Intervista a Enrico Sbriglia

 

Sovraffollamento: che fare?

Le carceri che noi abbiamo sono un’offesa a dignità delle persone

Il punto di vista del segretario nazionale del Sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari (SI.DI.PE.), Enrico Sbriglia, direttore del carcere di Trieste

 

(Realizzata nel mese di ottobre 2009)

 

intervista di Ornella Favero

 

Nel carcere di Trieste è stato istituito un “registro dei materassi per terra”, cioè un elenco dei detenuti che, a rotazione, sono costretti a dormire per terra. L’iniziativa, per stabilire una sorta di “equità” nella disperazione, è del direttore del carcere, Enrico Sbriglia, segretario nazionale del Sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari (SI.DI.PE.). Lo abbiamo intervistato perché, al di là delle appartenenze politiche (è assessore per il Centrodestra nella sua città), Enrico Sbriglia non ha timori a criticare le politiche più recenti in fatto di carcere e sicurezza, e a pensare a un approccio al sovraffollamento diverso, rispetto al “piano carceri”

 

Ornella Favero: Partiamo un po’ da questo “allarme sicurezza” che è anche una delle cause del sovraffollamento. Lei pensa che ci sia effettivamente bisogno di rendere le pene più pesanti, o ritiene invece che ci sia un cortocircuito fra politica e informazione, per cui la gente, bombardata da notizie di cronaca nera, ha più paura, si sente insicura e chiede politiche più dure, che alla fine portano poi a questi risultati?

Enrico Sbriglia: Io personalmente ritengo che esista effettivamente un allarme sicurezza, ma che esso sia in qualche modo banalizzato e potrei dire anche “personificato” da luoghi comuni. Ho la sensazione che basta essere diverso per idioma, per colore della pelle o religione, per rientrare quasi automaticamente all’interno della categoria di chi è pericoloso. Questo mi sembra un errore madornale nel modo di procedere, che addirittura potrebbe alimentare ulteriore insicurezza, perché sappiamo bene che, se tutto ciò che è diverso diventa fonte di insicurezza, tutto sembrerà maledettamente pericoloso.

L’allarme sicurezza deriva più dal gran numero di persone, per esempio, espunte dal mercato del lavoro; può derivare dall’abbandono scolastico o da una cultura dell’intolleranza; può venire da una cultura di tolleranza verso la droga, dalla mercificazione del sesso, o anche da quegli esempi di cultura che considera le donne come oggetto. E ancora potrei aggiungere, e questo è anche più grave, dalla banalizzazione di condotte che a me piace ancora definire “etiche”, che sono quasi ritenute come orpelli nostalgici e non come la normale attenzione che dovrebbe caratterizzare soprattutto coloro che sono responsabili della cosa pubblica, e per converso tutta la società, che con il voto e consenso sceglie poi i propri rappresentanti. Ecco io credo che lo scenario del clochard o del nero immigrato clandestino siano invece quelli che più determinano insicurezza, e su questo ho la sensazione che ancora non si sia sviluppato un ragionamento posato, calmo. D’altra parte ritengo che i problemi della sicurezza siano quelli che tipicamente debbano essere risolti in ambienti “freddi”, senza farsi prendere da emozioni, angoscia, panico o ansia, e tutto questo a dir il vero a volte ho l’impressione che manchi.

Tra l’altro, uno Stato che banalizzi anche il valore delle regole morali io credo che sia irrimediabilmente condannato ad esprimere insicurezza su tutti i fronti. In questo vedo una grandissima responsabilità da parte dei media, vedo che la quotidianità esprime la corsa alla notizia eclatante a tutti i costi, che il particolare banale addirittura viene esaltato all’inverosimile e si accompagna spesso ad un giudizio senza appello, un giudizio apodittico di valore sulla persona soltanto sospettata di aver commesso un crimine, se poi quella stessa persona risulterà prosciolta da ogni addebito, e questo dopo anni di calvario giudiziario, uguale enfasi non sarà certo riproposta.

Ecco mi permetto di dire che si impone una rivisitazione di un codice deontologico-giornalistico espresso però direttamente dagli associati, non mi piace pensare che i codici deontologici siano frutto di un intervento politico. Credo che la maturità di un popolo si esprima soprattutto lì dove le categorie hanno maggiore responsabilità verso la gente, e riescono in qualche modo a meglio autoregolamentarsi. Forse può essere un’utopia, forse qualcuno ritiene che sia più utile un intervento legislativo, però sono convinto che qualunque intervento legislativo di regolamentazione di quello che viene poi urlato come diritto di cronaca, sia subito visto come bavaglio dell’informazione, per cui c’è il rischio che la medicina alla fine risulti più pericolosa del male stesso. Da questo punto di vista io apprezzo il lavoro che voi di Ristretti Orizzonti fate perché comunque dimostrate capacità di attenzione, di analisi dei problemi, rispetto a quanti, operatori nel mondo dell’informazione, preferiscono scorciatoie di maggior visibilità, dichiarazioni di principio e giudizi frettolosi, piuttosto che la fatica dell’inchiesta seria.

