invece c’era stata solo ingenuità e buona fede. La nostra era stata la sottovalutazione del pericolo, tipica di chi è tutti i giorni a contatto con il pericolo stesso".
Mi colpisce questa sua ultima frase… "In prigione tu dovevi scegliere. O fai il carceriere con tutta la durezza delle sue espressioni, oppure tenti di offrire l’occasione per far riemergere dal delitto le persone che ti sono affidate. Ho sempre scelto la seconda strada, ma questo mi ha portato a sottovalutare i rischi connessi".
Come andò a finire? "L’evaso era un personaggio troppo importante. Cercarono immediatamente un capro espiatorio. Arrestarono un agente e il padre dell’evaso. Perquisirono gli uffici del direttore e del comandante".
Anche il suo ufficio? "Aspetti, non è finita. Perquisirono anche la mia abitazione. Mi contestarono la responsabilità del tentato omicidio da parte dell’evaso. Fui incolpato di procurata evasione. Rischiai l’arresto. Il mondo mi crollò addosso. Rimasi allibito, sgomento. Noi non avevamo messo in tasca una lira, ci eravamo solo comportati come babbei, buscammo psicologicamente una valanga di legnate".
Cosa le ha insegnato la vicenda di San Gimignano? "Testimoniò tutta la mia grande ingenuità. Scoprii di aver mantenuto, con tanta buona fede, tanti rapporti con il fuoco del potere, di non essere stato in grado di domarlo, e di essermi bruciato. Ma era troppo tardi. Oggi, a pochi mesi dalla pensione, posso dire di avere ormai metabolizzato tutto, ma quella storia ha finito per segnare pesantemente l’intera mia esistenza. Avevano bisogno di un capro espiatorio, non importava nulla di quanto ero riuscito a realizzare nei dodici anni trascorsi, dei rapporti di stretta collaborazione avviati con i detenuti. Fui trasferito da San Gimignano".
Un brutta storia. Evidentemente era proprio quel suo modo di fare a dare fastidio. Dove la mandarono? "In Lombardia. A Lonate Pozzolo, direttore di una realtà che grottescamente si addiceva al marchio che qualcuno mi aveva appioppato addosso". Non capisco."Lonate Pozzolo era una struttura aperta, un carcere che non aveva inferriate alle finestre, non aveva reticolati né muri di cinta, senza sbarre e senza chiavistelli. Era una sorta di cascina al centro di un’azienda agricola circondata da 300 ettari di terra, di cui 110 ettari a bosco, dotata di stalle con allevamenti di bovini, ovini e suini. Io arrivai a Lonate Pozzuolo con incollata addosso l’immagine del direttore corrotto che faceva scappare i detenuti. Mi inviarono in un "carcere" dal quale tutti paradossalmente potevano fuggire. Capisce il paradosso?"
Ma chi erano i detenuti "rinchiusi" in un carcere sempre aperto? "Inizialmente erano persone a cui mancavano fino ad un anno e mezzo di pena da scontare. Nella struttura erano ospitati 64 detenuti. Poi iniziarono ad arrivare i primi ragazzi sieropositivi, e quindi quelli con l’Aids conclamato. Nel giro di pochi anni la struttura di Lonate Pozzuolo venne interamente occupata da ammalati che avevano la sorte segnata. Arrivavano che erano rottami umani, provenienti da carceri diverse, si trovavano in una "casa di pena" che in realtà era una grande cascina immersa nel verde, tutta aperta. Quell’improvvisa e irreale libertà li stordiva".
Scusi, ma... non scappava nessuno? "La media di evasioni era di circa venti all’anno. Era una media fisiologica. Ma la prima volta che mi comunicarono un’evasione io mi feci prendere di colpo da un’emozione incontrollabile. Era ovvio che fosse così, ero ancora oppresso dalla terribile vicenda vissuta a San Gimignano. Anche per me ci volle del tempo per abituarmi alla struttura di Lonate Pozzolo. Ero fermo alla concezione del carcere duro e soprattutto chiuso. E poi fui costretto ad abituarmi a convivere con i ragazzi ammalati e a rigenerarmi nelle mie conoscenze".
Perché? "Dovevo dirigere quello che non era un solo carcere tutto particolare, ma anche una grande azienda agricola condotta da carcerati. Mi buttai in quella nuova avventura con tutto l’entusiasmo di cui sono capace. Dopo il mio arrivo le evasioni si ridussero drasticamente: nessuno aveva più la voglia di evadere".
