Interviste di "Ristretti"

 

Oggi sembra quasi che il carcere ti rimanga addosso,

ti contamini e ti stigmatizzi per sempre

(Realizzata nel mese di febbraio 2004)

 

di Emanuela Zuccalà

 

Un’intervista a Luigi Pagano, direttore di San Vittore, che ci racconta il "suo" carcere, come lo vede lui e come lo ha raccontato invece Candido Cannavò, ex direttore della Gazzetta dello Sport, nel suo ultimo libro "Libertà dietro le sbarre"

 

Mezza parete del suo ufficio è invasa da un quadro bizzarro: una planimetria colorata e particolareggiata dei raggi di San Vittore, realizzata da un detenuto nel 1950. Una piccola eredità che Luigi Pagano, direttore del carcere milanese di piazza Filangieri dal 1989, ha conservato come simbolo del suo legame con un edificio che definisce "un paradosso vivente". Costruito dopo l’unità d’Italia per contenere ottocento detenuti, oggi ne ospita 1400, e ai tempi di Tangentopoli aveva toccato il picco di 2500 presenze. Ma nonostante il sovraffollamento cronico e le tante ristrutturazioni da apportare, è un carcere che vive e crea opportunità di reinserimento: a San Vittore c’è una sartoria che confeziona abiti per teatri lirici e programmi televisivi, una cooperativa che produce oggetti in pelle ecologica, e da qualche mese anche un call-center della Telecom che dà lavoro a una trentina di detenuti.

Pagano non rifiuta mai un’intervista. Per otto mesi ha accettato di fare da guida a Candido Cannavò, ex direttore storico della Gazzetta dello Sport, che all’universo umano rinchiuso nel centro di Milano ha dedicato il suo ultimo libro: Libertà dietro le sbarre (Rizzoli). È proprio Pagano ad aprire il lungo reportage raccontando un suo ricordo di gioventù: la sanguinosa rivolta nel carcere nuorese di Badu e Carros, il 17 agosto del 1981, quando lui aveva 27 anni ed era "orgoglioso di essere il vicedirettore Luigi Pagano". "La mia è stata una scelta culturale e professionale", spiega. "Occuparmi delle carceri, un mondo dove convivono dolore, prostrazione, fede, abbandono, odio, pentimento, talvolta brutalità, ma dove c’è pure un senso infinito di umanità e dove una vita può anche rinascere". Gli abbiamo chiesto di raccontare il "suo" carcere, filtrato dal libro di Cannavò.

 

Cosa ha pensato quando il "simbolo dolce e appassionato del nostro giornalismo non solo sportivo" (così scrive nella prefazione Ferruccio De Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera), le ha comunicato la sua volontà di far conoscere all’esterno gli uomini e le donne di San Vittore?

Mi è subito sembrata una buona idea. Non poteva che farmi piacere che a parlare del carcere, tutto sommato anche in maniera leggera, fosse uno come Candido. Abbiamo subito attivato il Dipartimento per l’autorizzazione, e lo stesso Ministero ha ritenuto che l’iniziativa fosse meritoria. Conosciamo Candido come giornalista, oltre che come cantore di vita: eravamo d’accordo sulle scelte di fondo e su come avrebbe raccontato San Vittore.

 

Cannavò scrive che è stato lei a dischiudergli la "ricchezza nascosta" del più antico penitenziario milanese. E in effetti Luigi Pagano, con il suo "eloquio musical-napoletano", è sempre dietro le quinte del racconto. Ha collaborato anche alla stesura del libro?

Prima della stampa, eravamo qui alla scrivania, io e Candido, cercando di "sciacquare i miei linguaggi in Arno" per eliminare alcune mie inflessioni dialettali. Lui è convinto che io mi esprima in stretto napoletano, laddove invece credo di essere un cultore della lingua. È nata una diatriba, così l’ho messo a correggere alcune frasi. Del libro ho comunque letto l’ultima stesura prima di darlo alle stampe.

