|
"Io credo che la scuola abbia molta responsabilità nella devianza" Il Polo universitario come una sorta di risarcimento della scuola nei confronti dei detenuti: così lo vede Ione Toccafondi, direttrice del carcere di Prato
(Realizzata nel mese di marzo 2004)
di Emanuela Zuccalà
Fa uno strano effetto sentirsi dire che un carcere riceve tantissime richieste di "ospitalità", come se fosse un posto speciale e ambito. Eppure a Prato accade. Ad attrarre molti detenuti d’Italia è il Polo universitario, l’esperienza pilota che in questa casa circondariale alla periferia nord-ovest della cittadina toscana è partita nel 2000. Ma lo studio dietro le sbarre (sui 570 detenuti di Prato, i futuri dottori sono 54, tra Media e Alta Sicurezza) non è l’unico progetto innovativo in questa struttura: qui alcuni detenuti si dedicano all’addestramento dei cani per ciechi, e presto una sezione verrà riservata al recupero di chi ha commesso reati legati alla pedofilia. Delle attività del penitenziario di Prato, così in sinergia con il territorio, parliamo con Ione Toccafondi, direttrice dal 1996.
Università e carcere sembrano due mondi distanti anni luce. Al di là di qualche prospettiva lavorativa, che cosa può dare lo studio a una persona detenuta? Io credo che la scuola abbia molta responsabilità nella devianza: tante situazioni difficili potevano essere colte nell’ambito scolastico, e invece non sono state recepite e hanno portato a comportamenti devianti. Certo, la scuola non è l’unica responsabile, ma certamente ha fatto la sua parte. Quindi ritengo giusto che avvenga una sorta di risarcimento della scuola nei confronti dei detenuti. E poi, studiando, questi acquisiscono un’abilità sociale più facilmente spendibile all’esterno, oltre a un bagaglio culturale che li mette nelle condizioni di ripensare la propria vita in termini diversi. Lo studio li pone a contatto con una realtà spesso profondamente diversa da quella che hanno vissuto fino a un certo periodo della loro esistenza, e dà loro i mezzi per fare scelte diverse. Io dico sempre che gli operatori penitenziari, come strumento di lavoro, dovrebbero avere la sfera di cristallo: non siamo in grado di fare previsioni su quello che sarà, però ai detenuti dobbiamo offrire tutte le opportunità possibili. Starà a loro decidere se coglierle o meno. E la scuola è un’opportunità importante. Qualcuno, in carcere, ha seguito tutti i livelli scolastici: abbiamo un albanese, qui, che era quasi analfabeta. Adesso è iscritto a Scienze della formazione e vuole diventare educatore di comunità.
Com’è nata l’idea del Polo universitario? Fin dall’apertura, nel 1986, questo istituto ha avuto un’impronta legata allo studio. Quando sono arrivata io, abbiamo cominciato a portare qui la scuola pubblica, istituendo le classi di istituti professionali e tecnici in alta e media sicurezza, oltre alle elementari e alle medie. E c’era la voglia di proseguire, l’esigenza di formalizzare la cosa. Negli anni tantissimi ragazzi si sono diplomati in ragioneria, e abbiamo anche avuto detenuti che studiavano privatamente all’università, con difficoltà enormi per sostenere gli esami, soprattutto per chi non beneficiava di misure alternative o permessi premio. Ogni volta bisognava mandare la comunicazione all’università, che istituiva una commissione apposita, e i professori non venivano certo volentieri qui. Finché, nel 2000, è stata sottoscritta una convenzione con l’Università di Firenze, la Regione Toscana e il ministero della Giustizia, ed è stata avviata questa esperienza.
Qual è la differenza con il Polo universitario carcerario delle Vallette, a Torino, che fu la prima esperienza del genere, già nel 1998? A Torino i detenuti possono iscriversi solo a due facoltà, Giurisprudenza e Scienze politiche. Qui invece abbiamo l’intero panorama delle facoltà dell’ateneo fiorentino: il detenuto chiede di seguire un determinato corso di laurea, e si valuta se è in grado di farlo. Abbiamo studenti di ingegneria, informatica, storia del costume e della moda, architettura, giornalismo… E poi so che lì ci sono una serie di limitazioni: chi studia non può lavorare né accedere ad altre attività.