Tornando al pacchetto sicurezza, forse io dico queste cose anche perché sarei ipocrita se nascondessi quella che è stata e continua comunque ad essere una sorta, non dico di militanza, ma di appartenenza politica alla destra, anche se mi permetto di caratterizzare la mia posizione come quella di chi, prima di tutto e soprattutto, crede nella legalità, o meglio nella legge, e sono convinto come principio fondamentale che le leggi sono fatte per le persone e non contro. Il pacchetto sicurezza che hanno recentemente approvato ha anche degli elementi di positività, assieme però ad altri che appaiono di criticità, perché sembrano dettati da un’analisi frettolosa che potrebbe appunto trasformare, anche in questo caso, la cura rendendola più pericolosa della malattia. Vede, io più che di pacchetto sicurezza, che farebbe pensare ad un corpo omogeneo di norme legate da un filo comune, credo che negli ultimi anni ci sia da parlare di sovrapposizione non sempre ordinata di norme. E non sempre un buon insieme di verdure produce un buon minestrone, ecco credo che in molti momenti siano mancate chiare scelte di fondo, forse perché non ci si è interrogati abbastanza su vari temi, e di questo credo anche ci sia una responsabilità delle forze politiche tutte, maggioranza e opposizioni: le opposizioni perché a forza di gridare “al lupo” mostrano di non essere in grado di realizzare distinzioni di situazioni, inducendo la maggioranza a replicare invece con posizioni che, piuttosto che di dialogo, si alimentano di guerra.

Ebbene l’esperienza mi dice, per esempio, partendo dal carcere, che è la realtà che conosco meglio perché ci passo moltissime ore al giorno, che sarebbe necessaria una modifica al reato di evasione, tanto per dirne una, è folle che si equipari a tutti gli effetti un’evasione dagli arresti domiciliari ad una evasione dal carcere fatta con le corde, con delle armi, con tutta una serie di atteggiamenti e di condotte oggettivamente pericolosi. Negli arresti domiciliari, una misura che normalmente viene conferita a quanti, magari tossicodipendenti, sono soggetti già profondamente deboli, tu legislatore come puoi allora equiparare l’evasione dagli arresti domiciliari, inibendo la possibilità di beneficiare successivamente di misure alternative, all’evasione fatta con la violenza, oppure con l’uso di strumenti o stratagemmi diversi?

Eppure il legislatore nella sua revisione non ha fatto questa distinzione, noi quindi ci troviamo con persone tossicodipendenti che non possono accedere alle misure alternative perché, quando erano agli arresti domiciliari, non hanno rispettato le restrizioni. Mi sembra che sia una risposta esagerata.

Ecco io credo che su questo andrebbero fatti dei ripensamenti, e anche molto, molto velocemente, perché se l’evasione dei tossicodipendenti dai domiciliari è equiparata all’evasione di un boss che scappa da un carcere con l’elicottero, mi pare che la cosa non funzioni.

 

Ornella Favero: Sul sovraffollamento comunque ci pare che pesi molto la legge cosiddetta ex Cirielli.

Enrico Sbriglia: Ecco la ex Cirielli è una norma che è fuori tempo, o meglio più che fuori tempo è decontestualizzata rispetto alla situazione, che chi conosce il mondo delle carceri vede. Allora il mio esempio può essere quasi blasfemo. Immagini per un momento le carceri come un grande supermercato, in questo supermercato abbiamo un target di clienti, clienti affezionati, è un numero cospicuo, sono sempre gli stessi, quelli che in qualche modo non riescono a trovare un paracadute fuori dalle carceri. Ebbene fino a ieri possiamo dire che era proprio su questo nostro cliente che le misure alternative sortivano i maggiori risultati e anche il maggior successo; paradossalmente mentre in altri Paesi, specialmente quelli di cultura anglosassone, la ripetitività nel reato comporta una sorta di marchio indelebile per sempre, da noi proprio queste persone, già segnate da recidiva, erano i soggetti preferiti per le misure alternative alla pena, e le portavano bene fino alla fine.

Qualcuno può dire: “Ma come mai? È un’assurdità, è il contrario della probation, della messa alla prova, cioè tu dai misure alternative alla pena a persone che hanno ricommesso reati?”. È vero, accadeva proprio questo, ma era tutto facilmente spiegabile, perché paradossalmente queste persone, che sono spesso in entrata ed uscita dal mondo del disagio sociale, soltanto quando stavano in carcere, e questo è il paradosso, avevano un posto letto, avevano un lavoro, una cura, per cui tutto il periodo della misura alternativa era un periodo che non soltanto le vedeva sottoposte ad un controllo, ma era anche lo stesso periodo che consentiva loro di costruire “imitazioni di normalità”. Nel momento in cui però questo non succedeva, venivano scagliati un’altra volta nella realtà precedente e quindi perdevano il posto di lavoro, non avevano più le cure mediche, non avevano più qualcuno con cui parlare, lo psicologo che li seguisse, e quindi irrimediabilmente ricommettevano il reato. Ma se noi diciamo che le persone che hanno commesso due reati non possono più beneficiare di misure alternative alla pena, noi praticamente abbiamo dato un colpo fortissimo proprio a quel target di destinatari privilegiati, che rispondevano perfettamente ai nostri desideri di sicurezza, e abbiamo paradossalmente determinato l’insicurezza.