Come se la cavò con i ragazzi sieropositivi o ammalati di Aids? "Dopo due settimane di vita all’aperto, occupati nei lavori dei campi, anche gli ammalati gravi, colpiti dall’Aids, si trasformavano fisicamente. Sembravano rifiorire. Creavano l’illusione a loro stessi e anche a me che questo stile di vita fosse un toccasana per la malattia. Io mi convincevo che il lavoro a contatto con la natura riuscisse a far riprendere la difese immunitarie che avevano smarrito. Non era vero. Di lì a poco arrivava il momento della crisi. Una prima, una seconda, una terza, che era letale. Molti erano talmente malridotti che venivano scarcerati. Tanti altri li ho visti morire".
Mi ha detto che lei è andato a Lonate Pozzolo nel 1981… "Sì. Ci arrivai dopo il fattaccio di San Gimignano, nel mese di aprile, dopo aver partecipato a un processo a Siena contro quattro napoletani che avevano ucciso un detenuto in carcere. Grazie alla mia testimonianza riuscii a farli condannare all’ergastolo".
E fino quando restò a Lonate? "Inizialmente fino al dicembre dello stesso 1981. Mi chiamarono infatti a dirigere il carcere di Alessandria, che si trovava in centro alla città e che aveva due sezioni particolarissime: una riservata ai pentiti, l’altra ai dissociati dal terrorismo, di destra e di sinistra. Era mescolati assieme, convivevano senza problemi!".
Una promozione, per lei… "Per niente. Nessuno voleva mettere piede ad Alessandria, perché la situazione interna del carcere era pesantissima. Ma io, ancora coinvolto dai processi per quanto mi era accaduto a San Gimignano, mi trovavo in una situazione indifendibile. Ero il più debole, il più ricattabile, l’ unico che non poteva dire di no".
E cosa trovò ad Alessandria? "Due carceri sfasciati, che ospitavano detenuti ex terroristi, alcuni dei quali erano veri pezzi grossi, entrati nella storia degli anni di piombo. Questi detenuti erano gestiti da chi li aveva catturati, ossia parte dalla Polizia di Stato e parte dai carabinieri, al punto tale che i detenuti sembravano essere proprietà personale delle forze dell’ordine che li avevano ammanettati e che continuavano a vigilare su di essi. In quella situazione, che ci stava a fare il direttore del carcere?"
Infatti… "Il primo problema che dovetti affrontare fu quello di disciplinare il flusso dei poliziotti e dei carabinieri, e di ciò che si portavano al seguito, per ringraziarsi i detenuti durante gli interrogatori. In carcere entrava di tutto: alcolici, riviste pornografiche...".
E lei? "Io ero debole, incerto, continuavo a rimuginare su ciò che mi era capitato a San Gimignano. Alla fine sparai un pugno sul tavolo: basta dissi - questo è un carcere, e io ne sono il direttore. Io non faccio il direttore del Grand Hotel. Ad Alessandria la situazione non era delle migliori neppure dal punto di vista del personale. In passato c’era stata una strage in carcere, e da quel brutto episodio gli agenti di custodia non si erano più ripresi. Qualcosa non funzionava neppure tra di loro".
E allora? Strinsi i freni, diedi una sterzata all’intera vita carceraria, cambiai radicalmente il tenore di vita della struttura. Finii però per rimanere solo. Mi scontrai con tutti: detenuti e agenti di custodia. La situazione degenerò in maniera improvvisa".
Degenerò come? Degenerò in un ammutinamento. Era il 30 giugno 1983, me lo ricordo ancora bene quel giorno. Quarantaquattro agenti si ammutinarono. Io entrai in carcere e li vidi tutti schierati fuori, in portineria. I primi della fila mi dissero: "Lei oggi non può entrare". Io andai su tutte le furie. Mi aprii un varco con la forza, ma i secondi della fila mi buttarono fuori. Non avevo altra scelta che usare il pugno di ferro. Mi precipitai dal questore di Alessandria, convocai il comandante regionale degli agenti di custodia, il cui intervento fece ritornare alla ragione quel personale. L’ammutinamento cessò. Vennero arrestati tre brigadieri e otto agenti. Avevo finalmente ripreso in mano la direzione del carcere, poi capitò un altro episodio non esaltante, di cui si parlò in tutta Italia".
