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Misure alternative quanto sono efficaci?
L’"altro carcere", in Italia, sovrasta nei numeri il "vecchio carcere". Eppure non esistono ricerche sui risultati che i benefici producono in termini di sicurezza sociale
(Realizzata nel mese di aprile 2004)
Intervista a cura di Marino Occhipinti
Le misure alternative alla detenzione servono davvero a reinserire i detenuti nel tessuto sociale, oppure sono soltanto una scorciatoia per arginare il sovraffollamento delle nostre carceri? Lo abbiamo chiesto al professor Massimo Pavarini, docente di Diritto penitenziario all’Università di Bologna.
Professore, può farci una panoramica delle misure alternative alla detenzione in Italia, in termini numerici? Tra misure alternative dallo stato detentivo e misure alternative dallo stato di libertà, e limitandoci ai soli affidamenti in prova, alle detenzioni domiciliari e alla semilibertà, dovremmo avvicinarci alle 25mila unità. Teniamo poi conto che per effetto perverso della legge Simeone - Saraceni, oggi le esecuzioni sospese superano il numero di 80mila. E se vogliamo aggiungere le sospensioni condizionali della pena, arriviamo a contare circa 180mila pene sospese. Insomma: l’"altro carcere" ha ormai dimensioni più ampie del "vecchio carcere".
Qual è l’efficacia e la funzione sociale di queste misure? L’interrogativo sull’efficacia dell’"altro carcere" rispetto alla funzione rieducativa non trova una risposta pronta ed esauriente. Posso solo dire: purtroppo non lo so. Per rispondere scientificamente a questa domanda dovrei avvalermi di ricerche a livello nazionale in cui siano messi a confronto i tassi di recidività di coloro che godono di benefici penitenziari rispetto a chi non ne gode, a parità di ogni altra variabile statisticamente significativa. E in Italia ricerche di questo tipo – in effetti difficili e costose – semplicemente non esistono. In altri paesi invece, come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, studi del genere sono stati fatti. Certo, non tutti convincenti e del medesimo livello, ma esistono. Posso però dire che le ricerche migliori pervengono a conclusioni che inducono al pessimismo: non esistono prove scientifiche che il fatto di aver goduto di una qualche misura alternativa riduca il rischio di recidività rispetto a un campione di detenuti comparabile che non ne abbia invece fruito.
Le persone ammesse alle misure alternative alla detenzione sono sufficientemente supportate dai Servizi sociali e dagli altri organi preposti al buon funzionamento delle misure applicate? Qui la risposta è scontata e secca: no, assolutamente no.
Secondo lei, quali rimedi giuridici, culturali e sociali potrebbero essere adottati per migliorare la situazione? In astratto potrei indicare mille soluzioni. In concreto invece – cioè politicamente – non ci sono rimedi, per la semplice ragione che il sistema politico non è interessato, se non appunto a parole, a perseguire lo scopo del recupero sociale dei detenuti. Piaccia o non piaccia, questa è la verità. Oggi, in Italia, i percorsi di alternatività operano solo al fine di ridurre il sovraffollamento carcerario. Tutt’altra questione, invece, è domandarsi se lo scopo dell’inclusione sociale dei detenuti e dei condannati attraverso le pratiche trattamentali – laddove questo scopo sia realmente perseguito – sarebbe oggi in grado di raggiungere obiettivi di efficienza. Io, personalmente, ne dubito. Ma so che altri la pensano diversamente. Ritengo che oggi il governo delle eccedenze, all’interno delle necessità strutturali imposte dalla globalizzazione, non consenta di implementare politiche di inclusione sociale, ma solo di produrre ulteriore esclusione. Questo, se vogliamo essere realisti. Se poi vogliamo sognare… Certo, un domani le cose potrebbero anche cambiare. Ma nei tempi brevi ne dubito. Dei tempi lunghi, come diceva un famoso economista inglese, non sono particolarmente interessato, perché saremo già tutti passati nel mondo dei più.
Ci sono parti del nuovo regolamento dell’Ordinamento Penitenziario, modificato nel 2000, che dovrebbero essere ulteriormente riviste? E poi, pensa che nelle cosiddette attività trattamentali ci sia qualcosa che andrebbe modificato? Certo, riforme cosmetiche o di sola ortopedia tecnico-giuridica si possono sempre avanzare. Io stesso non mi sono mai sottratto a questo esercizio per mettere a posto la coscienza cattiva di chi, sulla pelle dei carcerati, ha finito per garantirsi una qualità di vita non proprio disprezzabile. Lo diceva anche Marx, che nella ricchezza prodotta dalla criminalità bisognava includere gli stipendi dei professori universitari di diritto penale e i diritti d’autore dei manuali di diritto penitenziario. Ma appunto: riforme cosmetiche e nulla di più. E di buone intenzioni è lastricata la strada, come quella che porta all’Inferno.
Legge Simeone - Saraceni, numero 165/1998 Varata nel 1998, al termine di un lungo iter parlamentare, consente ai condannati che si trovano a "piede libero" (e hanno una pena inferiore ai tre anni) di poter essere ammessi all’affidamento in prova ai Servizi sociali senza dover entrare in carcere, sempre se sono in possesso di determinati requisiti: una casa, un lavoro, etc. Per i condannati tossicodipendenti il limite di pena per poter essere ammessi, come del resto succede per l’affidamento "normale", è di quattro anni.
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