 

E il risultato come le è sembrato?

In linea con le aspettative. Ha avuto la capacità di penetrare in un luogo dolente con una leggerezza che non significa superficialità: significa raccontare storie di uomini e donne, sottolineando che il fatto di sentirsi comunque persone e di salvaguardare la propria dignità, è il primo passo per riaffacciarsi al mondo esterno. Io sono convinto che il carcere vada dissacrato in qualche modo: bisogna tendere a eliminarlo per cercare strade diverse e costruttive, piuttosto che l’interdizione fisica. Però è pur vero che fin quando esiste, bisogna dissacrarlo in alcune sue componenti: il carcere non è la tomba dei vivi, è una costruzione umana, quindi non deve prolungare la colpa oltre il termine della pena. Oggi sembra quasi che il carcere ti rimanga addosso, ti contamini e ti stigmatizzi per sempre, coinvolgendo la tua intera esistenza. E invece uno sarà anche un ladro o un assassino, ma è un uomo che ama, vive, soffre, lavora per i propri figli… Non si può appiattire un uomo al suo essere ladro o assassino: la componente umana è più complessa e variegata.

 

Ma l’istituzione-carcere non finisce proprio per distruggerla, questa complessità?

A livello individuale perdi per forza qualcosa, con tutti questi problemi di sovraffollamento… Ma devi comunque cercare di creare un clima in cui l’idea principale sia il rispetto della dignità delle persone, affinché la pena non diventi indecente. Devi avere bene in mente che cosa vuoi: se riesci a trovare questo clima di fondo in cui muoverti, le risorse le indirizzi anche su certi aspetti individuali, cercando di creare strade percorribili per il reinserimento sociale. È anche vero che il carcere, sia per l’esiguità di risorse sia perché alla fine della pena non appartiene più alle persone, non possiede tutte le variabili che concorrono al reinserimento. Quel poco che si fa qui diventerà ancora meno quando si esce e si affronta una vita più complessa e meno protetta. Noi, qui, possiamo iniziare a dire: quella è una strada che quell’uomo potrebbe percorrere, ma poi sarà qualcun altro a doverla lastricare di possibilità concrete piuttosto che di buone intenzioni.

 

Il libro di Cannavò è dedicato per tre quarti alle donne di San Vittore, e lui ha dichiarato che è stata proprio la vicenda particolare di una detenuta, la guineana Melodia, a spingerlo a trascorrere otto mesi in carcere per raccogliere testimonianze. Cosa distingue l’universo femminile da quello maschile dietro le sbarre?

Una leggenda del carcere dice: meglio tremila uomini che dieci donne, perché sono ingovernabili. Si dice che in cella l’uomo si adatta meglio, che le donne sono più afflitte… E invece è il contrario: la donna porta in carcere la propria diversità, non si adatta né si rassegna. Credo che a proteggerla sia proprio il suo essere donna e madre: si cura di più della propria persona, e si dimostra meno accomodante rispetto all’istituzione. Sembra paradossale detto da un direttore di carcere, ma sono convinto che più ti adatti alla realtà della detenzione, alle sue leggi negative, maggiori difficoltà troverai all’esterno. La donna invece riesce a non contaminarsi, a difendersi attraverso le emozioni e i sentimenti. Continua a vivere in un suo mondo particolare.

 

Un tempo la malavita aveva un suo codice, che teneva distanti le donne dalle attività criminali. Oggi lo scenario è cambiato?

Non molto: la donna incontra il mondo delinquenziale quasi sempre per la tangente, mai direttamente. Lo dicono anche i numeri: nelle carceri italiane le donne sono meno del dieci per cento degli uomini, una percentuale vicina a quella europea. Qui a San Vittore abbiamo 1400 uomini e 135 donne: in genere queste ultime sono qua per reati legati alla droga. La metà sono straniere. Alla fine il carcere è stato restituito ai soliti ignoti, a persone già ai margini della società, che si ritrovano recluse non solo perché l’emarginazione esterna è una concausa del crimine, ma anche perché non godono di quelle condizioni che potrebbero permettere loro di difendersi meglio e ottenere misure alternative. Soffrono di un doppio handicap: l’emarginazione è causa del reato ma anche del rimanere in carcere, pur in presenza di un basso livello di pericolosità sociale.

