Sergio Segio

 

Che ne è stato del Piano Marshall per le persone scarcerate?

E dei soldi promessi per il reinserimento dei detenuti nell’anno del Giubileo?

 

(Realizzata nel mese di novembre 2001)

 

A cura di Francesco Morelli

 

Sergio Segio lo abbiamo incontrato a Firenze, al Convegno dei giornali del carcere, dove noi eravamo "inviati" di Ristretti. La prima cosa che gli abbiamo chiesto, prima di iniziare l’intervista vera e propria, riguardava il suo "stato giuridico": non si è trattato però di una nostra curiosità, ma di una domanda "interessata", vista la nostra posizione di detenuti in permesso. 

Qual è, attualmente, la tua situazione giuridica? Il Magistrato di Sorveglianza, sui nostri permessi, ha scritto "Non può frequentare pregiudicati…" ed il paradosso è che, intorno a questo tavolo, ci ritroviamo in tre detenuti e… un ex detenuto, se non sbaglio.

Sono un ex detenuto, in effetti. Ho trascorso in carcere circa vent’anni ed oggi sono in libertà vigilata, sottoposto a tutti gli obblighi che la libertà vigilata comporta.

L’anno scorso, assieme a Sergio Cusani, ti sei fatto promotore del cosiddetto "Piano Marshall" per le persone scarcerate. Di questo progetto non sentiamo più parlare da mesi: ma che fine ha fatto?

Col precedente Ministro della Giustizia ci siamo seduti più volte ad un tavolo di lavoro, per valutare questo progetto, ed era emerso come le risorse fossero un elemento necessario affinché il Piano Marshall non dovesse affidarsi unicamente alla buona volontà delle organizzazioni già presenti sul territorio: il volontariato, le comunità, etc., hanno bisogno anche d’investimenti.

Dovevano esserci 300 miliardi, nella scorsa finanziaria, stanziati per sostenere questo Piano, ma quando la legislatura si è chiusa è risultato che i 300 miliardi non c’erano più.

Va detto, a onor del vero, che il senso del lavoro mio e di Cusani è stato appunto quello di mettere assieme le diverse esigenze e competenze, riuscendo a costituire un "cartello" di associazioni e a farlo interloquire con le istituzioni e l’amministrazione: solo se tutti fanno la propria parte, infatti, problemi così difficili riescono a essere affrontati. Insomma, tutto un lavoro di tessitura, prima a livello politico, poi a livello di volontariato e associazionismo (spesso non meno litigioso delle forze politiche) aveva permesso la predisposizione di un articolato di legge per finanziare il reinserimento degli ex detenuti, ma la fine della legislatura, in sostanza, ha azzerato quello specifico stanziamento. Su queste cose l’informazione non circola e, troppo spesso, non circola ad arte.

Comunque la Finanziaria ha destinato al bilancio generale della giustizia una parte maggiore di risorse e, rispetto alle Finanziarie precedenti, risorse maggiori sono state destinate anche ad alcune attività all’interno. Non come volevamo noi, sul versante dell’aiuto alla persona nel momento del reingresso nella società, per spezzare la spirale della recidiva, però un po’ di miliardi in più sono a disposizione dell’amministrazione su alcuni versanti: la mediazione culturale, la questione dell’A.I.D.S., la questione delle dipendenze e quant’altro.

Un’altra informazione che bisogna quanto più diffondere è che esiste un’ingente quantità di denaro depositata nella famosa "Cassa Ammende" dell’Amministrazione Penitenziaria: nel corso degli anni vi si sono accumulati parecchi miliardi. Ora bisogna evitare che questi soldi siano dispersi (o utilizzati impropriamente o irregolarmente) e quindi il problema sta nel fare delle proposte per il loro utilizzo, ma anche nel vigilare sull’utilizzo che ne sarà fatto, perché in assenza d’iniziativa politica, in assenza di capacità nostra di fare progetti, di fare proposte, ma anche di sollecitate l’Amministrazione, non so come andrà a finire…

Purtroppo la vita mi ha insegnato ad essere pessimista e, se saremo assenti su questi temi, temo fortemente che questi soldi finiscano nella ristrutturazione di qualche carcere o nell’informatizzazione dell’amministrazione.

Ecco, questo va considerato il fondo che potrebbe essere utilizzato per riattivare il Piano Marshall o, comunque, del lavoro, della formazione. Bisogna proporre, chiedere, vigilare, perché i soldi ci sono e c’è solo il problema politico di destinarli in modo opportuno.

Il vicedirettore del D.A.P., Emilio di Somma, presente alla giornata di studi sul volontariato penitenziario e l’informazione nella Casa di Reclusione di Padova, ha sostenuto che il carcere dovrebbe essere "impermeabile" rispetto ai cambiamenti politici, perché gli "indirizzi" da seguire non cambino ad ogni Governo che si alterna alla guida del paese. Sei d’accordo con questa affermazione?