Quale? "In carcere ad Alessandria c’era il figlio di un famoso uomo politico di Torino. L’ex terrorista si chiamava Marco Donat Cattin. Quest’ultimo aveva il permesso di incontrare in carcere la sua fidanzata, pure ex terrorista. Con la compiacenza degli agenti di custodia, il parlatorio si era trasformato in un’alcova. Avvenne un concepimento in carcere, lei chiese di abortire. Montò lo scandalo, e il direttore del carcere ero io".
Di nuovo nell’occhio del ciclone… "Infatti. E di nuovo cercarono qualcuno a cui assegnare la colpa di quanto era accaduto. Ovviamente non potevo più rimanere ad Alessandria in quella situazione. Me lo fecero capire. Eravamo al 1984. Feci domanda di tornare a Lonate Pozzolo. Mi accontentarono. Ma non mi fermai a lungo a Lonate Pozzolo".
Per quale motivo? "Dopo soli sette giorni, pur lasciandomi in carico la realtà di Lonate Pozzolo, mi dissero di andare ad aprire il nuovo carcere di Busto Arsizio, che si trovava a una decina di chilometri di distanza. Il carcere aprì i battenti l’8 aprile del 1984".
Quindi tornavano ad avere stima di lei, se le assegnavano questo incarico comunque prestigioso… "Anche qui c’era sotto un inghippo. Busto era un carcere nuovo, ma era stato progettato e costruito come carcere speciale. Nel 1984 da carcere speciale venne trasformato in casa circondariale, ma la struttura era quella precedente: 104 piccole celle, con uno spazio vitale minimo, tale da poter ospitare un solo detenuto. Ogni cella era di dodici metri quadrati, compreso il bagno. Ebbene: mi assegnarono anche 104 letti a castello, in maniera tale che i posti di colpo raddoppiassero, diventando 208. Ma questo significava far vivere due persone in uno spazio angusto, pensato per contenerne una soltanto".
E lei dovette arrangiarsi… "Avviammo il trasferimento dal vecchio al nuovo carcere. E la situazione diventò di colpo invivibile. Durante i primi mesi registrammo numerosi casi di autolesionismo, con detenuti che si procuravano tagli nelle braccia. E, purtroppo, anche qualche tentato suicidio".Un bel problema."Un problema che non era solo legato alle persone, ma alla stessa struttura. Il carcere, pur di recentissima costruzione, faceva parte di quelli finiti nell’inchiesta delle "carceri d’oro". Era iniziata tangentopoli, e si indagava su come erano stati fatti gli appalti e realizzate le opere. E nel nuovo carcere di Busto Arsizio erano tante le cose che, a livello di strutture, non funzionavano. Tra queste, ce n’era una abnorme".
Quale? "Il nuovo carcere non era stato collegato alle fognature. Tutto il liquame finiva in pozzi perdenti, troppo piccoli, malcostruiti, e perennemente intasati. Il liquame fognaria affiorava in superficie, con una puzza nauseabonda. Pressato dall’Ufficio d’igiene affinché intervenissi a sanare la situazione e dopo i ripetuti dinieghi dell’amministrazione comunale di Busto che si rifiutava di eseguire le opere di allacciamento fognario, mi assunsi la responsabilità del caso e feci costruire una grande fossa sotterranea, con la quale tutto andò a posto. A quel punto trovarono un altro direttore. Lasciai la direzione del carcere di Busto Arsizio nel settembre del 1986".
E dove si trasferì? "Rimasi a Lonate Pozzolo. Decisi che non mi sarei più stato da lì. Mi buttai a capofitto nel potenziamento di una realtà che non era solo un carcere, ma anche un’azienda agricola. Già nel 1981 avevo acquistato una piccola serra da destinare alla coltivazione degli ortaggi. Mi feci consigliare da persone competenti. In due anni, dal 1986 al 1988, acquistai altre due serre e alcune macchine agricole. Seminammo 80 ettari a mais, feci costruire un silos a trincea in grado di contenerne il raccolto. Avviai una serie di innovazioni: il seminativo ad loietto, i prati stabili politifi, l’impianto di centinaia di alberi da frutti adatti alla zona".