Allora, ecco che anche queste norme non sono più finalizzate a creare sicurezza, ma proprio il contrario, per cui io auspico davvero ci sia un ripensamento. Ma i ripensamenti vanno fatti guardando i numeri, ragionando, se si va per slogan ho paura che sia più difficile. Certo è che abbiamo escluso dai circuiti alternativi quei soggetti che forse erano i più meritevoli di attenzione.

 

Ornella Favero: Basta vedere i numeri, ci sono circa 20.000 persone detenute che hanno un residuo pena inferiore ai tre anni, vuol dire che è lì che si è rotto il meccanismo e che non funziona più, cioè 20.000 persone di cui 9.000 con meno di un anno di pena e sono tutte in carcere.

Enrico Sbriglia: Se si analizza con i dati alla mano, assumendoli però dalla stessa fonte, quella istituzionale, quella del DAP, l’esperienza delle misure alternative, addirittura io proporrei che queste siano considerate come atti amministrativi e non giurisdizionali, o meglio siano attribuiti come competenza proprio ai direttori penitenziari, che potrebbero, dal mio punto di vista, essere essi stessi a concedere i permessi premio, le riduzioni di pena e le semilibertà, lasciando alla magistratura di sorveglianza il controllo sul loro operato e la messa in prova al servizio sociale.

In questo modo i tempi di concessione sarebbero più rapidi ed anche la responsabilità più chiara, perché sarebbe una responsabilità immediata senza filtri, ma chi vuole onori deve anche accettare oneri. D’altra parte non si spiegherebbe perché in altri Paesi i permessi premio, ad esempio, siano misure considerate alla stregua di atti normalmente amministrativi. Così cambierebbe non solo la velocità, ma anche l’interesse; perché, vede, a me pesa non poco girare per il carcere e vedere tante persone che, dal mio punto di vista, assumendomene tutte le responsabilità, potrebbero trovarsi fuori, liberandomi posti letto, spazi, evitando contaminazioni pericolose, soprattutto se si tratta di giovani, o di persone che vivono un’esperienza nuova.

 

Ornella Favero: È una ipotesi su cui dovremmo riflettere, questa modalità sarebbe un po’ quella dell’articolo 21, cioè decisione del direttore e poi il magistrato che approva il programma, insomma più o meno questo. Noi per esempio pensiamo a un automatismo diverso, proprio per l’affidamento, per gli ultimi tre anni di pena, una specie di “patto per il reinserimento”, ma comunque il dato di fatto è che bisogna tornare a discutere seriamente di misure alternative.

Enrico Sbriglia: Ho la sensazione che non si comprenda che, essendo noi un’amministrazione pubblica, è necessario anche muoversi nell’ottica della celerità. Il processo deve essere fortemente pensato, deve rispondere a tante caratteristiche, a tanti bisogni, quello delle vittime, dello Stato nel vedere proclamata giustizia, il bisogno di vedere individuato il responsabile di un reato, però l’esecuzione penale deve rispondere a criteri di dinamicità, deve essere una utilità per lo Stato, non può diventare essa stessa una fonte di ulteriori problematicità, perché sarebbe come se si pagassero gli interessi degli interessi, non so se è chiaro.

Allora queste caratteristiche potrebbero tranquillamente ritrovarsi all’interno di un procedimento molto più raccolto di natura amministrativa, con a capo il dirigente penitenziario, il quale si avvarrebbe del parere del comandante, degli operatori dell’area pedagogica, dell’esperto psicologo. Ormai esiste una rete di soggetti che credo siano perfettamente capaci di esprimere una diagnosi da questo punto di vista, e quindi consentire una sperimentazione più veloce, se le misure alternative debbono ancora continuare ad avere un che di sperimentazione, e io ci credo, ogni volta che noi ci avviciniamo a qualunque persona e cerchiamo di indurla ad una modifica, ad un decidere altro, noi facciamo sperimentazione. La facciamo nella scuola, dentro la fabbrica, dentro ai partiti, la facciamo addirittura nelle riunioni di condominio.

 

Ornella Favero: Le assicuro che ne parleremo parecchio perché, tra l’altro, io oggi riflettevo su questi 20.000 che sono dentro, e sulle difficoltà che si incontrano per ottenere le misure alternative, e pensavo che, se si dovesse cercare di metterli tutti fuori, è difficile riuscire a offrire a tutti una possibilità lavorativa. E mi domandavo se non era il caso di pensare anche ad una misura che permetta la ricerca di lavoro, perché in fondo se una persona ha ancora da fare un anno, in ogni caso fra un anno si trova fuori, e senza niente. Invece se la mettiamo fuori a cercarsi un lavoro adesso è comunque meno rischioso.

Enrico Sbriglia: Lei ha significativamente dato già la migliore delle risposte, perché la vera cura per la sicurezza è il lavoro. Io mi auguro che le prossime misure che tratteranno la sicurezza diano la stura a tutta una serie di provvedimenti finalizzati a trovare situazioni di lavoro dignitose alle persone detenute. E non per un fatto, mi creda, di bontà, no, proprio perché se si vuole creare sicurezza, se vogliamo almeno usare le poche risorse che abbiamo, io sono convinto che riuscire a trovare un’opportunità di lavoro serio ad una persona detenuta che sia disposta a mettersi in gioco, costituisca la migliore sicurezza permanente che noi si possa dare.