I problemi del carcere rimangono gli stessi, chiunque sia al governo del paese, però cambiano le politiche sul carcere e cambiano di conseguenza le scelte operative. Il primo passaggio operativo che ha fatto questo nuovo governo non è stato di riprendere il discorso dei 300 miliardi per il reinserimento sociale, ma di prendere 830 miliardi per costruire nuove carceri, e questo dipende di certo da un indirizzo politico, non è scritto nella Bibbia che si dovesse per forza fare così. Pure, va detto che l’accento (e lo stanziamento di risorse) su un nuovo piano di edilizia penitenziaria era stato messo già dal precedente governo di centro-sinistra.

Quindi la funzione d’indirizzo politico è necessaria, come pure necessaria è la lungimiranza politica di chi governa. Ad esempio, abbiamo un cronico problema di sovraffollamento e il governo, che sia di destra o di sinistra, se lo dovrebbe porre in termini non demagogici o occasionali.

L’esperienza (basti guardare agli USA) e gli esperti ci dicono che più carceri ci sono e più aumenta la carcerazione. Il problema è quello delle alleanze necessarie, che vanno maggiormente strutturate per poter in qualche modo condizionare la politica a prendere atto della situazione del carcere e a dare risposte concrete, di fronte a condizioni di vita segnate da un disagio sempre crescente.

Il sovraffollamento, l’assistenza sanitaria, il lavoro e la formazione sono problemi oggettivi del carcere e, per affrontarli adeguatamente, è necessaria una maggiore consapevolezza da parte di tutti e maggiori alleanze tra le figure presenti all’interno degli istituti, ma anche alleanze con i soggetti del territorio.

Penso agli Enti locali, che hanno competenze istituzionali, spesso disattese, sul carcere e sul post-carcere: possono diventare nostri alleati nel condizionare la politica e nel sensibilizzare anche la società. È vero, del carcere non frega niente a nessuno, ma è anche vero che, se riusciamo a mettere assieme gli operatori, le associazioni, gli Enti locali, potremmo avere un potere contrattuale più forte, potremmo avere una maggiore voce in capitolo nelle sedi politiche.

Tu parli di realizzare delle alleanze molto ampie ma la nostra esperienza ci dice che, spesso, esistono conflitti molto forti perfino tra le categorie degli operatori presenti nel carcere. Ad esempio, le assunzioni degli educatori sono bloccate da anni, forse anche a causa dei contrasti con i sindacati della Polizia Penitenziaria. Se ognuno continua a portare l’acqua al proprio mulino, come facciamo ad avere un qualche peso politico?

Su queste cose, credo bisogni essere un po’ più onesti con noi stessi. Occorre dire che non è vero che ci sono pochi agenti, perché il rapporto tra il numero dei detenuti e il numero degli agenti di Polizia Penitenziaria è il più alto d’Europa. Semmai il problema (e lo sanno benissimo al D.A.P.) è nella distribuzione sul territorio nazionale delle forze di Polizia Penitenziaria. Il carcere di Bollate non è stato aperto per due anni perché mancavano gli agenti che ci andassero a lavorare, mentre in alcuni istituti e in alcune regioni ci sono agenti in esubero che non accettano il trasferimento dove ci sarebbe bisogno di loro.

Va bene, questo è un legittimo diritto sindacale e non possiamo discuterlo, ma rimane il fatto che, in termini numerici e assoluti, non è vero che ci siano pochi agenti, sono soltanto male impiegati. Inoltre c’è spesso una mala organizzazione dei singoli istituti, perché chiunque viene in un carcere sa benissimo che ci sono agenti che si fanno un mazzo così e molti altri che sono imboscati.

È purtroppo pacifico e innegabile che la categoria degli educatori sia un po’ la Cenerentola, dal punto di vista della contrattualità, delle risorse economiche e del quadro organico. Questo è un altro dei problemi oggettivi del carcere, che non si vuole affrontare e che si finge di non vedere, anche perché la sua ricaduta negativa è a carico esclusivo dei detenuti, oltre che, naturalmente, degli educatori stessi e della dignità del loro ruolo e lavoro.

Ancora una volta, la questione sta tutta nella capacità di avere una maggiore forza contrattuale, quindi gli educatori, tutti gli operatori dell’area psico-pedagogica, devono porsi l’obiettivo di collegarsi di più, di organizzarsi di più, per farsi sentire e contare nelle sedi dove vengono prese le decisioni che riguardano l’organizzazione dell’attività negli istituti.

La responsabilità della politica dovrebbe concretizzarsi anche in interventi oculati sulla gestione del personale, perché ognuno porta avanti legittimamente i propri interessi e chi è più intelligente capisce che i propri interessi vanno collegati a quelli di altri, affinché l’insieme sia più armonico e più efficace.

Il Governo, il Ministero, lo stesso Parlamento nel suo complesso, si devono assumere fino in fondo le proprie responsabilità nello sfascio del sistema penitenziario e non lasciar gestire a livello tecnico delle questioni che andrebbero affrontate a livello politico.