E il risultato? "Fu molto soddisfacente, per certi versi esaltanti. Feci piantare cinque ettari di terra a prato stabile polifita, siamo passati dal dover acquistare il fieno per il bestiame ad averne in abbondanza. Producevamo la granella di mais che, una volta trasformata in farina, veniva utilizzata per l’alimentazione del bestiame, unitamente a appropriati integratori vitaminici e sali minerali. Le vacche passarono da una produzione giornaliera di 4 litri di latte a 18 litri. Feci costruire un macello, dotandolo di cella frigorifera. Le porcilaie passarono da 7 a 70 suini. Acquistai un nuovo toro per la monta del bestiame. Mi dedicai anche al gregge delle pecore".
Anche le pecore? "Il gregge della tenuta agricola era una vera reliquia zoologica, l’unico gregge residuale della pura razza varesina. Riuscii a scovare un montone che in poco tempo ridiede vigore a un gregge che era frutto di troppi incroci consanguinei. Mi sentivo realizzato: non ero più solo il direttore di un carcere senza sbarre, ma l’imprenditore di un’azienda agricola moderna. I detenuti erano tutti motivati. C’erano ragazzi che passavano anche diciotto ore sul trattore. Si sentivano realizzati. Poi, purtroppo, tutto ebbe fine".
Perché? Perché ci piovve addosso il progetto del grande aeroporto della Malpensa. L’area dell’azienda fu inserita nel progetto Malpensa. E per far posto a edifici non rilevanti, collegati a depositi che avrebbero potuto essere costruiti anche altrove, distrussero con un colpo di penna un’esperienza particolare, un carcere-azienda, una realtà unica non solo in Italia, ma in tutta l’Europa occidentale".
E così... "E così nel 1988 trasferirono altrove il direttore, chiusero la struttura di Lonate Pozzolo e nel 1989 diedero inizio alla sua demolizione. Io fui assegnato all’Ispettorato Distrettuale di Firenze, ma contestualmente non mi diedero l’alloggio di servizio. Era impossibile trovare un appartamento a Firenze. Decidemmo allora, io e mia moglie, di fare ritorno a casa. Chiesi ed ottenni la direzione della struttura per i minorenni di Eboli. Ci andammo con la convinzione che ci saremmo rimasti fino alla pensione, e successivamente ci saremmo definitivamente fermati sul posto. Ero finalmente sereno, tranquillo. Mi sentivo a casa".
E lei perché adesso è a Lodi e non a Eboli? "Perché di lì a pochi mesi mi comunicarono che l’istituto penale per minorenni sarebbe stato chiuso a tempi brevissimi. Non serviva più, l’entrata in vigore delle nuove norme processuali penali del 1989 avevano ridotto drasticamente il numero dei minorenni che finivano in carcere o vi restavano. Chi mi aveva concesso il trasferimento a Eboli era al corrente della situazione, ma non me l’aveva comunicato. Nell’autunno del 1990 mi faccio trasferire al nord, a Pavia, quale direttore del carcere cittadino. La scelta di Pavia era collegata al fatto che due dei miei figli vi frequentavano l’Università. Il carcere era ubicato in una struttura antiquata e ormai superata, situata dietro il palazzo di giustizia. Il nuovo carcere lo stavano ultimando".
Toccò a lei inaugurarlo? "L’8 febbraio 1992 aprii io il nuovo carcere di Pavia, arredandolo di tutto punto. Realizzato per ospitare 150 detenuti, con il sistema del raddoppio ne aveva 300. In quel momento la mia situazione fisica subì un tracollo. La malattia che mi ha perseguitato per anni tornò improvvisamente a prendere il sopravvento".
Possiamo saperne qualcosa di più, o preferisce non parlarne? "No, no, scriviamolo. Da tanti anni sono affetto da depressione bipolare, una stranissima malattia collegata al metabolismo. I fattori esterni influiscono sulla malattia e questo finisce per scatenare la riduzione di una serie di sostanze che influiscono negativamente sull’umore. La malattia mi produceva alcune crisi depressive che io vivevo come un inferno. Alcuni momenti della mia vita sono stati scanditi da queste crisi, terribili".
Non lo immaginavo… "La prima pesantissima depressione l’ho subita nel 1981, dopo le vicende di San Gimignano, al punto tale da vivere momenti di insufficiente lucidità mentale. La seconda crisi mi venne nel 1986, quando fui trasferito a Lonate. La terza fase mi colpì nel 1992, dopo il grande sforzo compiuto per mettere in funzione il nuovo carcere di Pavia. Crollai lo stesso giorno nel quale iniziarono il trasferimento dei detenuti. Per me fu una tragedia. E compii un gesto incredibile".