La mia esperienza di direttore penitenziario mi dimostra che ogniqualvolta che siamo riusciti, insieme ai miei collaboratori, a trovare delle risposte lavorative serie nei confronti di persone detenute, ebbene non ricordo che siano più ritornate dentro. Mentre se io do ad una persona una borsa lavoro di 200 euro, è evidente che questa persona non sarà mai affrancata, non potrà mai avere una casa in affitto, non potrà neanche mai pensare di comperare una macchina di terza mano, non potrà sostenere una quotidianità che necessita naturalmente di risorse minime, ma certe, costanti nel tempo. Allora chiedo: si crea più sicurezza nel riuscire a inserire nel mondo del lavoro una persona tossicodipendente, o invece fare espiare alla stessa una pena in carcere, per un tempo tale che, se moltiplicato per quanto costa ogni giorno, noi avremmo rimborsato la pensionata scippata, facendole fare tutte le cure mediche possibili, e anche aumentandole la pensione?

Una volta, scherzando con dei colleghi, ma non è neppure tanto uno scherzo, ho detto: pensate un attimo se fuori dal carcere mettessimo un tabellone luminoso, come quelli che stanno sull’autostrada, dove da una parte apparisse il numero delle persone detenute presenti quel giorno, per esempio oggi 250, dall’altra quanto costa ogni giorno quella struttura, ad esempio 250 persone per circa 200 euro. Per cui un cittadino passa e ha la possibilità di capire quante risorse stiamo spendendo in questa giornata per fare sicurezza.

E poi invitiamo il cittadino a domandarsi se sia ragionevole, per esempio, condannare con una pena di un anno o più di carcerazione il tossicodipendente che ha scippato la pensionata portandole via la borsa e rubandole i 400 euro di pensione, e magari facendola anche cadere. Allora quante badanti avremmo potute assicurare a quella donna con i soldi che ogni giorno spendiamo per quel detenuto, quante cure mediche le sarebbero state assicurate?

Il paradosso invece è che, oltre a trovarci con la persona anziana ferita, violata, mortificata, noi continuiamo nell’opera di mortificazione dirottando quelle poche risorse che abbiamo per tenere in carcere l’autore del reato. Non sarebbe meglio se trovassimo misure alternative, che consentano a quella persona che ha commesso quel reato di risarcire effettivamente la persona che il reato l’ha subito? Se riuscissimo a trovare un rimedio che consenta al ragazzo autore dello scippo di risarcire in termini seri la collettività, e nel contempo lo allontani da un contesto penitenziario, dove semmai finirebbe per specializzarsi in altri reati? Mi pare che sia questa la sicurezza che tutti quanti dobbiamo cercare, e non altro.

Però mi rendo conto che fare questi ragionamenti non è sempre agevole, soprattutto perché mentre si informa dettagliatamente sul reato che ha subito la pensionata, poco si dice su quanto costerà, allo Stato e alla comunità, tenere in carcere una persona, per poi metterla fuori in condizioni peggiori di quando è entrata.

 

Ornella Favero: Da questo punto di vista per esempio quanto ci costerà questa politica rispetto al reato di immigrazione clandestina? Cosa succederà nelle carceri?

Enrico Sbriglia: Guardi, io da questo punto di vista non sono così pessimista, non credo che anche al legislatore manchi la previsione delle conseguenze del radicarsi di un principio di carattere penale su queste leggi. Però, a dire il vero, sul problema dell’immigrazione siamo ancora alle prime armi e spariamo un po’ di tutto e di più, nel senso che negli ultimi 15, 20 anni abbiamo alternato norme in materia non sempre coerenti.

E questo ci spinge a tentare di essere estremamente veloci nel trovare comunque delle soluzioni. Del resto un grande Paese come gli Stati Uniti nasce con l’immigrazione, e soprattutto con l’immigrazione clandestina. Basterebbe ricordare quell’antico acronimo, wasp, white anglo-saxon protestant, che vuol dire che soltanto chi era bianco protestante ed anglosassone poteva accedere agli Stati Uniti. Per dire come ci fossero delle forti discriminazioni basate su principi addirittura di carattere etnico. Se lei pensa che ancora oggi stanno continuando a costruire il muro che dividerà il Messico dagli Stati Uniti stessi, un’opera colossale, eppure parliamo di un Paese moderno, dove i diritti fondamentali sono costantemente rappresentati, allora che noi si abbia una politica anomala non deve meravigliare, certamente però non può neanche essere accettato quello che vedevamo fino a poco tempo fa, immigrati che vivevano in situazioni inadeguate in stamberghe dove pagavano un prezzo altissimo. Intervenire verso coloro che si arricchiscono sull’immigrazione clandestina, non credo che sia una cosa proprio sbagliata. Certamente ci sono però poi dei paradossi, ma mi sembra che quando si parla di regolarizzazione delle badanti, significa che se è pur vero che il governo a volte fa dei balzi eccessivi in avanti, però è anche vero che c’è chi in qualche modo nel governo stesso richiama ad una oculatezza e ad una attenzione maggiore.

Questo è un altro terreno di sperimentazione, in questo naturalmente io auspico che tutte le forze politiche, soprattutto quelle dell’opposizione, ancor prima di gridare al lupo, suggeriscano i rimedi. Invece si radicalizzano le posizioni estreme e noi di tutto abbiamo bisogno, tranne che di enfatizzare le posizioni estreme, abbiamo bisogno di avvicinarci il più possibile ad una normalità condivisa. Le dirò di più, di questo abbiamo bisogno, di una “mediocrità” di norme che però sia chiara e comprensibile a tutti.

