Interviste di "Ristretti"

 

San Vincenzo De Paoli, da due secoli al fianco dei più deboli

L’associazione fondata a Parigi nel 1833, che oggi conta quasi seicentomila membri in tutto il mondo, rilancia il suo impegno a favore dei detenuti. Con la convinzione che solo il lavoro può riaprire loro le porte del mondo libero e, allo stesso tempo, produrre più sicurezza sociale

 

(Realizzata nel mese di giugno 2004)

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Ha quasi due secoli di vita, seicentomila membri sparsi per il globo di cui quasi ventimila in Italia. Da sempre, la Società San Vincenzo De Paoli cammina al fianco dei poveri e degli emarginati. E ora vuole rilanciare il suo impegno a favore dei detenuti, soprattutto aiutando chi vive recluso a trovare lavoro. Con la convinzione che questo rappresenti l’unico modo sia per preparare chi sta in carcere a tornare tra i liberi, sia per garantire ai liberi più sicurezza: è un fatto che chi lavora delinque meno e corre meno rischi di alimentare la recidiva. Claudio Messina, membro del Consiglio di presidenza della San Vincenzo e responsabile nazionale dei volontari dietro le sbarre, ci spiega quali risorse e iniziative la sua associazione mette in campo per i detenuti e lancia un invito, alle altre associazioni e agli enti locali: lavoriamo insieme!

 

La Società San Vincenzo De Paoli ha una storia antica. Con quali scopi è nata?

La Società è stata fondata a Parigi nel 1833 dal beato Federico Ozanam e da altri studenti della Sorbona, e intitolata al santo dei poveri vissuto nel Seicento. È un’organizzazione di laici cattolici il cui obiettivo è la promozione umana attraverso il rapporto personale attuato con la visita a domicilio. Aiutiamo le persone che si trovano in condizione di sofferenza morale e materiale; condividiamo le loro pene con rispetto e amicizia; operiamo per rimuovere povertà ed emarginazione attraverso l’impegno per una maggiore giustizia sociale.

 

Com’è la struttura di un’associazione così ramificata?

La Società ha carattere internazionale e opera nel mondo con oltre quarantasettemila conferenze che comprendono circa cinquecentonovantamila membri. Il Consiglio generale ha sede a Parigi e riunisce i Consigli nazionali sparsi in ogni continente. A Roma ha sede il Consiglio nazionale italiano, composto da 17 Consigli regionali e rappresentanti dei diversi settori. In Italia operano circa 19 mila vincenziani riuniti in 1.696 conferenze, che svolgono il proprio servizio in ambito cittadino, parrocchiale, presso gruppi giovanili e aziende. La Società svolge anche attività socio-assistenziali tramite le "Opere speciali" e aiuta anziani, ammalati, carcerati ed ex carcerati, famiglie, ragazze madri, persone senza dimora, stranieri e chiunque è o si sente emarginato. Il settore "Gemellaggi e solidarietà" sostiene nel mondo una rete di piccole ma importanti iniziative umanitarie volte all’emancipazione di popolazioni colpite dalla miseria e da ogni forma di degrado morale, materiale e culturale.

 

Parliamo del vostro impegno fra i detenuti?

L’attività di sostegno ai carcerati è portata avanti da gruppi o singoli confratelli, che spesso aderiscono a coordinamenti presenti nelle varie regioni e nei diversi istituti. Pur essendo in numero ancora insufficiente, i nostri assistenti volontari penitenziari contano sulla vasta rete di solidarietà offerta dall’organizzazione, che si fa carico dell’accompagnamento, dell’accoglienza, dell’ospitalità e del sostegno offerti sia ai detenuti in permesso o in misura alternativa, sia alle loro famiglie.

 

Quali motivazioni vi hanno spinto a "investire" proprio nel settore del carcere e come operate, dentro gli istituti di pena, per migliorare le condizioni di vita?

Alcuni anni fa abbiamo sentito l’esigenza di rilanciare l’impegno della San Vincenzo nel settore delle carceri, poiché in realtà era uno dei meno seguiti, salvo casi particolari in cui poteva addirittura vantare una presenza pluridecennale in istituti del nord e del centro Italia. Da sempre tuttavia la San Vincenzo ha incluso tra le sue opere di carità l’assistenza ai carcerati e alle loro famiglie, in tempi in cui questo settore non aveva ancora visto lo sviluppo dell’azione variegata del volontariato laico e cristiano. La via la tracciò proprio San Vincenzo De Paoli, che nel XVII secolo fu cappellano generale delle carceri di Francia. I nostri volontari che entrano in carcere sviluppano le consuete attività ricreative e culturali, ma anche formative e lavorative, per esempio promovendo cooperative sociali. Non solo: collaborano a programmi trattamentali individuali, apportando il loro contributo con un contatto di prossimità con il detenuto, che definire "sostegno morale" è sicuramente riduttivo. Il rapporto di fiducia reciproca e di amicizia che può svilupparsi tra la persona detenuta e l’assistente volontario non conosce i limiti imposti dal ruolo professionale, pur con le dovute cautele che in ambiente carcerario devono essere sempre rispettate. Spesso il volontario segnala alla direzione disfunzioni, carenze e situazioni non tollerabili, proponendo soluzioni e invocando il rispetto dei diritti umani. Certamente la complessità delle problematiche carcerarie richiede che queste "battaglie di civiltà", sempre condotte con metodi pacifici e propositivi, vengano affrontate insieme ad altri gruppi e associazioni, per accrescerne la forza e l’autorevolezza. Per questo il Consiglio nazionale italiano della San Vincenzo da anni aderisce alla Conferenza nazionale volontariato giustizia, anche attraverso le sue articolazioni locali, allo scopo di portare avanti un’azione "politica" comune.