Quale? "Il 25 settembre 1992, alle ore 19.30, nella mia camera da letto mi tirai un colpo di pistola al cuore. Il proiettile mi attraversò il ventricolo sinistro. Mi salvò l’equipe cardiochirurgica del Policlinico San Matteo di Pavia".
Dottor Morsello, questa storia del suicidio io non la scriverei. È meglio non parlarne… "Perché? Fu un gesto incontrollato, causato dalla situazione di grave prostrazione psicologica nella quale mi trovavo. La vicenda ebbe dell’inverosimile. Tutti coloro che mi conoscevano, compresi i collaboratori più stretti, dissero che si era trattato di qualcosa di accidentale. Non era vero. Fu un gesto volontario".
Sono parole pesanti, le sue… "Le posso pronunciare oggi, quando ho finalmente trovato un farmaco che ha eliminato la mia malattia. Ripensando a quanto capitatomi nel 1992 mi sento in colpa con mia moglie e i miei figli. E posso dire di aver dato loro tanto affetto, forse più di quanto ho dato prima. L’assurdità, la stupidità di quel gesto la compresi un attimo prima di perdere conoscenza. È quanto dico ancora oggi quando ripenso ad esso".
E poi, cosa capitò? "Mi ripresi in fretta. Dopo l’intervento chirurgico rimasi quindici giorni in rianimazione e quindici giorni nel reparto di psichiatria, dal quale venni dimesso senza diagnosi. Rimasi complessivamente due mesi fuori servizio. Nessuno riusciva a capire cosa mi fosse capitato. Avevano tutti paura, mi invitavano a stare calmo e tranquillo, a rimanere chiuso in casa".
E lei? "Io a Natale dello stesso anno ripresi servizio".Come venne accolto?"Finii per avvallare l’ipotesi dell’incidente. Era quanto pensavano tutti, dalla Magistratura di Pavia agli stessi detenuti. Ma in carcere mi vedevano indebolito e quindi coartabile. La situazione poteva sfuggirmi di mano. Nel febbraio del 1993 un detenuto, un narco-trafficante, durante un’udienza si alzò in piedi e si mise ad urlare contro di me, puntandomi il dito addosso. Non potevo permettere un comportamento di quel tipo verso di me. Lo feci rinchiudere in cella di isolamento. Uno dei miei collaboratori giudicò quel mio gesto spropositato e lo segnalò ad un ispettore che a sua volta denunciò il fatto alla Procura della Repubblica, tramite il magistrato di sorveglianza di Pavia".
Come andò a finire? "Una giovane magistrato collegò quanto era avvenuto al mio tentativo di suicidio. E il 15 novembre 1993 mi sospesero dal servizio, con provvedimento del Gip. Io in quel frangente commisi un altro errore: tardai un giorno a lasciare il servizio, perché volli firmare di persona alcune scarcerazioni da tempo programmate. Mi accusarono così anche di abuso di pubblico ufficio".
La sospesero dal servizio? E fino a quando?" La sospensione cautelare rimase in vigore fino al 25 giugno 1995. Nel frattempo io feci ricorso su tutti i fronti per quanto mi era capitato. Sta di fatto che rimasi fuori servizio per due anni, a mezzo stipendio, con tre figli che frequentavano l’Università. Finì con una serie di assoluzioni con formula piena, convalidate dalla Cassazione. Rientrai in servizio, riottenni i soldi che mi erano stati decurtati, ma non riuscirono a restituirmi le umiliazioni patite non solo da me, ma anche dalla mia famiglia".
E quando rientra in servizio cosa fa? "Decisero ingiustamente che non potevo più rimanere a Pavia, dove c’erano persone che temevano una mia vendetta personale. E allora fecero in modo che io venissi trasferito a Milano. Presi servizio al provveditorato nel giugno del 1995. Rimasi a Milano due anni, fino al settembre 1997, quando mi nominarono direttore della Casa Circondariale di Lodi".
E lei da quasi sette anni si trova a Lodi… Ho 66 anni, dovrei già essere in pensione, ma ho utilizzato una disposizione legislativa che permette una proroga di due anni. Mi restano ancora pochi mesi di servizio. Andrò in pensione con il primo febbraio 2005".