 

Ornella Favero: Sulle ultime misure rispetto agli immigrati lei ha citato alcuni esempi di dove viene colpita appunto l’illegalità nel nostro Paese, e questo va bene, però mi pare che la norma secondo la quale una persona che è illegalmente sul nostro territorio commette un reato, per cui prima deve pagare una sanzione pecuniaria, per la quale comunque si avvierà un procedimento penale, non sia esattamente equa. Se poi la persona fermata non ha da pagare questi 5.000 euro, ad un certo punto è inevitabile che si aprano per lei le porte del carcere.

Enrico Sbriglia: Ma vede io non so se lo scenario che lei descrive poi può tradursi in qualche cosa di realmente praticabile, ma posso dire che non riesco ad immaginare una criticità che vada in tal senso, anche perché ci vorrebbero delle risorse, o meglio verrebbero distolte delle risorse, che tra l’altro sono già modeste proprio nell’ambito della sicurezza, e non credo che questo sia possibile; e poi alla fin fine, con le esperienze che in qualche modo ho avuto con quanti trattano questi problemi, parlo delle forze dell’ordine, l’atteggiamento della ragionevolezza in ogni situazione prevale.

Quello che è vero è che io, più che parlare di problematicità in capo alla persona che dovesse apparire illegalmente nel nostro Paese, penso invece alla complessità della procedura amministrativa che è necessaria perché si arrivi alla regolarizzazione. Cioè la mia sensazione è che in questo ambito è stato fatto uno sforzo modesto, e se con le vecchie normative, che sono tra l’altro ancora attuali, abbiamo accumulato un numero impressionante di richieste di regolarizzazione che non trovano ancora oggi soluzione, mi chiedo come faranno ad affrontare addirittura il debito nuovo. Cioè lei sa che c’erano le diverse procedure attraverso l’ufficio postale per rendere tutto più semplice, le domande presentate in un certo modo e con una certa tempistica. Ebbene io ho avuto l’avventura di conoscere tante persone extracomunitarie già regolarizzate, che cercavano ulteriori conferme al loro status, e ancora adesso aspettano le risposte amministrative che le riguardano. La cosa peggiore, e forse su questo potrei essere d’accordo con lei, è comunque fare delle norme che non si è poi capaci di governare, il che determina una insicurezza che è proprio il contrario di quello di cui stiamo parlando da sempre, cioè la prima sicurezza è la conoscenza chiara della tempistica per ogni provvedimento.

 

Ornella Favero: Vorrei parlare con lei anche del piano carceri. Me lo sono letto accuratamente, e al di là del fatto che richiede tantissime risorse, di cui buona parte non si capisce da dove verranno reperite, al di là del fatto che manca il personale anche per far funzionare le carceri che già esistono, Rieti e Bergamo sono carceri nuove che non sono state ancora aperte, perché appunto manca il personale, di fatto non mi sembra una soluzione, visto che praticamente il numero di detenuti aumenta ogni mese di mille unità, e più della metà, tra l’altro, sono in custodia cautelare, quindi c’è un numero abnorme di persone in attesa di giudizio, che magari passano per il carcere per pochi giorni.

Enrico Sbriglia: Allora, le mie risposte chiaramente risentono proprio del luogo dove lavoro, della realtà territoriale nella quale sono impegnato. Qui a Trieste posso vantare una piccola fortuna, quella di aver trovato un contesto di giudici, ma anche di PM, che hanno nei confronti di queste problematicità un atteggiamento pragmatico, nel senso che l’effetto “porta girevole” (ingresso e uscita dal carcere nell’arco di pochi giorni) non è così marcato come mi pare accada altrove. Addirittura credo che i magistrati si facciano carico dei nostri problemi penitenziari, e sono convinto che quando assumono le loro decisioni tengono conto anche di quello che è il contesto. Per cui, come dire, l’effetto dei pochi giorni di detenzione è molto modesto, anzi addirittura rilevo come ci sia anche un’attenzione singolare, per esempio, rispetto al lavoro esterno, che non di rado viene concesso a persone che non sono definitive. In maniera frequente proponiamo infatti il lavoro all’esterno per detenuti che sono appellanti, sono ricorrenti, e la magistratura, che comprende le nostre esigenze, in qualche modo accetta questa partita.

Invece, rispetto al piano carceri, o meglio il piano Ionta, io di primo acchito preferirei non esprimermi, però se devo dire ciò che penso, temo che Ionta sia caduto in una sorta di imboscata, cioè che abbia cercato dove c’era il nulla. Nel suo piano per esempio io vedo che manca il guizzo, manca la fantasia, l’innovazione, la modernità, manca soprattutto il richiamo della sirena verso i naviganti, manca il richiamo al business sociale, che pure era possibile lanciare, controbilanciando gli interessi in gioco.

Vede io ho studiato a lungo, anche per motivi di esperienza amministrativa e politica (sono stato per diverso tempo assessore al bilancio del Comune di Trieste e quindi avevo a che fare con quelli che si chiamano strumenti finanziari), e sono certo che il business sociale può essere validamente praticato nel settore penitenziario, pur lasciando in maniera marcata in mano pubblica i servizi alla persona. È un fatto vero che occorre investire nelle strutture penitenziarie, anche soltanto perché quelle che abbiamo sono orrende, investire in una migliore architettura, un’architettura che sia rispettosa, posso dirlo?, anche del bisogno del bello, del personale penitenziario, e delle persone che vivono nelle carceri.