 

Parliamo delle madri in carcere. Sono passati quasi tre anni dall’approvazione della legge Finocchiaro, che prevede gli arresti domiciliari per le detenute con figli minori di dieci anni. Eppure la norma è rimasta praticamente inapplicata. Perché, secondo lei?

Perché risente del paradosso italiano: più aumentano le leggi che prevedono l’uscita dal carcere con misure alternative, più cresce la popolazione detenuta. La legge dell’8 marzo 2001 ha ampliato la gamma delle misure alternative a disposizione delle detenute madri, eppure in carcere queste continuano ad aumentare: adesso nel nostro nido ci sono nove donne con altrettanti bambini. Il problema è che, per accedere alle misure alternative, ci vogliono condizioni sociali che troppo spesso non si danno. Un esempio banale: per ottenere gli arresti domiciliari devi avere un domicilio, puoi essere stato condannato a un mese ma se non hai casa finisci in carcere. Il rischio è che tu rimanga in carcere non perché sei più pericoloso degli altri, ma perché ti mancano certe condizioni. Fra le donne detenute a San Vittore ci sono tante nomadi, che non hanno un domicilio e rischiano la reiterazione del reato: dunque per loro la legge dell’8 marzo 2001 è inapplicabile.

 

A Milano, tempo fa, si era parlato di una casa a custodia attenuata per le detenute madri. Che fine ha fatto il progetto?

Lo avevamo studiato proprio per lo sviluppo equilibrato del bambino, e con l’allora assessore Del Debbio si pensava a questa struttura: non una casa d’accoglienza, ma una sorta di carcere per donne con bambini, sia imputate che condannate, dove ci si focalizzasse sull’attività trattamentale per i piccoli. Poi è arrivato un nuovo assessore, il quale ha ritenuto che tutto questo non rientrasse negli obiettivi del Comune. Eravamo già prossimi a gestire la struttura, un vecchio asilo inutilizzato, e la nostra amministrazione si sarebbe accollata le spese di gestione… Il brutto è che il bambino che vive nella dinamica carceraria comincia a identificarsi coi cancelli, con le guardie, con gli orari. Alla fine si adatta e diventa un piccolo detenuto: bussa, aspetta, non fa chiasso e non gioca perché teme di disturbare. Deve rinunciare a essere bambino: non è uno sviluppo armonico, non c’è niente da fare. E anche se qua abbiamo tante associazioni che si occupano dei piccoli del nido (Telefono Azzurro, Rotary, Bambini senza sbarre…), sempre carcere resta.

 

Compaiono due storie d’amore molto intense, nel libro di Cannavò, fiorite dietro le sbarre. Cosa ne pensa dei matrimoni in carcere?

Che sono una cosa triste, ma possono dare una spinta di rivalsa. È un modo per dire all’altro "ti amo", "ti aspetto", e per coltivare la speranza che ti mantiene vivo anche se hai l’ergastolo. Quel piccolo centimetro in più che guadagni verso il reinserimento sociale.

 

Ci sono persone che in carcere scoprono potenzialità e risorse che prima non pensavano di avere. Che imparano ad amare l’arte, la cultura, il lavoro e il volontariato. Allora il carcere può anche far bene?

Sì, ma come qualsiasi altra comunità dinamica. Come un momento in cui una persona si ferma e viene affiancata da qualcun altro. Non voglio giustificare il carcere: può far bene come mille altri momenti, anche se la detenzione attutisce ogni cosa positiva perché fa prevalere sempre la disciplina e l’aspetto punitivo, anche quello simbolico. E così attenua il processo di rigenerazione. In certi casi il carcere serve, in altri no, ma scegliere sempre e comunque il carcere come momento punitivo è una generalizzazione sbagliata. Bisognerebbe diversificare la pena.