Mi dica qualcosa della sua permanenza a Lodi… A Lodi ho trovato una struttura parzialmente restaurata. Il mio compito è stato quello di ultimare gli interventi mancanti. Il carcere però non possedeva gli spazi necessari alle attività trattamentali. Presentai una richiesta per poter occupare i due cortiletti sterrati con una struttura provvisoria prefabbricata, in grado di ospitare un corso di tecnico casaro. La pratica venne messa da parte, finché, con l’arrivo del ministro Castelli, tutto improvvisamente cambiò".
Perché? "Il nuovo ministro di Giustizia volle prendere visione delle pratiche pendenti in Lombardia che riguardavano i fabbricati. Tra queste c’era quella che avevo presentato io, per Lodi. Mi chiamarono, si interessarono alle nostre esigenze. Riuscii ad ottenere la predisposizione e il finanziamento di un progetto finalizzato alla costruzione di una nuova palazzina, su tre livelli, tali da ospitare tutto ciò di cui avevamo bisogno. Con Lodi furono circa una decina i progetti appaltati in Lombardia entro il 2002. La nuova palazzina di Lodi venne iniziata e ultimata nel giro di un anno. L’ha inaugurata il ministro Castelli poche settimane orsono".
Quanti sono i detenuti di Lodi? "Un’ottantina, e una sessantina sono gli agenti di custodia".
Si trova bene a Lodi? "Benissimo. Non escludo, una volta andato in pensione, di trovare un piccolo appartamento in affitto, nel quale abitare saltuariamente quando io e mia moglie torneremo a Lodi".
Nel corso dell’ultimo anno nella Casa Circondariale di Lodi è nato il giornale "Uomini Liberi", che viene pubblicato anche come allegato al "Cittadino". Quando Andrea Ferrari le ha lanciato l’idea del giornale la sua risposta è stata subito positiva. Questo le fa onore. "La nascita di un giornale interno al carcere non è una novità di grande rilievo oggi che vi è una proliferazione, indubbiamente positiva, di tali iniziative. Ma si sa, anche la nascita di un figlio, da che mondo è mondo, non è un fatto di grande rilievo, una novità per la comunità umana: lo è però per quella della famiglia. Il varo di un giornale interno è stata una novità indubbiamente positiva per questa comunità. Lo è stata anche per un direttore come me, ormai privo di qualsiasi illusione, che ha oltre 66 anni di età ed oltre 36 anni di servizio".
Mi colpisce la sua frase: "ormai privo di qualsiasi illusione"... "Perdere le illusioni non vuol dire perdere la percezione dei valori, snaturare il proprio codice morale, dimenticare l’etica dei rapporti umani. Anzi, da una simile, per me fausta, perdita delle illusioni si avvantaggia sul terreno della concretezza, della efficacia, della efficienza". Uomini Liberi ha costituito un grande successo, non solo per i detenuti. La sua pubblicazione nel "Cittadino" ha di colpo avvicinato il carcere alla città e al suo territorio. Improvvisamente tanti nostri lettori hanno scoperto che a Lodi c’era una casa circondariale. Ne ignoravano persino l’esistenza. Ne sono soddisfatto. Era quanto mi auguravo. Ed è anche per questo che fin dall’inizio ho sostenuto l’iniziativa".
Lei sta per andare in pensione. Ci auguriamo che il suo successore alla direzione del carcere di Lodi abbia la sua medesima apertura mentale, permettendo a "Uomini Liberi" di proseguire la sua strada… "Sono sicuro che il giornale interno durerà, perché è cosa buona e giusta, perché non sarà ancorato a personalismi, perché sarà sempre, in loco, in buone mani".
Parliamo ancora del carcere di Lodi… "Questo di Lodi è un piccolo carcere, di vecchio tipo, costruito nel 1905. È quanto meno singolare che io abbia iniziato la mia attività di servizio - ho in odio il concetto di carriera - in vecchi istituti, quali Firenze e San Gimignano, e che la debba terminare in un vecchio istituto, appunto a Lodi. Si dice che un vecchio istituto non offra granché, ed è vero. Si dice che dovrebbe essere sostituito con una nuova, moderna struttura, anche questo è vero".