Io credo che l’impegno di validi professionisti, e anche delle risorse interne (abbiamo ingegneri, abbiamo architetti) potrebbe aiutarci, però tutto questo nel piano Ionta io non l’ho visto. È evidente che quando si parla di piano carceri come strutture, esse non sono la risposta unica, avrei immaginato un ventaglio di soluzioni, fra cui una rivisitazione di quelle norme di cui parlavamo prima, la ex Cirielli, una migliore agibilità delle misure alternative e anche un possibile uso dei braccialetti elettronici.

Il sovraffollamento, dal mio punto di vista di direttore penitenziario, non può essere affrontato esclusivamente immaginando la realizzazione di nuove carceri, anche se quello delle nuove carceri è un problema che esiste, perché le carceri che noi abbiamo secondo me sono, in gran numero, indegne, sono un’offesa alla dignità degli operatori penitenziari e delle persone detenute. Sono un’offesa per le persone che accedono in istituto per parlare con i propri cari, un’offesa nei confronti dei magistrati che vengono a fare i loro atti giudiziari dentro le carceri. Sono un’offesa per chiunque ha a che fare con questo contesto, che non si mostra all’altezza di proporre una situazione civile, investendo seriamente e nel rispetto dei bisogni fondamentali di una persona, che sono aria, spazi minimi decenti, pulizia dappertutto, estetica delle architettura, in quei luoghi che conterranno, contemporaneamente, persone detenute e operatori penitenziari e quanti, a diverso titolo, sono gli attori del mondo penitenziario.

Noi al detenuto sottraiamo la libertà, il patto deve essere questo: ti togliamo un pezzo di libertà, non possiamo toglierti anche la dignità.

 

Ornella Favero: Una curiosità: voi direttori siete stati interpellati dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria prima che venisse steso questo piano carceri?

Enrico Sbriglia: Veramente no, e anche questo è significativo, perché, le dirò di più, tanto sto parlando come rappresentante di un sindacato quindi queste cose le posso anche dire, io non sono neppure così d’accordo con quella che è stata la produzione circolare degli ultimi mesi da parte del Dipartimento, perché è sostanzialmente deludente.

 

Ornella Favero: L’ultima circolare intende dire, quella che in sostanza, per far fronte al sovraffollamento, invita a tenere aperte le celle e concedere ai detenuti quel che è possibile per “tamponare” la situazione?

Enrico Sbriglia: È come se si ritenesse che i problemi possano risolversi semplicemente con le carte. Io quando vado in Istituto vedo delle persone che esigono delle cose, non chiedono i principi ma cose: più spazio, poter usufruire delle docce, più opportunità per la socialità. Io non voglio le circolari, io voglio le risorse, mi spiego?

Quando si parla di assetto multidisciplinare, di cosa stiamo parlando, se non ci sono gli psicologi, e quei pochi si vedono dimezzate le ore dentro al carcere? Di quali assistenti sociali parliamo se non si fanno concorsi per assistenti sociali? Se non ci sono educatori, e meno male che dove ce n’era uno adesso ce ne sono due, ma ne servirebbero più di sette.

Lei ricorderà anche quella circolare che prevedeva che i detenuti appena entrati dovevano stare una settimana in stanze diverse, quasi una sorta di beauty farm, per non sentire il disagio dell’impatto col carcere? E però dopo una settimana li possiamo scagliare nei gironi infernali. Ma, dico, stiamo scherzando? Io certi detenuti “nuovi giunti” li devo addirittura mettere per terra.

Allora, perché fingere di non vedere queste cose? Perché vomitare disposizioni, che fanno sorridere o forse piangere? Nelle ultime disposizioni che ho letto viene riesumata una circolare del 1997 a firma di Nicolò Amato, dove si dice che per rinfrescare i detenuti dobbiamo portar loro anche il ghiaccio. Lei può immaginare il ghiaccio portato ai detenuti? Ma di quale carcere stiamo parlando, di quale società stiamo discutendo?

Allora dire queste cose significa essere completamente decontestualizzati, cioè avere una visione personalissima ed esterna, anzi direi estranea da quella che è la realtà.

Io mi sarei aspettato altro, mi sarei aspettato dei discorsi di altro tenore: “Carissimi direttori, sappiate che a forza di insistere con il ministro Alfano e con il ministro dell’economia Tremonti, sono riuscito a trovare tot milioni di euro, e con queste risorse cercate almeno di alleviare in qualche modo i problemi dei detenuti”.

Lei guardi le circolari che sono arrivate, e cerchi uno spazio anche modesto dove si parli delle nuove risorse disposte. Inoltre, una recente circolare sembra che orienti a dissuadere i direttori e gli operatori a rilasciare “interviste”…

 

Ornella Favero: Mi scusi, quest’ultima circolare di che cosa parla?