Qui invece gli studenti non rinunciano a nulla? Noi non poniamo limiti: se sono in grado di conciliare varie cose possono anche lavorare e partecipare ad altre attività. Anche la condizione che poniamo loro, di superare un certo numero di esami l’anno, non è rigida, perché dipende dalla facoltà: un esame di Lettere non è uguale a uno di Ingegneria. C’è una commissione che si riunisce spesso, e se i detenuti presentano difficoltà oggettive allo studio, le si valuta caso per caso. L’unico requisito – chiamiamolo così – che chiediamo loro, è la capacità di convivere in una situazione diversa dal resto dell’istituto: un’apertura quasi totale – le celle chiudono alle 18.30 –, la condivisione costante degli spazi, le attività sempre in comune. Insomma, devono essere capaci di autoregolamentarsi. Abbiamo registrato un paio di episodi negativi, ma nel complesso l’esperienza è sicuramente positiva.
È vero che avevate uno spazio libero da destinare al Polo universitario, e che questo è stato determinante per far partire l’esperienza? Sì, c’era una sezione vuota nella media sicurezza e l’abbiamo adibita esclusivamente agli studenti universitari. Le celle sono singole, di modo da poter studiare in tutta tranquillità, e dotate di scrivania, libreria, computer… Si è cercato di renderle più confortevoli. Lo studente di Storia della moda ha un manichino in cella, e quello di Architettura usa il tecnigrafo. Però anche noi a Prato abbiamo il problema del sovraffollamento: non è drammatico, perché nelle altre sezioni si sta in due o tre per cella, ma c’è. In Alta Sicurezza, per esempio, non è stato possibile creare una sezione solo universitaria: abbiamo dovuto mettere insieme gli universitari con altri detenuti, però studenti pure loro anche se di gradi inferiori.
Avete avuto difficoltà a realizzare questo ateneo dietro le sbarre? Come qualsiasi novità, all’inizio ha creato dei problemi: immagini quanta gente entra qui solo per occuparsi del Polo universitario. I detenuti non sono seguiti solo dai docenti, ma anche dai tutor, dalle associazioni di volontariato penitenziario di Prato, e poi c’è un continuo via vai di libri e materiale vario. Quanto al personale di polizia, devo dire che negli anni si è abituato alle attività trattamentali, e adesso capita che siano loro stessi a stimolarmi.
Secondo lei, si tratta di un’esperienza esportabile ovunque, in altre carceri, o ci vogliono condizioni particolari? È una cosa che non si può improvvisare, va fatta per bene per garantire a chi è interessato l’opportunità di studiare seriamente. In situazioni di grave sovraffollamento sarebbe impossibile: è necessario destinare un reparto agli studenti-detenuti, o anche solo un gruppo di celle, purché non si trovino a convivere studenti e non studenti, perché in questo caso non ci sarebbero le condizioni per portare avanti un impegno serio e costante.
Avete fatto da apripista ad altri penitenziari. Da Padova sono venuti il direttore e alcuni operatori per vedere come ci siamo organizzati e come funziona la nostra esperienza. Anche da Catanzaro ci hanno contattati per avere informazioni sul progetto.
Sarete subissati di richieste da tutta Italia. Soprattutto dal Sud. Purtroppo nell’ottava sezione, in Media Sicurezza, i posti per gli studenti sono solo ventitré. Così abbiamo deciso di dare la precedenza a chi si è diplomato qui e ai detenuti della Toscana. L’anno scorso si sono diplomati in sei: era giusto che completassero qui il loro percorso di studi. A mano a mano che si libererà qualche posto, con i detenuti che accederanno alle misure alternative, ne faremo entrare altri. Avevamo proposto al provveditore di riservare al Polo universitario anche un’altra sezione, ma questo vorrebbe dire trasferire un certo numero di detenuti, è complicato.