E quindi... "Un vecchio istituto come quello di Lodi, realizzato in base a concezioni della esecuzione della pena del vecchio ordinamento carcerario, ha comunque una sua identità, una sua caratterizzazione. Non è piatto né alienante. Io ho diretto sia vecchi che nuovi istituti, dei quali ultimi ho messo in funzione ben due: i citati Busto Arsizio e Pavia. Ebbene: non mi piacciono".
Perché? "In entrambe le circostanze, nel primo anno, dal passaggio del vecchio al nuovo carcere, si moltiplicarono i gesti di autolesionismo ed aumentò l’aggressività. Tutto questo per lo stridente, e quindi negativo, contrasto fra il caratterismo del vecchio e l’anonimato del nuovo".
Però il carcere di Lodi è stato costruito nel 1905. L’anno venturo compirà cento anni. È un po’ vetusto, non le pare? "Il nostro carcere è vecchio, ma si difende bene, in quanto ancora vivibile, in quanto migliorabile, in quanto bene insediato nel centro storico. Non crea disagi a nessuno: detenuti, loro familiari, personale accasermato, vertici civili e di polizia penitenziaria. E poi i miglioramenti sono innegabili: la recente costruzione del nuovo edificio su tre livelli (seminterrato, pianterreno e primo piano) inaugurato dal ministro Castelli ha risolto il problema della mancanza di spazi per le attività trattamentali. I miglioramenti sono stati fatti: ricordo ancora il completo restauro negli anni scorsi, del quale ho potuto osservare solo l’ultima parte".
Da tempo emerge l’esigenza di una nuova costruzione. Anche Lodi ha bisogno di un nuovo carcere, non crede? "Prima o poi prevarrà la spinta al nuovo. Anche a Lodi si arriverà all’allontanamento dal centro storico e cittadino. Si farà un nuovo, anonimo e brutto carcere, Ma io ho la fortuna di non correre il rischio di doverlo mettere in funzione e nemmeno di vederlo, perché sarò felicemente in pensione. Fino ad allora, ed almeno fin quando non sarò uscito definitivamente di scena, questo istituto, che si caratterizzava per la cosiddetta "cura dell’orco" - con ottimi ma misconosciuti risultati - avrà il vanto di ammettere i detenuti al lavoro esterno. Non per sciocca gara o insipida rivalsa, ma per profondo e maturato convincimento".
È giusto dargliene atto, dottor Morsello. È vero. Ne parliamo? "L’istituto giuridico del lavoro esterno non ha nulla a che vedere con la semilibertà, anche se le somiglia in modo impressionabile. Infatti non è una misura alternativa alla detenzione, come lo è la semilibertà".
Cos’è? "Il lavoro esterno è una misura risocializzante altrettanto efficace, pur restando confinata nel settore del lavoro penitenziario. È relativamente di più facile adozione, è controllata agevolmente dal direttore del carcere che utilizza il proprio personale. Per la semilibertà il controllo avviene tramite il Centro di Servizio Sociale per adulti. Insomma, è un istituto giuridico più agile sotto molteplici profili, che vorremmo ancora continuare ad utilizzare, senza timori insensati e biechi egoismi".
Cosa le hanno lasciato dentro le vicende che ha dovuto attraversare nella vita? Lei è stato segnato da episodi non facili, talvolta tragici e drammatici… Non porto né odio né rancore. L’acqua sotto i ponti è passata, non macina più. Nel dicembre 2002 sono stato di nuovo sopraffatto dalla mia terribile depressione, una forma che ritenevo senza più speranza. Di colpo tutte le mie incertezze si sono trasformate in terrore. Ero un uomo che si sentiva di nuovo alla deriva. Ho avuto l’immensa fortuna di essere portato da un medico specialista che mi ha somministrato un farmaco che mi ha salvato. È qualcosa che riesce a modulare il tono dell’umore. Da allora sto benissimo".
Lo vedo. Lei è un uomo sereno… Lo sono da quando sono riuscito finalmente a vincere la malattia, a controllare le emozioni".
Ha un rammarico? Il fatto che il farmaco che sto assumendo esisteva già vent’anni fa. Se l’avessi scoperto prima, forse la mia vita sarebbe cambiata".
Di certo non avrebbe tentato il suicidio… "Non vorrei essere frainteso, ma l’esperienza del tentato suicidio che ho vissuto mi ha reso ancora più attaccato alla vita. È come se fossi nato una seconda volta. È come se fossi rinato a nuova vita. Questo lo scriva per favore".
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