Enrico Sbriglia: Sono state emesse delle disposizioni dove viene condizionata la facoltà dei direttori di esprimere delle dichiarazioni, perché potrebbero muoversi nell’ottica contraria a quelli che sono i principi dell’azienda… Ecco se fossimo un’azienda… Allora io dico che forse chi suggerisce al Capo del DAP queste circolari dimentica che gli operatori penitenziari tutti, anche l’ultimo agente appena assunto, sono costretti obtorto collo ad essere, fra virgolette, “intellettuali”, cioè ad usare testa e parola, perché non possono usare armi dentro le carceri, non possono usare la forza, e non hanno risorse, non possono dar nulla al detenuto, se non intervenire attraverso il dono della parola.

Quindi si è costretti giocoforza a diventare tutti intellettuali, si dimentica che l’attività degli operatori penitenziari oggi è innanzitutto una attività intellettuale, e a chi svolge una attività intellettuale, non si può dire: “Tu prima di parlare con la stampa devi essere autorizzato”, oppure “Devi passare attraverso questo canovaccio”. E questo non soltanto perché il diritto di parola è un diritto costituzionale, ma anche perché, ove il sottoscritto sbagliasse o altri sbagliassero, esiste già il sistema “di cura”. Ho detto qualche cosa per cui ho diffamato? Denunciatemi. Ho detto qualche cosa che mette in cattiva luce l’Amministrazione? Fatemi il procedimento disciplinare, ma non potete dirmi che non posso parlare, è una forzatura incomprensibile, sono stato chiaro?

Il carcere è una sorta di agorà sociale, e nell’agorà sociale tu non puoi impedire che si sviluppino le opinioni, anche perché è grazie a questo che riusciamo a governare le carceri: abbiamo forse altri strumenti? È soltanto cercando di convincere il detenuto ad assumere un atteggiamento più razionale, a sapersi fare due conti sulla sua vita, sulla sua storia, a tener conto delle conseguenze che possono determinarsi da un suo procedere in un modo diverso, che noi riusciamo a governarlo. Allora una concezione diversa mi riporta ad un modo di pensare le carceri che, non le nascondo, un po’ mi spaventa. Il carcere che non vuole dar conto di sé, anche attraverso il più umile dei suoi operatori penitenziari li dove sia chiamato ad esprimersi, per me diventa un carcere pericoloso.

 

Ornella Favero: In questo momento mi interessa anche un altro tema su cui mi piacerebbe che i direttori si esprimessero: il ruolo del volontariato. Ne parlo perché vedo situazioni strane, cioè che da una parte il volontariato viene usato quando ce n’è bisogno, ultimamente sulle cose concrete ce n’è un bisogno enorme, nello stesso tempo è un volontariato che ha pochissimi spazi di autonomia, ed è poco riconosciuto, per cui mi piacerebbe ragionare anche di questo con i direttori.

Enrico Sbriglia: Ma vede, io ho la fortuna da tanti anni di avvantaggiarmi del lavoro dei volontari, e quando parlo del lavoro dei volontari non mi riferisco alle cose che essi danno, ma alle cose che dicono. Il mondo del volontariato, dal mio punto di vista, è un po’ una sorta di riscatto della società che non vuole vedere. La situazione strana, per certi versi, è che sempre più il volontariato si sta evolvendo in un volontariato professionale, e questo non è sbagliato perché, in un contesto così caratterizzato come quello del carcere, non è che si può essere volontari così semplicemente, davvero occorre investire tempo e risorse per farlo.

Potrei dire anche che si sta sempre più avvicinando a una forma di servizio civile, che in altre realtà è saldamente in mano allo Stato. Da noi vedo che si sta man mano maturando in tal senso, per cui ho la sensazione che si arriverà al punto che davvero sarà difficile, per lo meno per me, distinguere la tipologia di intervento dell’operatore “professionale”, da quello che viene indicato, forse in maniera anche riduttiva, “volontario”.

I volontari che noi abbiamo in carcere oggi non sono più quelli di 15 o 20 anni fa, non sono quelli che vengono a portarti le sigarette, lei immagini soltanto, per quanto riguarda le persone straniere, tutte le tematiche che riguardano la regolarizzazione, il mantenimento dei rapporti con la famiglia, con le autorità consolari… Queste attività richiedono competenze che molto probabilmente neanche i direttori hanno, e quindi lei comprenderà come diventa riduttivo considerare questa risorsa del volontariato come di seconda mano o suppletiva. Io vedo una sempre maggiore progressiva responsabilità, che dal mondo del volontariato sta venendo. Attenzione, le parlo sempre tenendo a mente quella che è la mia professione, quindi potrei anche andare fuori traccia, però è davvero singolare confrontarsi con dei volontari che prima di fare un intervento articolato, si interrogano sulla perfetta liceità di quello che stanno facendo. Una volta non era così, io ricordo che addirittura c’era una sorta di atteggiamento di reciproca diffidenza, invece ho la sensazione che nel tempo il volontariato, proprio perché ha cominciato a strutturarsi, si è fatto carico anche della responsabilità, diversa rispetto a quella del passato, cioè la responsabilità di cosa può significare l’insuccesso di un progetto, non tanto sul piano penale delle conseguenze che possono derivare, ma delle conseguenze che possono derivare al progetto più ampio che si sta facendo.