Sembra proprio che i detenuti siano i soli ad essere privi di una qualche rappresentanza e tutela. Ad esempio è successo di recente che, a causa del sovraffollamento, 30 donne sono state trasferite da Rebibbia in istituti di altre regioni: avevano con sé dei bambini piccoli e nel Lazio non si trovava un altro carcere dotato del nido. In questi casi non c’è alcun sindacato a far presenti le esigenze delle persone che vengono "spedite" a centinaia di chilometri dalle rispettive famiglie…

Da troppo tempo ci si è dimenticati di un altro pezzo della Riforma Penitenziaria, quello che aveva introdotto la territorialità della pena. Il sovraffollamento impedisce che questo principio sia tradotto in pratica e le conseguenze peggiori ricadono sugli immigrati detenuti, che sono i poveri tra i poveri, e finiscono tutti sulle isole. È vero che, magari, hanno meno problemi di radicamento in un territorio, che non hanno una famiglia, ma è anche vero che nei loro confronti continua ad esserci una logica di "deportazione".

In Lombardia, ad esempio, funziona così da sempre: periodicamente il carcere di San Vittore sfolla, centinaia di detenuti vengono caricati sui vagoni ferroviari e spediti via. Ma le carceri sono un sistema di vasi comunicanti, un sistema destinato a scoppiare perché c’è un limite fisico alla compenetrabilità dei corpi e, fino a quando non si vorrà affrontare per via politica il problema del sovraffollamento, rimarranno sempre 15.000 persone di troppo stipate nelle celle.

Serve una misura deflativa e, invece di assumersi questa responsabilità improrogabile, si continua a fare il gioco delle tre carte: c’è sovraffollamento a Rebibbia, ti mando a Civitavecchia; a Civitavecchia ci ritroviamo in troppi, ti fanno partire per Perugia. Così ci sono migliaia di detenuti sempre in viaggio, da un carcere all’altro (tra l’altro con costi notevoli per l’Amministrazione Penitenziaria), e i continui trasferimenti significano disagi per le famiglie, ma anche interrompere i corsi scolastici, il lavoro, e ricominciare da capo ogni volta.

Un tema del quale non si sta più parlando è quello dell’affettività per i detenuti. Sembrava che con il nuovo Regolamento arrivassero delle novità, poi l’argomento è sparito dalle discussioni politiche e dai giornali…

Questo è un argomento che bisognerebbe avere il coraggio di rimettere sul piatto della sollecitazione politica. Una delle poche cose che sono state prodotte in questi anni è stato il nuovo Regolamento, però anche da lì l’affettività è stata esclusa. Non essendo entrata nel nuovo Regolamento, potrebbe entrare per altre strade, ad esempio con una modifica della legge penitenziaria che introduca la previsione di permessi "extra" per curare le relazioni affettive.

Tu hai una rubrica fissa su "Fuoriluogo", il mensile del "Forum droghe", supplemento del quotidinao "il manifesto" e, sul fronte delle tossicodipendenze, sembra che ci siano cambiamenti in vista. Cosa si sta muovendo e in che direzione?

Sul tema delle droghe, tutto quello che si sta muovendo va in direzione negativa. Va detto senza animosità ma con molta preoccupazione: metà Governo, compreso il vice premier, sono stati a San Patrignano a promettere una linea ancor più dura sulle droghe, e tutto questo si tradurrà nei prossimi mesi in un ancor maggior numero di detenuti tossicodipendenti.

Questo va detto e ribadito: al Ministero hanno la responsabilità di prevederlo e di saperlo. Perché, se oggi ci sono 15.000 detenuti di troppo, "grazie" all’ennesimo giro di vite sulle droghe ne avremo presto 18.000 in eccesso rispetto ai posti cella…

Da qualche tempo si sente molto parlare della privatizzazione dei servizi che si occupano del recupero e del reinserimento dei tossicodipendenti, ma anche della privatizzazione di alcune parti del sistema penitenziario. Cosa pensi al riguardo?

Sono contrarissimo e per più motivi. L’America va assunta un po’ come esempio negativo e verificabile di queste dinamiche, perché lì, anche con la logica della privatizzazione, oltre che con la "war on drug", hanno triplicato o quadruplicato il numero dei detenuti e questo è accaduto in pochi anni. Ora ci sono pressappoco 2 milioni di detenuti a tutti gli effetti e altri 4 milioni in area penale esterna! Cifre che dovrebbero impressionare, se non fosse, appunto, che il carcere è diventato business e allora torna comodo a troppi incrementare il numero dei reclusi.

Ma, se non altro, in America la privatizzazione è una faccenda un po’ più seria. In Italia, con il primo esempio di privatizzazione che sta avvenendo, quello dell’ex Casa di Lavoro di Castelfranco Emilia, già si vedono le cose "fatte all’italiana".

Per ristrutturare questo Istituto lo Stato ha speso 15 miliardi ed ora "sembra" che verrà affidato come gestione a San Patrignano: per questo parlo di "cose all’italiana", cioè i costi allo Stato e i profitti ai privati. Questa notizia andrebbe approfondita e verificata nei particolari ma, poiché la denuncia è stata fatta dall’ex Sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone, presumo e temo che essa sia del tutto fondata. Ma sono contrario alla privatizzazione di questi servizi, anche perché svolgono una tipica funzione che non può essere delegata ai privati, quella del controllo e del trattamento. Sarebbe un passo e un precedente pericolosissimo.

 

 

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