 

A San Vittore ha appena aperto un call-center della Telecom, esperimento unico in Europa. Cosa l’ha spinta a promuoverlo?

Il lavoro in carcere è importante esattamente come lo è all’esterno. Qui lavorano circa trecento detenuti, fra impieghi interni e articolo 21. Ma più che il contatto con l’esterno che può dare il lavoro, io sottolineo l’importanza di un’attività professionale. L’aspetto di professionalità in quello che stai facendo ti rigenera, ti riverbera dignità e ti fa sentire parte della società. Nel call-center i detenuti lavorano con la tecnologia, svolgono un’attività che è contestuale a quella di una grande azienda: non è come fare lo scopino. La telematica è un ramo economico importante nella società attuale: lavorare in quest’ambito dall’interno di un carcere, sullo stesso piano dei colleghi fuori, con Lo stesso software e la gestione della stessa impresa, non può che farti sentire alla pari con chi sta fuori.

 

Il carcere in genere interessa poco, se ne parla quasi sempre in contesti di cronaca nera o di iniziative un po’ stravaganti, di "colore". Crede che un libro firmato da un personaggio noto come Cannavò riuscirà ad aprire più canali di comunicazione con l’esterno?

Credo di sì. Candido ha raccontato San Vittore con gli occhi di una persona comune, è entrato qui senza preconcetti, con la curiosità dell’uomo qualunque. E ha visto che non è un mondo a parte, che ci sono persone con una testa, due braccia e due gambe. Persone che amano, soffrono, si divertono, lavorano, nutrono desideri normali… Ecco, ha raccontato la normalità, e questo è importante perché in genere noi compariamo sui giornali quando si verifica qualcosa sopra le righe, nel bene e nel male. Invece è la normalità, la quotidianità vissuta qui che forse potrà aiutare la persona quando uscirà. La gente deve capire che qua non ci sono uomini diversi, che si può entrare in carcere per un accidente qualsiasi, per un momento, o perché si sono verificate certe circostanze. Si entra in carcere anche per cattiveria, certo, ma in ogni caso si tratta di persone, e bisogna capire perché sono qui. Se vogliamo essere utili a noi stessi come società, non dobbiamo ghettizzare il carcere escludendolo dal nostro orizzonte mentale e materiale. Se una persona si sente emarginata e non c’è nessuno che le tenda una mano, uscirà di qui più pericolosa, e potrebbe aspettarci a un angolo di strada per aggredirci e derubarci. Guardi che in questo discorso la solidarietà e il buonismo non c’entrano: è un grosso favore che facciamo a noi stessi, quello di dare una possibilità a chi sta in carcere. è un progetto rivolto all’utilità sociale.

 

Lo scorso autunno era nell’aria una sua rimozione dall’incarico, in seguito all’evasione di un albanese che approfittò della carenza estiva di agenti. Però lei è ancora qui. Per quanto rimarrà in piazza Filangieri?

Non lo so, sono un funzionario dello Stato. Io mi sono molto affezionato a questo carcere, ma quindici anni sono tanti, finisce anche la spinta propulsiva, l’ingenuità e la voglia di rischiare. Il pericolo è che cominci a non accorgerti più dei tuoi stessi errori. Credo che un avvicendamento ci possa essere senza tragedie. Vede, San Vittore è un paradosso vivente: è sovraffollato ma succedono poche cose gravi. L’unico merito che mi attribuisco è di aver cercato di renderlo trasparente. Il resto lo hanno fatto gli operatori e gli assistenti volontari. Il direttore stabilisce la linea e si assume le responsabilità (anche delle evasioni, ci mancherebbe), ma poi bisogna che qualcun altro raccolga il messaggio. E credo che a Milano in molti lo abbiano raccolto.

 

 

Precedente Home Su Successiva