I detenuti del Polo sono studenti dell’Università di Firenze a tutti gli effetti. Che rapporti hanno con gli altri studenti, quelli liberi? Cerchiamo sempre di coinvolgere anche loro, oltre ai docenti. L’anno accademico è stato inaugurato qui, c’erano anche il rettore e alcune associazioni studentesche. Mio figlio per esempio, che ormai è già laureato in Ingegneria, è il fondatore della sezione fiorentina di Ingegneri senza frontiere, e ha portato in carcere molti suoi amici che continuano a venire. Insieme a loro i detenuti-studenti hanno visitato gli Uffizi, in gennaio, e insieme gareggiano in un torneo di calcio. Adesso ci sarà la partita di ritorno: l’andata l’hanno clamorosamente persa gli studenti liberi. E comunque, parlando con gli amici di mio figlio, ho notato che questi ragazzi considerano i detenuti come colleghi: non fanno differenza. È solo la burocrazia del carcere, i documenti e i cellulari da lasciare all’ingresso, che all’inizio li ha un po’ intimiditi. E i detenuti, a loro volta, hanno fondato un’associazione studentesca che si chiama Studeo: hanno intitolato il torneo di calcio alla memoria di un loro compagno che è morto l’anno scorso, durante un permesso, per un ictus. Era giovane, una cosa che ha sconvolto tutti.
Avete anche contatti con le altre scuole del territorio? Lavoriamo molto con le scuole: ogni anno le scolaresche entrano in carcere, quelle degli istituti superiori da cui provengono i docenti che insegnano qui. E poi c’è una scuola elementare: tutti gli anni le quinte vengono a incontrare i detenuti, ed è così bello vedere i bambini correre per i corridoi del carcere! Allestiscono uno spettacolino, poi scrivono dei temi con le loro riflessioni e ce li mandano da leggere. Dai loro scritti emerge che i bambini immaginano il carcere come un luogo molto brutto, ma quando vengono qui e parlano con noi scoprono che siamo persone normali, che nessuno qui indossa vestiti a strisce. Ce li ho tutti conservati, i loro temi: l’incontro con i bambini è sempre un’esperienza notevole.
Quali altre attività offrite alle persone detenute? Tante. Abbiamo un’azienda agricola interna e una serie di laboratori, oltre alla ludoteca per i figli dei detenuti che vengono a colloquio, gestita da Telefono Azzurro. Due volte l’anno cerchiamo di organizzare una festa della famiglia, l’ultima è stata a marzo: in una sala grande facciamo incontrare i detenuti con mogli e figli. Stanno insieme, i bambini fanno merenda, condividono con i padri parecchie ore della giornata. E poi stiamo sperimentando un progetto particolare, di affidamento di cani della scuola per ciechi di Scandicci. I cani possono essere addestrati per guidare i ciechi solo quando hanno un anno di vita, ma in questo anno devono comunque imparare a socializzare. La scuola affida quindi un cucciolo di almeno 45 giorni a un detenuto, il quale ovviamente abbia la possibilità di uscire, o in articolo 21 o in misura alternativa, perché deve abituare il cucciolo a prendere l’autobus, il treno, a salire sulle scale mobili… È una specie di pet-therapy, ma anche una forma di riparazione, perché il detenuto si adopera in qualche modo per un’altra categoria di svantaggiati: i ciechi che riceveranno il cucciolo.
E poi c’è un progetto per chi ha commesso reati di pedofilia. È un esperimento: un progetto di recupero per pedofili, con una serie di attività e di interventi mirati alla cura di queste persone, riunite in una sezione particolare. Coinvolgeremo detenuti che sono già qui, nella sezione protetta, e che ovviamente hanno grossi problemi di convivenza con gli altri: con il ministero cercheremo di trasferire gli "altri", per destinare l’intera sezione ai pedofili. Ci sono 46 posti: chiederemo alle sezioni protette della Toscana, e poi di altre regioni, di segnalarci chi vorrà essere inserito in questo progetto. Il lavoro sarà fatto con chi si renderà disponibile, non è certo una cosa che imponiamo. È un esperimento, ripeto, nessuno di noi ha la ricetta giusta. Speriamo che funzioni.
|