 

E all’esterno, come cercate di favorire il reinserimento dei detenuti e degli ex detenuti?

Il sostegno che la San Vincenzo può offrire all’esterno, oltre all’accompagnamento e all’accoglienza, è l’aiuto nella ricerca di un alloggio, negli inserimenti lavorativi, favorendo il riavvicinamento alle famiglie ove possibile o la ricostruzione di un mondo relazionale.

Lo scorso anno la San Vincenzo ha lanciato un’ampia campagna di sensibilizzazione sul mondo del carcere, i giornali ne parlarono molto… Il nostro scopo era abbassare quelle barriere di pregiudizio che si riscontrano ovunque, talvolta anche al nostro interno, e che sorgono da un diffuso disinteresse per il problema. Peggio: da un giustizialismo alimentato dalla paura e da un’informazione spesso distorta, se non strumentale. È difficile far passare il concetto che una maggior sicurezza presuppone una maggiore giustizia sociale, una maggiore attenzione alle fasce deboli, che più di altri corrono il rischio di devianza. Come è difficile far accettare che la società intera deve farsi carico anche del futuro di chi ha attuato comportamenti antisociali, talvolta gravi o gravissimi, e che non è sufficiente né giusto che se ne occupi la sola istituzione penitenziaria, con tutti i limiti che conosciamo bene. Alla nostra campagna fu abbinato il progetto "Ero carcerato…", basato sulla formazione professionale e sul lavoro, requisiti essenziali per riconquistare un ruolo positivo nella società. Tale progetto intende concentrare intorno al problema tutte le risorse esistenti nelle realtà territoriali italiane, da quelle economiche a quelle umane: associazioni, enti pubblici, stanziamenti che spesso restano solo sulla carta…

 

Un progetto ambizioso. In che modo pensate di realizzarlo?

C’è un grosso lavoro a monte da fare, mentre si avviano iniziative concrete, e riguarda l’aspetto culturale: la non facile azione spesso dichiarata, raramente accettata e attuata, di restituire in qualche modo l’istituzione penitenziaria al territorio, favorendo l’integrazione di un’"istituzione totale", presente ma completamente avulsa dal contesto sociale, affinché si smetta di percepirla come luogo di reietti e intoccabili. Il carcere deve riappropriarsi del suo autentico ruolo, che è quello di fornire reali opportunità rieducative e di riscatto sociale. Ovviamente la questione è complessa e richiede notevoli impegni, anche in ordine di tempo, per cui si è ritenuto di dare continuità all’iniziativa, cominciando col dedicare al tema del carcere la nostra quarta Giornata nazionale.

 

Il lavoro è importantissimo sia durante la detenzione, sia quando la pena è terminata. Secondo la vostra esperienza, cosa "offrono" attualmente le carceri in questa direzione, ma soprattutto quali concrete possibilità lavorative si aprono per chi torna libero?

Non c’è dubbio che il lavoro sia il miglior antidoto contro la devianza, prima, contro l’abbrutimento durante la carcerazione e contro i rischi di recidiva dopo. Sappiamo che gli istituti di pena hanno grosse difficoltà a garantire un’occupazione a tutti i detenuti: solo una minoranza trova un impiego continuativo con mansioni interne, gestite dall’Amministrazione penitenziaria, o in rare attività intraprese in carcere da privati, grazie anche agli incentivi offerti dalla legge "Smuraglia" che tuttavia non ha sortito gli effetti sperati. La maggior parte dei detenuti resta però inattiva e può solo sperare di lavorare, a rotazione, nei servizi domestici. Ci sono poi le cooperative sociali, che si stanno sviluppando un po’ ovunque, ma soprattutto al nord e al centro, dove i più fortunati riescono a inserirsi, sia usufruendo delle misure alternative alla detenzione, sia al termine della pena. Si tratta quasi sempre di cooperative di servizi impegnate in lavori di giardinaggio, facchinaggio e simili, anche se non mancano realtà proiettate in settori più qualificati, dall’artigianato all’informatica. Dobbiamo tuttavia considerare che le cooperative sociali sono spesso pensate solo per dare aiuto a una categoria debole di persone, rischiando così di essere un po’ ghettizzate se non di abituarsi a una logica assistenzialistica. Le cooperative vanno benissimo nel gestire una fase difficile della vita del recluso o di chi è appena uscito, ma devono poter offrire le abilità e gli stimoli per crescere professionalmente e per integrarsi nel vasto mondo del lavoro e dell’impresa.

 

Cosa potrebbero fare gli enti locali, i privati e le istituzioni, per favorire concretamente il reinserimento nella società dei detenuti ed ex detenuti, affrontando per esempio le problematiche dell’alloggio e dell’integrazione nel territorio, soprattutto per chi non ha una famiglia alle spalle?

Innanzitutto dovrebbero crederci! Si fa un gran parlare delle problematiche del reinserimento. Tante dichiarazioni d’intenti, tanti protocolli d’intesa, ma poi… Non vi è dubbio che esistano difficoltà obiettive alla realizzazione dei progetti, quando si devono fare i conti con troppe variabili, non ultima la posizione giuridica delle persone e le esigenze prioritarie della sicurezza. Tuttavia bisognerebbe concentrare le risorse, coordinando progetti e interventi, per evitare che associazionismo ed enti locali procedano separati a colpi di piccoli interventi spesso fini a se stessi. È certamente necessario attivarsi anche per trovare soluzioni abitative e favorire l’integrazione nel territorio. L’intesa e la collaborazione tra l’ente pubblico e il volontariato, anche in questo caso, rappresentano la soluzione vincente, potendo contare sulle risorse complementari e insostituibili che ciascuna delle parti può mettere a disposizione.

 

 

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