Quindi sto rilevando un atteggiamento molto più realistico rispetto al passato e questo credo che sia un fatto positivo, un fatto sul quale noi dovremmo interrogarci. Poi personalmente registro già da qualche tempo una perfetta sintonia tra quello che fa il volontariato in senso lato, e ciò che fanno gli operatori penitenziari. Questo significa che i volontari sono stati capaci di spiegarsi bene, soprattutto con quelli che erano gli interlocutori più prudenti, sì, più prudenti, e questo secondo me non è un fatto negativo, è un fatto che pure ci deve in qualche modo incuriosire. Da questo punto di vista, anche quando prima parlavo della costruzione di nuove strutture penitenziarie, un tavolo di lavoro che fosse davvero tale, un percorso condiviso, io credo che sarebbe un’occasione per aprire la questione delle nuove carceri investendo della problematicità anche il mondo del volontariato, perché è paradossale che il volontario, che forse trascorre più tempo in carcere di tanta intellighenzia penitenziaria, non possa pronunciare un suo suggerimento, non le pare una cosa strana questa? In fondo il nostro mondo di volontariato è fatto spesso di persone che sono dei professionisti, è facile trovarci persone che nella loro vita non penitenziaria sono ingegneri, architetti, artisti che potrebbero offrire dei suggerimenti, delle intuizioni significative. Invece pare che queste cose non interessino.

 

Ornella Favero: Ma forse perché c’è spesso proprio nell’istituzione un’idea vecchia del volontariato.

Enrico Sbriglia: Sì, questo è vero, secondo me c’è l’idea del paguro bernardo, lei sa che il paguro bernardo è quello strano esserino dove c’è uno che fatica, e l’altro che vive vegeta e mangia sulle spalle del primo. Ecco in realtà potrei dire “il lavoro sporco facciamolo fare ai volontari”, e questo non va bene perché non è utile, non è giusto e perché in questo modo invece di allargare la platea dell’attenzione sociale, rischiamo di restringerla. È allargando la platea dell’attenzione che riusciamo a ricollocare, dando ad esse il nome e il cognome, riconoscendole, le persone detenute. Il volontariato fa proprio questo, riconosce quelli che noi non siamo in grado di capire, perché un direttore, uno psicologo, un educatore, non sempre riescono ad entrare nelle storie, cosa che invece il volontario fa. Colui che, per esempio, si occupa dei problemi dell’alcolismo entra, ti conosce, percorre la tua storia e quindi fa un’operazione particolarmente significativa, e quando poi partecipa alle attività di trattamento, porta un risultato che altrimenti noi non avremmo. Ecco perché dico che va ripensato il rapporto con il mondo del volontariato, sempre più specialistico, più professionalizzato anche se svolto normalmente con principi di assoluta gratuità, perché la soddisfazione che una persona riceve nell’aiutare un altro è una benzina che la fa camminare per tanto tempo. Quindi comunque c’è un ritorno di utilità, un’utilità diversa, morale, che riscalda, un’utilità dell’anima.

In carcere ho conosciuto molte persone che hanno ucciso per una parola mal detta, per un sentimento offeso, o troppo forte. Allora, se con i sentimenti forti si può uccidere, con gli stessi sentimenti si può anche costruire.

 

Ornella Favero: Ho sollevato questo tema appunto perché mi piacerebbe un confronto più serio e più coraggioso. Io per esempio sono abbastanza stanca di sentirmi dire: “…ma tu non rappresenti l’istituzione, io invece sì”. Io vedo un volontariato impegnato su fronti molto complessi, prima si parlava per esempio di misure alternative. Le associazioni di volontariato spesso seguono anche molti detenuti che stanno uscendo e che lavorano fuori, questa è una fase in cui molto spesso le persone sono in grande difficoltà, e a volte proprio il volontariato si fa carico di responsabilità grosse, per cui mi piacerebbe ragionare sul volontariato di oggi.

Enrico Sbriglia: Sa perché il volontariato in certe situazioni non piace? Perché il volontariato è libero. Questa è una cosa pesante, perché significa anche libertà di esprimersi, libertà di dire le cose che si pensano. Però vede, adesso sono io che faccio una domanda a lei: “La libertà, secondo lei, non è forse una conseguenza della legalità?”. Sinceramente, quando si hanno atteggiamenti di particolare diffidenza nei confronti del mondo del volontariato, io sono un po’ preoccupato, perché il nostro sistema penitenziario, piuttosto che delle circolari che abbiamo visto in questi ultimi anni, avrebbe bisogno di sferzate di legalità. E queste sferzate di legalità, per essere tali, devono venire attraverso il conferimento di risorse vere, economiche, di personale penitenziario, di educatori, di mediatori culturali, di psicologi, di medici, di formatori professionali. E se in questo contesto siamo aiutati dal mondo del volontariato, non è forse la migliore sintesi possibile?

Invece ho la sensazione che questo faccia paura, come fa paura avere un volontariato libero, quasi che libero significhi un volontariato arbitrario, che non rispetta le regole.

Ecco, quando lei mi diceva che si confronta con quanti dicono “Noi siamo le istituzioni e voi no”, io replico che tutti noi siamo istituzione, lei diventa istituzione nel momento in cui varca la porta del carcere. Soltanto che bisogna anche capirci su cosa sono le istituzioni, mica per forza le istituzioni devono esprimere forza, crudezza, violenza, possono invece anche esprimere ascolto, attenzione, esigenza di capire le cose.

 

 

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